STORIE USATE

Siegmund Ginzberg

Mezzo mondo scagiona Putin

Mezzo mondo è propenso a scagionare Putin e a dargli credito. O almeno il beneficio del dubbio. Anche quando fa ammazzare gli oppositori. O fa condannare un militante per i diritti civili (Oleg Orlov non è nemmeno un rivale politico come lo era Navalny) perché si è permesso di scrivere un articolo contro la guerra in Ucraina dal titolo: “Volevano il fascismo? L’hanno avuto”. Così come nel 1933 mezzo mondo era propenso a dare credito a Hitler.

Erano per lo più indifferenti. Non erano necessariamente amici dei nazisti. Ma nel marasma di quegli anni erano portati a considerare il fascismo come il male minore. Giustificavano la mano dura dei nazisti contro sinistra ed ebrei. L’argomento era che se l’erano un po’ cercata. Consideravano dubbia l’autenticità degli eccessi denunciati, o li minimizzavano come preterintenzionali. Assassinii, pogrom, primi campi di concentramento: tutte comunque faccende “interne” alla Germania. Tra chi esprimeva comprensione per Hitler o suggeriva di lasciargli tempo c’era la maggioranza dell’opinione pubblica americana, metà dell’opinione pubblica britannica e francese. C’erano l’Ungheria, l’Estonia, la Romania, persino la Polonia. Speravano di trarne vantaggi sul piano delle loro rivendicazioni sui vicini. Per quanto possa apparire assurdo col senno di poi, nemmeno a Mosca erano preoccupati dell’arrivo di Hitler al governo. La Pravda minimizzò. Avrebbero continuato a lungo a dare addosso piuttosto ai socialdemocratici, alla borghesia, al capitalismo internazionale. Della democrazia di Weimar a Stalin non importava un fico secco. E nemmeno della sorte degli ebrei.

Tra i disposti a dare credito a Putin ci sono oggi i leader, attuali o potenziali, delle tre democrazie più grandi al mondo. Vada per la Bielorussia di Lukashenko. Si parla di Paesi con solide tradizioni democratiche, dove si è appena votato, o ci si appresta a votare democraticamente. In testa gli Stati uniti, dove l’incubo per mezzo mondo – la nostra metà – è che le presidenziali del 5 novembre le vinca Trump. Poi l’India, dove è dato per vittorioso il nazionalista hindu Narendra Modi. Poi, ancora, l’Indonesia, la terza democrazia più popolosa al mondo, dove ha vinto il generale Prabowo Subianto, l’uomo forte del momento. “Mezzo mondo” non è un modo di dire.

Per un verso è comprensibile. Il modo in cui Putin ha messo a tacere tutti i critici in Russia, ha fatto piazza pulita dell’opposizione, si fa obbedire, non può che suscitare ammirazione se non voglia di emulazione in tutti gli aspiranti uomini soli al comando. Non imbarazza più di tanto nemmeno il modo in cui ha liquidato Navalny. “Questioni interne russe”, è il passaparola. Pazienza se è orrendo. Poco elegante era stato anche il modo in cui un altro despota padrone del petrolio, il principe Mohammed Bin Salman, aveva fatto ammazzare un giornalista sgradito, Jamal Kashoggi. Dopo avere tenuto per un po’ il muso, tutti hanno continuato a omaggiare e a fare affari con l’Arabia saudita. Il candidato in pole position per la Casa Bianca, Donald Trump, si è degnato di menzionare in un post il caso Navalny solo dopo un lungo silenzio. Ma in una maniera che, lungi dall’accennare a una responsabilità di Putin, sembra addirittura giustificarlo. L’ha rigirata per sostenere di essere lui, Trump, non Navalny, un “perseguitato politico”. Se l’è presa con la masnada di “politicanti farabutti, radicali di sinistra, procuratori, e giudici che ci stanno conducendo sulla strada della distruzione”. Si è lanciato in una filippica contro “le frontiere aperte, le elezioni truccate e le decisioni grossolanamente ingiuste dei giudici”, che rischiano di fare degli Stati Uniti “una nazione in declino, una nazione che sta fallendo”. “La morte improvvisa di Alexei Navalny mi rende ancora più consapevole di quel che sta succedendo nel nostro Paese”, ha postato sulla piattaforma Truth. Solo in una successiva occasione  ha fatto un fugace riferimento al coraggio di Navalny: “Non capisco perché sia tornato”. Cosa che suona a metà strada tra l’insinuazione di incoscienza e quella di stupidità.

Trump ha una tradizione di scambio di complimenti con Putin. L’aveva chiamato pretty smart, “piuttosto intelligente” quando si stava accingendo a invadere l’Ucraina. Ora ha fatto correre un brivido a tutta l’Europa rivelando che, da presidente, aveva detto a Putin che “poteva fare quel che gli pare” con gli alleati Nato che non spendevano il dovuto in spese militari. Non lascia dubbi su come farebbe finire in quattro e quattr’otto la guerra in Ucraina. Non ha mai nascosto il suo isolazionismo: noi pensiamo agli interessi dell’America, gli altri si arrangino. Che poi è la posizione tradizionale dei repubblicani statunitensi. Anche se per questi estremi bisognerebbe risalire a prima della Seconda guerra mondiale, quando gli avversari del democratico Roosevelt – i Trump di allora – martellavano, grazie anche alle artiglierie pesanti della stampa e delle radio di destra, che con Hitler dovevano vedersela gli europei, non era roba che riguardasse gli americani.

