LA GUERRA DEI TRENT'ANNI

Lo Sguardo

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Lui, lei e le altre (sulla polemica tra Lidia Ravera e Franca Rame sul divorzio Berlusconi-Lario)

Negli scorsi giorni, il Fatto quotidiano ha ospitato un gustoso botta-e-risposta tra Lidia Ravera e Franca Rame nientemeno che sulla vicenda, di per sé già abbastanza grottesca, del divorzio Berlusconi-Lario e dello strabiliante ammontare degli alimenti che il Tribunale di Milano ha riconosciuto a “Veronica” – ormai la chiamano tutti così, “Veronica”, e per comodità converrà adattarsi a questo spirito nazional-popolare che aleggia perennemente attorno al romanzo di Arcore.

Tutti conoscono lo spessore intellettuale delle due “commentatrici”, e personalmente non nego una certa passione per le dispute attorno a taluni rivelativi episodi di costume, vere e proprie spie (per usare un eufemismo) del decadimento di un Paese che concede almeno, tra uno scandalo e l’altro, lo spazio per un po’ di catartico sarcasmo. E però, nel leggere le opinioni agli antipodi ospitate sul Fatto quotidiano, sono rimasta colpita dalla siderale lontananza di entrambe le posizioni – che si presume volessero rappresentare, oltre che delle opinioni personali, anche un sentire comune – dalla mia modesta visione delle cose.

Da un lato, Lidia Ravera si scaglia quasi rabbiosamente contro “Veronica” e la ricca buonuscita (3 milioni di euro al mese) dal matrimonio con Berlusconi, dichiarando che «la cifra è così abnorme da alienare alla beneficiata qualsiasi simpatia»; ma perché, mi chiedo io, prima “Veronica” ci stava (o doveva starci) simpatica o antipatica? Aggiunge Franca Rame: tanto livore, perché dopo anni di tradimenti con le «bellocce» di turno lei decide di andarsene, e se per farlo si prende i soldi che la legge le riconosce diventa una donnaccia? Ma, mi chiedo nuovamente io, se il problema è così profondamente morale, e la sua quantificazione pecuniaria non ci scandalizza, “Veronica” poteva chiedere pure i danni morali per essere stata svergognata dal marito «puttaniere da taverna»! Ed ecco, così, avanzare lo schema classico nel quale si dibatte la coscienza femminile da secoli a questa parte, aiutata dalla furbesca costruzione dell’immaginario maschile: donna famelica e calcolatrice contro donna vittima e umiliata.

Un refrain che si muove, da un lato, tra le rabbiose rivendicazioni di un femminismo incessantemente battente sullo schema “vecchio-erotomane-che-corre-dietro-alle-giovani-bellocce-cretine” (ma perché, se le “festinanti” fossero state “vecchie-brutte-ma-geniali” cambiava qualcosa?), e sui vari corollari post-sessantottini, tra cui l’idea che «tre milioni di euro al mese – proclama Ravera – non li deve possedere nessuno, non oggi, non qui, non mentre il Paese affonda nella crisi economica peggiore del secolo» (nobile proclama! Peccato che un bel numero di super-manager e capitani d’impresa li posseggano, senza dover ricorrere ad alcun divorzio, e anche senza alcuno scandalo, finché vi sarà un sistema politico basato su privilegi e clientelismi e non si supererà il complesso del “denaro che puzza”, decidendosi una buona volta ad affrontare il tema – semmai – di una più equa distribuzione della ricchezza prodotta). Dall’altro lato, ecco avanzare l’immagine, dipinta da Franca Rame, «di questa donna tradita, mortificata, ricoperta di esagerato disprezzo dal cafone straricco che ora la deve rimborsare con un sacco di quattrini», l’innocente vittima del mascalzone di turno (povera, povera “Veronica” umiliata da un uomo da cui, certamente, non poteva aspettarsi nulla di simile…); la donna che infine decide di divorziare, «non solo per te, ma anche per i figli tuoi», la donna che tutela quel che resta della famiglia.

Tutte opinioni, queste, degnissime e condivisibili, ma che non colgono fino in fondo il punto in questione. Il loro presupposto condiviso è il giudizio morale della donna, del suo operato, delle sue azioni e reazioni, in funzione o della condanna senza appello oppure dell’assoluzione indulgente. Siccome, però, non siamo in un confessionale, si tratta di opzioni che non mi lasciano soddisfatta – come donna, in prima battuta. Lo schemino della donna alternativamente rapace o vittima è qualcosa che andrebbe consegnato all’archivio storico della coscienza femminile: uno di quei reperti da tirare fuori per illustrare come ci siamo inguaiate (quasi) da sole per secoli. Bisognerebbe resistere a questa irrefrenabile tensione alla sanzione morale, per concentrarsi su ciò che sta immediatamente prima, specialmente se si assume come contraltare legittimante lo sdegno “l’uomo comune”, colui/colei che – nel divorziare – si ritrova in ristrettezze e disagi di cui, certo, gli ex-coniugi Berlusconi nulla sanno e sapranno. E cosa c’è prima dello sdegno e del ricorso a questo spettro, talmente agitato da non suscitare quasi più un autentico moto empatico, dell’“uomo comune”? C’è che “Veronica”, eternamente “ex-moglie di”, non rappresenta affatto “le donne”, tantomeno quelle cosiddette “comuni” (vorrei poi capire chi sono e cosa fanno, queste donne “comuni”, sempre più somiglianti a una specie di pendant sfigato di chi dalla vita ha avuto di più). “Veronica” rappresenta se stessa, e basta. Un soggetto di volere che ha compiuto delle scelte, consapevolmente, le quali hanno prodotto degli effetti, più o meno calcolati. Volete esprimerle solidarietà? Smettete di giudicarla, come fosse – lei, più delle “bellocce” amanti – una cretina vittima dell’uomo nero. Volete esprimere la vostra distanza dalle sue scelte, persino dal sistema di valori che le attribuite (un’attribuzione spesso riflessa dall’uomo che si è scelto e dai valori che attribuite a lui)? Smettete di giudicarla: è stata giovane e bella moglie anche lei, in passato, dello stesso uomo che oggi ci indigna.

Le persone scelgono cosa essere, mosse da desideri che rappresentano solo loro stesse – finché non si è rappresentanti, come non era “Veronica”, di un popolo elettore. Personalmente, non mi sento rappresentata da Veronica né da alcun prototipo femminile, o chiamata in causa come donna dai suoi comportamenti: non esiste “la donna”, esistono “le donne”, le loro scelte e gli effetti di questi ultimi sulla comunità, ristretta e allargata – sono questi effetti che, al massimo, potremo un giorno valutare. Ma non certo perché sono stati pagati tre milioni di euro di alimenti: semmai, perché a regolare la corresponsione degli alimenti è una legge secondo cui, in linea di principio, «l’assegno deve garantire a chi lo riceve di godere dello stesso tenore di vita avuto durante il matrimonio». Ed è di questo che vale la pena discutere, passando dal canale “costume e società” a quello ben più impegnativo della politica.

Federica Buongiorno.

  1. Semplicemente diseducativo. Ma le donne sembrano non cogliere la concretezza. Come ho scritto su twitter il 4 gen 2013: Miglior affare per #donne sposare milionario! #Berlusconi docet in TV e nella vita! Meglio sbattersi per marito che per job raro.

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