STORIE USATE

Siegmund Ginzberg

Bugie per salvare il mandato del cielo

I disastri possono far cadere i regimi dispotici. O, al contrario, possono consolidarli. In cinese, il termine weiji (危机), disastro, è composto da due caratteri. L’uno significa “pericolo”, l’altro “opportunità”. Dipende dall’efficienza della risposta. E, cosa altrettanto, se non ancora più importante, dall’efficienza e dalla credibilità della narrazione. La cosa che conta di più non sono le bugie di Stato. Quelle ci sono sempre, anche nelle migliori democrazie. La menzogna fa parte della politica, anche della migliore politica. L’importante è come vengono raccontate, se vengono credute o no. La storia della Cina è zeppa di imperatori o anche intere dinastie che perdono il “mandato del cielo” perché non hanno saputo o potuto reagire in modo efficiente e tempestivo a una catastrofe. Gli ideogrammi per “terremoto” anticamente dicevano letteralmente: “Crolla il cielo, si frattura la terra”. Poi hanno deciso di semplificare. Il carattere “cielo” è stato sostituito con “montagna”, infine è scomparso anche il termine montagna. “Cielo” imbarazzava il potere, qualunque potere, fosse quello dell’Imperatore o quello del Partito. Perché ricordava la perdita del mandato del cielo, della legittimazione a governare.

Il concetto l’aveva inventato la dinastia Zhou, agli inizi del primo millennio avanti Cristo. Poi fu codificato dai confuciani. “Per governare non basta che chi governa sia virtuoso”, diceva Mencio. Non basta essere onesti, tradurremmo oggi. Bisogna essere capaci, e anche fortunati. Nel corso di tutta la multi-millenaria storia cinese, terremoti, carestie, siccità, alluvioni, epidemie, e anche guerre e invasioni barbariche venivano considerati “segni del Cielo”. L’importante non era che l’imperatore fosse “benevolo” o “dispotico”. Era che sapesse gestire le catastrofi. E, allo stesso tempo, che la sua versione dei fatti, la sua propaganda diremmo oggi, fosse convincente o meno. Se sì, era legittimato a continuare a governare. Se no, altri della sua cerchia, o un movimento ribelle, o anche un invasore straniero, erano legittimati a sostituirlo. La Cina è sempre stata, e resta, l’impero dei simboli. Il potere nasce sì dalla forza, dalla canna del fucile, come diceva Mao, ma anche dal “controllo dei simboli”. A interpretare i simboli concorrono soprattutto gli intellettuali: ecco perché da un secolo all’altro, da una dinastia all’altra, i sovrani li hanno coccolati o temuti, e di tanto in tanto li hanno sepolti vivi, mandati al rogo o in esilio.

L’ultimo imperatore detronizzato in seguito a una catastrofe fu Mao Zedong. Non lui, che era già sul letto di morte, ma quelli che traevano legittimazione da lui. Il 28 luglio 1976 la città di Tangshan, nello Hebei, a sud-ovest della capitale, e tutta l’area attorno, furono rasi al suolo da un terremoto di magnitudo 7.8, a 12 chilometri di profondità. Uno scienziato giapponese ne calcolò l’effetto come pari all’esplosione di undicimila bombe atomiche come quelle lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Erano passate da poco le 3 del mattino, moltissimi rimasero sotto le macerie che erano ancora a letto. È una regione mineraria. Migliaia di minatori del turno di notte rimasero intrappolati nelle vene di carbone. Si ritiene si sia trattato della peggiore catastrofe naturale del ‘900. Certamente quella che fece il maggior numero di vittime. Il calcolo ufficiale è di 250mila morti, e altrettanti feriti. In milioni furono costretti a dormire all’aperto, senza acqua, senza luce, senza cibo. Il sisma si avvertì fortissimo anche a Pechino. La gente si riversò per le strade. Per fortuna era piena estate.

La prima tentazione in questi casi è nascondere la catastrofe sotto il tappeto. I media ufficiali semplicemente non ne diedero notizia. La mia amica Barbara Alighiero era studentessa in Cina, non si trovava a Pechino ma a Wuhan (sì, proprio la città epicentro dell’esplosione di Covid a cavallo tra 2019 e 2020). I suoi, dall’Italia, la cercavano disperatamente per avere notizie. Finalmente riuscirono a raggiungerla al telefono (non c’erano ancora i cellulari). Ma lei cadeva dalle nuvole. A Wuhan il terremoto non si era sentito per nulla. Giornali e radio non ne parlavano.