Ci sono in cielo e in terra molti più fan di Putin di quanti ne sogni la tua filosofia, Orazio, verrebbe da dire riecheggiando l’Amleto di Shakespeare. Ciascuno a modo suo. In Indonesia ha stravinto le elezioni un generale con fama di autoritario e un passato di violazioni dei diritti umani. Di per sé inquietante perché l’Indonesia è stata, negli anni ‘60, teatro di uno dei più spaventosi genocidi etnico-politici del Novecento – un milione di cinesi e comunisti trucidati in massa, dopo il golpe militare del generale Suharto, contro Sukarno. Il generale Prabowo Subianto ha la fama di essere un ammiratore di Putin. Il Jakarta Post ha scritto che a votare per il generale sarebbero stati molti elettori indonesiani che “simpatizzano fanaticamente per Putin”. L’indiano Modi era stato un poco più prudente, aveva rimproverato a suo tempo pubblicamente Putin dicendogli che “oggi non è il momento delle guerre”. Ma poi, da mediatore super partes che pareva, si è ravvicinato a Putin, al punto che questi l’ha definito un “uomo molto saggio”.

Altri despoti “democraticamente eletti”, che all’inizio si offrivano come possibili e attivi mediatori nel conflitto Russia- Ucraina, hanno poi spostato il peso sul piatto della bilancia russo. La Turchia di Erdogan e l’Iran degli ayatollah sono Paesi dove si vota. Ma sono al tempo stesso democrazie dubbie. Altra democrazia dubbia è l’Ungheria di Orbán. Il quale ha vinto le elezioni, ma poi ha soppresso tutti i contrappesi che fanno di una democrazia una democrazia: la stampa, la giustizia. Guarda caso l’Ungheria è il Paese dell’Unione europea che più pencola dalla parte di Putin. Nella stessa Russia, dove tra breve si voterà per la presidenza, la democrazia non è di casa. La Cina, la seconda potenza più popolosa al mondo (è stata sorpassata giusto l’anno scorso dall’India), democratica nel senso in cui lo intendiamo noi non pretende nemmeno di essere. Lì non si vota per niente, non c’è l’imbarazzo di campagne elettorali per i governanti. E il presidente Xi Jinping ha evidenti “affinità elettive” con Putin nel modo di esercitare il potere e tenere a bada gli oppositori.

Qualche anno fa avevo dedicato un libro alle analogie che percepivo tra le vicende, ma soprattutto il clima, i discorsi, gli slogan del presente e quelli che si sentivano in Germania quando morì una delle democrazie più avanzate che l’Europa abbia conosciuto, la Repubblica di Weimar. L’avevo intitolato Sindrome 1933, perché nel gennaio 1933 era stato nominato cancelliere Hitler. Con una procedura perfettamente democratica e costituzionale. Il suo partito non aveva la maggioranza, ma suppergiù un terzo dei voti. Divenne cancelliere di un governo di coalizione, voluto dal cattolico centrista von Papen e dal magnate dei media Hugenberg, uno ancora più becero di lui. Sia Papen che Hugenberg erano convinti di essere loro a dare le carte, di poter controllare l’inesperto Hitler. Si sa come andò a finire: nel giro di pochi mesi Hitler azzerò e spintonò fuori dal governo gli alleati.

Sul piano internazionale Hitler godette a lungo di neutralità benevola, attendista, nelle capitali del mondo libero e democratico. I nazisti avevano fan importanti in America, in Inghilterra, in Francia. Oltre che nell’Est europeo. Negli Stati uniti le simpatie dichiarate per Hitler di personalità come Henry Ford, Charles Lindbergh e Joseph Kennedy (il padre del futuro presidente) e il popolarissimo predicatore radio padre Charles Coughlin facevano a gara nel dare addosso alla “sinistra” di Franklin Delano Roosevelt. A guerra mondiale già iniziata la destra si sarebbe ammantata anche di un pacifismo esasperato, che negava non solo un intervento (“non un soldato americano per l’Europa”) ma anche aiuti all’Inghilterra aggredita. In Inghilterra simpatizzava per i nazisti niente meno che l’erede al trono, Edoardo, costretto a rinunciare, ma non per questo, quanto per aver voluto sposare un’americana divorziata. L’idea che Hitler fosse gestibile, non rappresentasse un pericolo, potesse anzi rivelarsi un baluardo contro la minaccia comunista, fosse “un uomo di pace”, avrebbe retto anche oltre l’appeasement del 1938 di Monaco, con cui il premier Neville Chamberlain, vantandosi di aver conseguito “la pace del nostro tempo”, gli consegnava, mani e piedi legati, la democratica Cecoslovacchia.

