Non ha fallito il capitalismo, ma la politica. Ritorniamo alla Costituzione

Le cause della crisi

Quali sono le cause della crisi economica? In una pubblicazione del 2011 ho suggerito la seguente interpretazione. La crisi è il frutto di un paradigma politico-filosofico (il paradigma hayekiano o neoliberismo, per esser chiari) la cui applicazione ha generato una crisi sociale, che a sua volta ha prodotto una crisi economica e finanziaria. Il fallimento di quel paradigma-mondo ha lasciato un vuoto politico, causando, di conseguenza una ulteriore crisi: quella politica per l’appunto. Un ciclo, dunque: da una crisi politica all’altra.

Ecco i punti essenziali di quel paradigma:

  1. La onniscienza e la onnipotenza del mercato. L’idea è che il mercato sia l’unico e migliore strumento per la produzione di ricchezza (il che è essenzialmente vero) e l’unico e migliore strumento per produrre benessere per tutti (il che si è dimostrato falso). Da questo assioma ne discendono alcuni corollari: a) che nessuno si azzardi ad intromettersi nel libero e sacro gioco delle forze di mercato; b) la politica ed i sindacati non possono che far danni; c) il salario è un fattore della produzione come tutti gli altri, e il lavoro è una merce come tutte le altre: quindi sia il mercato a stabilire il livello delle retribuzioni.
  2. Più una società è sperequata maggiore è la sua capacità di generare progresso. E’ il movimento del bruco: con una testa che avanza, mentre la coda resta indietro; la testa poi si ferma e il resto del corpo avanza a sua volta. Pare che Hayek immaginasse così lo sviluppo della sua Società libera. Anche da questo assioma ne discendono alcuni corollari: a) è necessario che la politica intervenga per sperequare la società; b) sono i ricchi il motore del progresso; c) perchè questi possano assolvere alla loro missione storica è necessario prevedere per loro un regime fiscale di favore; d) i soldi non prelevati dal fisco dalle tasche dei ricchi saranno investiti in nuove attività produttive, che genereranno nuova ricchezza, nuovi posti di lavoro e quindi nuovi salari; la ricchezza così sgocciolerà verso il basso, e la coda della società si riunirà alla testa dei pionieri.

Sia detto per inciso. Questo paradigma si è imposto (con intensità certo differenti) a tutte le forze politiche, sia di destra che di sinistra. Fu la stella polare sia dei conservatori inglesi che dei repubblicani americani, sia del New Labour di Blair, che dei New Democrats di Clinton, sia dei governi di centro-destra che di centro-sinistra in Italia. Tutti hanno fatto professione di fede nei confronti dell’idea dell’onnipotenza ed onniscienza del mercato. Per inciso, nel suo ultimo messaggio agli italiani (quello del 18 settembre 2013) l’ex presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, ha indicato nella ricetta liberale (è lecito pensare che volesse dire liberista), e cioè meno tasse e meno Stato, la formula che, ovunque applicata, ha prodotto crescita e sviluppo. Al di là di tutto, mancano alcune precisazioni: meno tasse per chi? Meno Stato dove? Il punto è che in Italia continua ad esser poco chiaro che è stata proprio quella formula a produrre la crisi.

Ritorno ad Hayek: il suo paradigma ha mantenuto le promesse fatte? No, le cose sono andate solo in parte come Hayek aveva immaginato. Ricchezze stratosferiche sono state prodotte, ma non per tutti. Allentati (o eliminati) quei vincoli istituzionali che erano stati creati nel dopoguerra per produrre una ricca e prospera classe media (welfare state, tassazione fortemente progressiva etc), la sperequazione economica e sociale è cresciuta sempre più. La classe media si è sfaldata, impoverendosi, mentre una piccola pattuglia ha continuato la sua corsa in avanti, ma in solitario. Il convoglio non ha seguito la locomotiva. Il bruco è morto: si è strappato.

Serve un ulteriore inciso. Questa crisi non può essere definita una crisi del capitalismo. Il capitalismo non ha fallito. Anzi. Il suo lavoro lo ha fatto: ha prodotto ricchezza. Il fallimento è della politica, il cui compito è garantire il benessere dei più. A fallire non sono stati i mercati, ma l’idea politica che vedeva nei mercati il perfetto strumento per il perseguimento del benessere generale. Per esser più precisi, i mercati falliscono (smettono cioè di produrre ricchezza) quando la politica non fa il suo dovere (quando soffoca il mercato o quando non garantisce il benessere dei più): simul stabund, simul cadent.