A Pechino invece non si poteva ignorare. Partì immediatamente, di pari passo con l’organizzazione dei soccorsi, una campagna di propaganda volta a mostrare l’efficienza e tempestività della risposta, l’eroismo e l’abnegazione dei soccorritori, la compattezza di tutto il popolo cinese attorno alla saggia guida del Partito comunista. Si recò sul posto, con pieni poteri a organizzare e dirigere i soccorsi, il primo ministro Hua Guofeng. Era ancora un giovane quadro sconosciuto ai più. Appena poche settimane dopo avrebbe rimpiazzato il defunto Mao alla testa del PCC. La promozione venne annunciata da giganteschi manifesti in cui lo si vedeva dipinto seduto accanto al Grande timoniere, con Mao che gli poggiava una mano sul ginocchio e gli diceva: “Con te che te ne occupi, io sono tranquillo”.

L’avevano buttata subito in lotta politica. La stampa di regime lanciò una campagna sulle “critiche aperte degli operatori impegnati nel lavoro anti-terremoto e nei soccorsi contro Deng Xiaoping”, l’intramontabile “dirigente avviato sulla via del capitalismo”, l’eterna nemesi dei maoisti puri e duri. Gli editoriali spiegavano che “la guerra di classe, lo scontro tra le due vie e le due linee si intensifica ogni volta che si verifica una calamità naturale”. Cruciale era, spiegavano, ribadire con la massima fermezza che i cinesi non avevano bisogno di alcun aiuto straniero. La Cina era e doveva assolutamente restare “autosufficiente”, far da sola. Bisognava, dicevano, evitare il rischio che l’importazione di tecnologie straniere significasse importare di soppiatto anche la “corruzione capitalistica” e il “revisionismo sovietico”. “Meglio mangiare fieno socialista che grano capitalista”, questo il modo in cui l’aveva messa la Signora Mao.

Sembrò per un attimo che la narrazione ufficiale avesse avuto successo. Il mondo intero assistette con rispetto alla pazienza, anzi stoicismo con cui i cinesi reagivano alla tragedia che li aveva colpiti. Venne apprezzata la fierezza con cui rifiutavano aiuti stranieri, la prontezza dell’intervento dell’Esercito popolare di Liberazione, la capacità di mobilitare risorse umane, di far lavorare (e rifocillare) centinaia di migliaia di persone a riparare strade, ponti e linee elettriche e ferroviarie, erigere immense tendopoli, rimettere in sesto le miniere di carbone. Si lasciarono convincere anche esperti navigati e grandi giornalisti. Wiliam Safire, inviato a Hong Kong dal New York Times, notò che se avevano retto così disciplinatamente all’attacco a sorpresa di 11mila atomiche, non potevano certo fargli un baffo tutti i missili sovietici e americani.

Ma le cose non stavano così. Il più solido regime del mondo non era così solido. Finì che, defunto Mao il 9 settembre, poco più di un mese dopo il grande terremoto, decisero di arrestare la vedova Jiang Qing e gli altri della “Banda dei quattro”. La catastrofe era stata troppo pesante. I soccorsi non avevano funzionato. La bugia era troppo grossa. Non era in alcun modo possibile fare come l’anno prima, quando un sisma assai più modesto aveva colpito Haicheng, 400 chilometri più a Nord-est di Tangshan, e il regime e i suoi organi di stampa si erano vantati di come “grazie al pensiero di Mao Zedong”, i sismologi erano stati in grado di predire l’imminente terremoto, e “minimizzarne le conseguenze”. Era una sciocchezza.

La capacità di previsione era stata inventata ex-post. Che ci fossero state relativamente poche vittime (2mila o giù di lì) era dovuta ad un insieme di circostanze fortunate. I sismologi avevano “predetto” (si fa per dire, come è noto non si può con esattezza prevedere né il quando né la magnitudo), o per meglio dire avevano colto segni premonitori anche per il terremoto di Tangshan. Ma le autorità, li avevano zittiti. Avevano deciso di non tener conto delle avvisaglie, di non diramare alcun avviso, “per non allarmare la popolazione”. Una volta successo, le conseguenze erano così terribili che alla fine si risolsero a coprire tutto con un mare di calce viva, per evitare che al flagello del terremoto subentrasse quello delle epidemie.

Sembra, pari pari, quello che è successo col Covid-19. Sapevano dal tardo autunno 2019 (non a caso si chiama Sars-Covid-19). Prima avevano cercato di nascondere il tutto. Forse non volevano disturbare la festività del Capodanno lunare cinese, l’equivalente del nostro Natale, l’occasione in cui milioni di cinesi si spostano per andare a trovare i parenti. Li Wenliang, il medico che su Weibo (l’equivalente cinese di Twitter), aveva cercato di avvertire i colleghi che ci si trovava di fronte ad un virus terribilmente simile a quello della Sars, era finito in carcere per “diffusione di notizie false e tendenziose”. È diventato un eroe, ma postumo: è morto agli inizi del febbraio 2020 di Covid contratto da uno dei suoi pazienti. Infine, quando i buoi erano già scappati dalla stalla, hanno varato la politica “Zero Covid”, hanno chiuso tutto. Poi sono arrivati, anche lì a tempo record, i vaccini. Ma il loro Sinovac non funzionava bene come quelli occidentali. E, soprattutto, la gente non si fidava a vaccinarsi. Succede, quando di storie gliene sono state raccontate troppe.