In Francia, al pacifismo appassionato degli intellettuali e dell’opinione pubblica (“Mai più un massacro inutile come quello della Grande guerra”) si aggiungeva una sorta di “invidia” da parte della destra per il modo in cui Hitler si era liberato della sua sinistra. Non era necessariamente una destra fascista. Nemmeno nelle espressioni paramilitari, tipo i Croix de feu. Prevalevano i populisti di ogni denominazione, compresi i radicali, componente fondamentale del Fronte popolare, e i populisti di estrema sinistra, i castigatori della finanza e della corruzione borghese di Jacques Doriot, carismatico sindaco di una banlieue rossa parigina, che veniva dalle fila del Partito comunista francese e sarebbe poi finito con le SS.

C’è una montagna di studi su come tutto questo venne riferito alle rispettive opinioni pubbliche (o ignorato) dai mass media (che all’epoca erano quasi esclusivamente i giornali, con la radio che faceva ancora solo capolino, sia pure prepotentemente). L’argomento è assolutamente affascinante, quanto vastissimo, e anche qui si sprecano le analogie che richiamano il nostro presente. Le differenze tra le diverse testate non passavano solo tra questo e quel proprietario della testata, ma anche tra proprietà e direzione, e tra direzione e corrispondenti e tra sensibilità diverse, nonché rivalità tra i corrispondenti e redattori nella stessa redazione. Esemplare il caso del New York Times che minimizzò ed edulcorò a lungo le notizie dalla Germania, proprio perché i proprietari erano ebrei e non volevano esporsi all’accusa di partigianeria dalla parte degli ebrei perseguitati. Complicato far quadrare le cose in un giornale “a proprietà ebraica, redatto da cattolici e indirizzato a lettori protestanti”.

Ancora più paradossale il modo in cui l’ascesa di Hitler alla cancelleria fu accolta con noncuranza, anzi in qualche caso addirittura con sollievo, nei Paesi dell’est europeo. Non erano affatto regimi fascisti, anche se pullulavano quasi ovunque partiti e movimenti di estrema destra che più o meno si richiamavano ai simboli, alle divise, ai metodi violenti e autoritari e alle inimicizie dei precursori, i “camerati” fascisti italiani.

La Cecoslovacchia, nata dallo smembramento dell’impero austro-ungarico, era, accanto alla Germania di Weimar, uno degli Stati più democratici e progressisti al mondo. La Polonia del maresciallo Józef Piłsudski era autoritaria, ultra nazionalista e ultra conservatrice. Era nata da un colpo di Stato militare, ma non era fascista. L’Estonia guardava alla Germania per non essere fagocitata dalla Russia di Stalin. La Lituania di Antanas Smetona non era in buoni rapporti con la Germania, ma in rapporti anche peggiori con la Polonia: rivendicava la restituzione di Vilnius dalla Polonia.

In Austria si votava democraticamente, elessero cancelliere il cattolico ultrà e fascista Engelbert Dolfuss. Ma siccome era indipendentista e si opponeva all’annessione alla Germania, Hitler lo avrebbe fatto assassinare. La Romania era una monarchia. Re Carol tenne a distanza, finché poté, la Guardia di ferro del fascista Corneliu Codreanu. Codreanu nel 1938 fu ucciso mentre era nelle prigioni del re. L’Ungheria dell’ammiraglio Miklós Horthy era autoritaria, aveva represso nel sangue la repubblica bolscevica di Béla Kun, ma non era fascista. Si votava per una pluralità di partiti, prevalevano gli ultrà cattolici e nazionalisti. Il comune articolo di fede era il recupero dei territori di cui l’Ungheria era stata spolpata alla fine del Grande guerra: la Transilvania alla Romania, le province settentrionali alla Cecoslovacchia, il Sud alla Jugoslavia, l’unico affaccio al mare, Fiume, all’Italia.

Tutti questi regimi erano di destra, sovranisti, antisemiti, antisocialisti, antisovietici. Ma soprattutto ferocemente nazionalisti. Non si allarmarono, anzi gioirono della nomina a cancelliere di Hitler nel 1933, forse anche per affinità ideologica. Ma soprattutto perché speravano di trarne vantaggio su quel che più gli premeva: recuperare territorio a scapito dei vicini. Tutti, al pari della Germania, avevano vissuto come punizione la pace di Versailles, che divideva i possedimenti austroungarici. Non si rendevano conto che la Germania di Hitler, prima se li sarebbe giocati uno contro l’altro, poi gli avrebbe portato via anche quel che Versailles gli aveva lasciato, e infine li avrebbe trascinati con sé nella catastrofe. Quando Hitler aggredì la Polonia, l’Ungheria e gli altri non parteciparono. Anzi resistettero. Ma era tardi.

 

Questo articolo è stato in origine pubblicato sul Foglio di sabato 2 marzo 2024. 

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