Quel paradigma, dunque, ha prodotto una crisi sociale, una vera e propria questione sociale. Come definire una questione sociale? Ci troviamo di fronte ad una questione sociale quando vi è la compresenza di almeno questi due elementi: 1) polarizzazione economica (misurata dal indice di Gini); 2) polarizzazione sociale, che è il frutto della occlusione o privatizzazione dei canali di ascesa sociale (la scuola pubblica) e di assistenza sociale (sanità e pensioni pubbliche). Che significa? Significa che se qualcuno diventa povero, rimane povero. Lui e tutta la sua famiglia. Le vie di un riscatto sociale attraverso l’istruzione sono sbarrate: le scuole e le università, che assicurano una qualche speranza di mobilità sociale verso l’alto, sono private, quindi a pagamento, quindi aperte solo ai figli dei proprietari della locomotiva. Piove sul bagnato, a chi ha sarà dato. Le repubbliche si trasformano in aristocrazie. Non solo. Se oltre a diventar povero, si ha la sfortuna di ammalarsi, si rischia di morire, perchè i medici (in assenza di una sanità pubblica) costano e così le cure e le medicine. E se, mettiamo per ipotesi, il nostro amico neo-povero fosse vittima di un sopruso? Anche gli avvocati bravi costano.

Nessuno poteva prevederlo? Nient’affatto. Esiste anzi una regolarità. Ogni qualvolta è divenuta dominante l’ideologia, che innalza il mercato ad un idolo sacrale, i disastri sono stati immani. C’è una questione sociale (alla quale cercarono di porre rimedio i Gracchi) prodotta da un mercato senza contrappesi (la redistribuzione delle terre) dietro la caduta della repubblica romana e l’avvento della tirannide imperiale, che condurrà al crollo di Roma. C’è una questione sociale (alla quale cercheranno di porre rimedio i Ciompi) nella Firenze rinascimentale, prodotta da un mercato senza contrappesi (sostegno ai salari di quel primo proletariato moderno), che condurrà all’avvento della tirannide medicea. C’è infine una crisi sociale dietro la crisi del 1929, gonfiatasi nel corso della lunga Gilded Age. Una crisi che in Europa sarà uno degli elementi essenziali per l’avvento delle due tirannidi, quella fascista e quella nazista.

In sintesi, il mercato, strumento essenziale sia per la produzione di ricchezza sia per garantire attraverso il pluralismo economico quel pluralismo politico che è la chiave del successo occidentale, produce naturalmente ricchezze e questioni sociali. E’ compito della politica garantire il benessere dei più, individuando quel giusto mix di tassazione progressiva, necessaria per tosare il capitalismo (come avrebbe detto Olof Palme), e redistribuzione delle ricchezze e delle possibilità, senza uccidere la pecora o, per rimanere nel campo delle citazioni animalesche, senza tirare il collo alla gallina dalle uova d’oro di Zdanov.

La costituzione è la soluzione

In apertura ho detto che il ciclo della crisi inizia con la falsificazione di un paradigma politico (la crisi economica e sociale ha mostrato che le promesse fatte da quel paradigma non sono state mantenute) e si chiude con una crisi politica, producendo così vuoto e disorientamento: a quale nuovo e scintillante paradigma votarsi allora?
Il guaio è che i tempi per il sorgere di un nuovo paradigma dominante possono essere lunghissimi. Tuttavia, noi, in Italia, questo problema non ce l’abbiamo, dato che i nostri padri fondatori ci hanno dato la soluzione: la Costituzione della Repubblica.
Anzi a dirla tutta, se solo avessimo dato una completa attuazione alla nostra carta fondamentale è probabile che non ci troveremmo nella situazione in cui siamo.

In precedenza, ho sostenuto che il mercato lasciato a sé stesso produce naturalmente una questione sociale. Una questione sociale, che se non risolta genera naturalmente la tirannide, forte del consenso delle masse dei diseredati, vittime del mercato. Il che significa che per impedire l’avvento del tiranno, non è solo necessario costruire i valli, i fossati e le mura previste dal piano di difesa elaborato nei secoli dalla tradizione liberale (separazione dei poteri, nomocrazia, rigidità della costituzione e tutto il rosario delle libertà liberali etc), è necessario anche che non si produca una questione sociale, che possa sospingere, spronare ed incitare l’aspirante tiranno ad impadronirsi del potere assoluto. A proposito di cittadelle fortificate, sia perdonato un ulteriore inciso riguardo al dibattito in corso circa i progetti di riforma della nostra carta fondamentale. La Costituzione è modificabile (l’art. 138 è lì apposta). Anzi, ad eccezione della forma repubblicana (art. 139), tutto il resto della Costituzione può essere soggetto a revisione, anche la prima parte ed anche l’articolo 138: altrimenti il potere costituente avrebbe disposto in modo differente. Tutto è, dunque, riformabile ma solo in senso, come dire, addizionale: nuovi diritti e nuove tutele possono essere aggiunge alla Carta, e il procedimento di revisione costituzionale può solo essere ulteriormente aggravato. Ciò che non si può fare è sottrare e semplificare. Per quanto riguarda i diritti, il motivo dovrebbe essere intuitivo. Ma lo stesso discorso vale anche per l’art. 138: un qualsiasi snellimento della procedura prevista per la revisione della Carta, sebbene fatto con le migliori intenzioni, rappresenterebbe un pericoloso precedente. Semplificare l’art. 138 significherebbe comunque iniziare ad intaccare i sistemi difensivi della cittadella repubblicana. Quanto previsto in Costituzione, sebbene ancora non attuato e per quanto possa apparire lento e spossante per la rapidità dei tempi moderni, deve comunque essere considerato un minimo insindacabile, al di sotto del quale non si può scendere.