Anche la stizzita risposta agli Europei che gli avevano offerto i vaccini è un déjà-vu. Se gli avessero offerto, non ora, ma subito, all’inizio, la licenza per produrli, sarebbe stata un’altra storia. Negli anni ’50 si era diffusa a Pechino la psicosi della guerra batteriologica Usa. Correva voce che avessero lanciato nei boschi fiale contenenti germi della peste, del vaiolo, del carbonchio. Era una bufala, montata dai servizi sovietici. Scattò una campagna a tappeto di vaccinazioni di massa. Era obbligatoria anche per gli stranieri. Questi erano autorizzati a usare vaccini loro. I cinesi no. Per orgoglio, ma anche per timore che fossero contraffatti. Nell’’800 l’Inghilterra li aveva avvelenati vendendogli l’oppio.

Con una percentuale minima di vaccinati contro il Covid, soprattutto tra gli anziani, i più deboli, l’alternativa era tra rischiare milioni di morti o serrare ancora di più. Avevano scelto quel che sanno fare meglio, da millenni: la linea dura. Quarantene per tutti. Deportazioni obbligatorie e brutali dei caseggiati sospetti di infezione. Blocco di centri commerciali con tutti i consumatori dentro. Chiusura di interi quartieri, o anche di intere grandi metropoli moderne, brulicanti di attività come Shanghai. Finché la gente non ne poteva più, e ha cominciato a protestare. Non è che negli anni scorsi in Cina non si protestasse. C’erano centinaia di manifestazioni di protesta ogni giorno. Ma su questioni particolari. Questa volta invece il regime si era sentito sotto accusa su questioni che interessavano tutti, sulla sua core activity, la sua stessa ragione di esistere, la sicurezza collettiva.

In altre occasioni, il mix di repressione e propaganda aveva funzionato. L’esaltazione dell’organizzazione dei soccorsi per il terremoto nel Sichuan nel maggio 2008, tre mesi prima delle Olimpiadi di Pechino era stata una capolavoro. Ne avevano tratto persino un film di grandissimo successo, su come si “serve il popolo”, con toni epici paragonabili a quelli dell’Alexandr Nievskij di staliniana memoria, del documentario sull’adunata nazista a Norimberga di Leni Riefenstahl, di Birth of a Nation di Griffith.

Stavolta, fallita la narrazione, potevano decidere di reprimere e basta. Xi Jinping ha deciso probabilmente che era più rischioso essere travolti dalla protesta che essere travolti dal virus. Ma ora rischia di avere sia la protesta che una pandemia fuori controllo. Soprattutto rischia la perdita di credibilità, che nessuno creda più a quel che gli dice il governo. Anzi, peggio ancora, rischia di perdere la faccia, che è, nella cultura cinese, la cosa peggiore che gli possa capitare. Improbabile sia stata la voce del popolo a convincerlo. L’avrà convinto qualcuno i cui consigli non si potevano rifiutare. Ma così facendo ha creato un precedente pericolosissimo. Se un despota ammette di avere sbagliato, i suoi sudditi possono pensare che sbaglierà ancora. Ne va della sua credibilità. In una democrazia può cambiare il governo, si può eleggere un altro presidente o mettere assieme un’altra maggioranza. Caduto un governo se ne fa un altro. Un regime dispotico non ha le stesse valvole di sicurezza. Morto o deposto l’imperatore può succedere di tutto, possono ritrovarsi nel caos, in mezzo a una guerra di successione, o addirittura in una guerra civile.

“Governare un grande Stato è come cuocere dei pesciolini. Se si cuociono troppo li si rovina”, dice il Daodejing. Xi ha evidentemente strafatto la cottura. È messo male. Ma un po’ se l’è cercata. Ha voluto applicare alla Cina del terzo millennio gli stessi metodi autoritari degli anni di Mao, o anche dei miei anni ’80 a Pechino. Non si può comandare con la baionetta ai mercati, né ai terremoti, né ai virus. E nemmeno fargli il lavaggio del cervello. Mao si era assunto la responsabilità del peggior disastro di tutti i tempi, dei milioni di cinesi periti per il fallimento del Grande balzo in avanti. Per rimediare, non cedere il potere personale, aveva scatenato la Rivoluzione culturale, una vera e propria guerra civile. Usufruiva del più formidabile apparato propagandistico di tutti i tempi. Non filtrava fuori nulla e nulla da fuori. I cinesi non seppero nemmeno che degli americani erano sbarcati sulla Luna. Nell’era dei cellulari, di internet, delle Virtual Personal Network (VPN) le frottole funzionano meno. Anzi, fanno perdere la faccia.

Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di sabato 7 gennaio 2023. 

Foto di copertina: Shanghai, 13 febbraio 2020 (foto di Noel Celis/Afp).

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