Ritorno al tiranno. Dunque, serve un doppio piano di difesa, che gli impedisca di conquistare il potere assoluto nottetempo con la forza o l’astuzia e che impedisca che egli venga invocato nelle piazze, sospinto e benedetto dalle folle che, vittime della questione sociale, chiedono una qualche forma di giustizia sociale. Ebbene, nella nostra Costituzione è presente questo doppio piano di difesa: quello liberale e quello che potremmo definire socialista.

E non è solo il fatto che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro (e non sulla rendita) il che è già un programma. L’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale” e, in forza di ciò, “sono eguali davanti alla legge”, non c’è principe del foro che tenga. E poi un comma che è un capolavoro: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Che significa? Tra le tante altre cose, significa che è compito quotidiano della Repubblica neutralizzare gli effetti deleteri del mercato (la polarizzazione economica e sociale di cui sopra) e vigilare costantemente per prevenire il sorgere di una nuova questione sociale, impedendo che il cittadino, che è sovrano de jure nelle pagine della Costituzione, si trasformi de facto in un servo. Il che significa anche la costituzionalizzazione del principio per il quale senza giustizia sociale non vi può essere libertà. Ecco perché la nostra Costituzione si apre con la parola lavoro e non libertà: senza lavoro, senza la certezza di una indipendenza economica frutto della propria opera, non vi può essere libertà.

L’articolo 36 costituzionalizza il seguente principio: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. En passant, se si fosse rispettato quest’articolo nessuno avrebbe avuto il problema di arrivare dignitosamente a fine mese e mai avrebbe dovuto fare la sua comparsa il fenomeno dei working poors.
Quelle tre parole “un’esistenza libera e dignitosa”, valgono quanto biblioteche di trattati. Perchè? Perchè se quel principio non viene garantito la Repubblica rischia di morire. Un cittadino che ha fame è disposto a vendere il proprio voto e, in casi estremi, a prestare il proprio braccio a chiunque gli prometta il pane, fosse anche per rovesciare tutto l’ordinamento costituzionale. In altre parole, la fame spinge il cittadino a cedere volontariamente i propri diritti, trasformandosi così in un suddito, o peggio, in un servo.
L’articolo 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Ogni commento è superfluo, basti solo far notare che quello alla salute è riconosciuto come un diritto fondamentale, come la libertà di parola e di stampa. Chi tollererebbe che tali diritti subissero delle limitazioni, mettiamo in tempi di minacce alla sicurezza nazionale? Voglio sperare nessuno. Perchè allora tollerare che, in tempi di difficoltà economica in nome dell’austerity, il diritto alla salute, a causa dei tagli alla sanità, rischi di essere compromesso?

L’art. 33 si preoccupa della questione della mobilità sociale e cioè la scuola: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. E’, dunque, la Repubblica che garantisce che l’ascensore sociale funzioni, per tutti. Ed infatti l’art. 34, sancisce che: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Non c’è Ivy League che tenga.

Ritornando alle questioni del lavoro, l’art. 38 costituzionalizza il principio secondo il quale i cittadini italiani “hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. In verità, l’art. 38 parla di lavoratori, non di cittadini. Tuttavia, se l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, allora vuol dire che il cittadino non può che essere un lavoratore, o un aspirante tale, di conseguenza si può sostenere che vi è identità tra il concetto di lavoratore ed il concetto di cittadino. Il che implica che è compito della Repubblica garantire un’esistenza libera e dignitosa ad ogni cittadino italiano, che, a causa di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, non sia in grado di farlo da sé.

L’art. 39: “L’organizzazione sindacale è libera. (…) I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Altro che moderazione sindacale, altro che divieto di interferire nelle sacre leggi del mercato. I sindacati devono interferire, devono disturbare le regole del mercato, tutelando i diritti e i salari dei cittadini, e devono intervenire per tentare di acquisire l’obiettivo della piena occupazione. Probabilmente non è eccessivo sostenere che con questo articolo si costituzionalizza il principio per il quale il lavoro non è una merce come tutte le altre.

L’art. 41 si apre con un principio che dovrebbe mettere a tacere ogni vagheggiamento di fuoriuscita o di superamento del mercato e del capitalismo: “L’iniziativa economica privata è libera”. E’ un principio costituzionale. Tuttavia, come aveva chiaramente intuito Marx, dato che il mercato risponde a sue ferree leggi (la necessità di ottenere un profitto a fronte di una serrata concorrenza da parte di altri operatori economici), c’è il rischio che queste ferree leggi mortifichino o calpestino alcuni diritti costituzionalmente garantiti. Di qui la precisazione: l’iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. E poi precisa: “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Sarebbe interessante contare quante volte ricorra nella Costituzione l’aggettivo “sociale”.

Sin qui si è detto della produzione della ricchezza (art. 41) e della redistribuzione della ricchezza per creare le condizioni per il benessere dei più (art. 3). Manca l’altro fondamentale strumento che la politica possiede per plasmare la società: le tasse. L’art. 53 costituzionalizza il principio della tassazione progressiva (principio che per Hayek è poco meno di un furto): “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Non si scappa: chi voglia introdurre un principio di tassazione proporzionale dovrebbe mettere mano ad un riforma costituzionale.

Questo solo per citare i punti più significativi (tralasciando l’art. 46, sulla cogestione aziendale e l’art.47 che favorisce, tra l’altro, “l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”), necessari a mettere in evidenza una cosa. Se si legge la Costituzione, tenendo presente la definizione di questione sociale che si è data in precedenza, appare evidente come gli articoli citati siano l’argine che i padri costituenti avevano eretto perché gli italiani non vivessero mai più i drammi prodotti dalla questione sociale (dalla sue conseguenze economiche e politiche) che naturalmente viene generata dal mercato. In altre parole, i nostri padri fondatori hanno posto in Costituzione l’obbligo di prevenire il sorgere di una questione sociale.

Il che, per inciso, significa, che i precetti neoliberisti, in Italia, mai avrebbero dovuto trovare ospitalità in quanto incostituzionali. Ma quell’argine non ha retto. In alcuni punti ha ceduto, anzi è stato fatto cedere.

Tuttavia, non tutto è perduto. Il precetto costituzionale può essere ancora il programma con il quale uscire dalla crisi, ricucire gli strappi sociali, risanare il malessere prodotto dalla questione sociale, ridare slancio ad una crescita economica trainata dalla domanda interna ed evitare altre derive ben più pericolose. E’ un programma elettorale e di governo.
C’è un’ultima cosa da dire. L’Italia non può fare da sola. Per curare i mali prodotti dal paradigma neoliberista e perchè una nuova fase di crescita possa vedere la luce, trainata da una ricca e prospera classe media, è necessario che il “programma costituzionale” sia anche un programma di governo europeo.

L’Italia può cambiare se anche l’Europa cambia. Non è retorica. In un libro del 2000, Tremonti scriveva, giustamente, che sono i ricchi a scegliere dove farsi tassare. Quando Hollande ha proposto una tassazione del 75% sui grossi capitali, questi hanno cercato riparo in Belgio. Se il principio di una tassazione progressiva, strumento necessario per mettere in atto politiche redistributive, di cui possono beneficiare tutti (visto che sostengono la domanda aggregata), non viene applicato quanto meno in Europa, sarà difficile poterlo fare in Italia. Bisogna lavorare perchè il vento cambi direzione. Si può fare, è già stato fatto. Basti pensare a F.D. Roosevelt.

E’ vero che un tale programma può sembrare più nelle corde delle sinistre. E sarebbe quanto mai opportuno che questo schieramento politico ponesse fine alla guerra che per decenni lo ha dilaniato, guerra da cui deriva una grossa parte dell’anomalia di questo paese, e trovasse un punto di unità intorno a questo “programma costituzionale”. Tuttavia non solo la Costituzione è patrimonio di tutti, ma essa è vincolante per tutti. E’ vincolante giuridicamente in quanto legge fondamentale, ed è vincolante politicamente, perché quel programma è necessario al perseguimento del benessere dei più (obiettivo che è il senso primo del fare politica) e perché un paese, in cui la maggior parte dei cittadini sta male, o arranca, non è solo un paese con il fiato corto e il futuro grigio, ma è anche posto nel quale neppure i ricchi, alla lunga, possono stare bene.

  1. Essenziale! Con la consapevolezza di poter disporre di una conoscenza degli assetti socio-economici europei in maniera decisamente appagante!

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