LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Da Torino le «strade blu» del Cinema

Festeggia Paolo Virzì, alla guida da quest’anno del Torino Film Festival che ha adottato la formula di attribuire la direzione a noti registi (Moretti e Amelio i predecessori). La 31ª edizione si è chiusa nello scorso weekend: 92.000 spettatori rispetto ai 75.000 del 2012 e il 31% in più negli incassi. Il risultato premia una squadra esperta, capitanata dal vicedirettore Emanuela Martini, e conferma la bontà del meccanismo che affida questa e altre iniziative festivaliere al Museo Nazionale del Cinema diretto da Alberto Barbera. Il frequentato Museo nella Mole appare alieno dalla politicizzazione estrema vigente ad altre latitudini ed è in dialettica con una vivace trama di base. Un altro «storico» polo è poi costituito dalla Film Commission Torino Piemonte. Il Festival che a lungo si chiamò «Cinema Giovani» è privo di enfasi provincialistica e si inserisce, insomma, nell’orizzonte metropolitano di strutture e idee artistico-culturali, pubbliche e private, non arrendevoli al declino dell’ex città-fabbrica (c’era una volta la Fiat), sebbene la crisi morda anche qui. Così, per dirne una, la Scuola Holden di Alessandro Baricco si è da poco trasferita in una ex caserma-arsenale di Borgo Dora concessa dal Comune in cambio di uno splendido restauro funzionale, con l’intento di contribuire a rivitalizzare il quartiere del mercato del Balôn, non fra i più tranquilli.

I giorni torinesi hanno offerto alcuni preziosi segnali lungo le strade che il cinema va intraprendendo. Sono «strade blu», per dirla con William Least Heat-Moon che dedicò pagine memorabili ai percorsi poco battuti dell’America profonda, alle Blue Highways spesso esplorate giusto nei film della New Hollywood anni Sessanta-Settanta cui era dedicata la retrospettiva del festival a cura della Martini (proseguirà nel 2014).

I percorsi del cinema di domani, visti da Torino, sono ardui ma fecondi, riottosi alle definizioni e a qualsivoglia recinto. Grande e piccolo schermo si scambiano autori e stili, si contagiano ovunque tranne che nell’Italia delle fiction formato famiglia («mulino bianco» o «fratelli coltelli»). È il caso di due serie Tv viste in anteprima: il misterioso e affascinante giallo neozelandese Top of the Lake sulla scomparsa di una dodicenne incinta, firmata da Jane Campion e Garth Davis, e il serrato thriller politico House of Cards con Kevin Spacey e Robin Wright.

D’altro canto, dopo il Leone veneziano al documentario Sacro GRA di Gianfranco Rosi, si è decisamente riaperta la partita del cinema del reale o della memoria. Tragico e magnifico è Pays Barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, coppia di indomiti settantenni adorati dalla cinefilia internazionale, che attingono ai materiali di archivio, alle fotografie e alle immagini del fascismo (in principio, la fine di Mussolini a piazzale Loreto). Il film infatti rivisita il colonialismo italiano in Africa, la guerra d’Etiopia, la barbarie di ieri e quella che verrà. Viraggi, montaggi, giochi di luci e di voci (tra le quali Giovanna Marini) si mescolano nella «camera analitica» dei due registi, il cui sguardo «freddo» è infine uno dei più commoventi del cinema d’oggi. I sessanta minuti di Pays Barbare inchiodano il pubblico al fascismo familiare o interiore, difficile da riconoscere e da debellare.

Sul versante documentario, si tornerà a parlare di Temporary Road. (Una) vita di Franco Battiato di Giuseppe Paolicelli e Mario Tani, nelle sale il prossimo 11 dicembre. Mentre le sfide più tradizionali, non meno suggestive, a Torino hanno avuto forse l’apice in All Is Lost – Tutto è perduto di J. C. Chandor, già fuori concorso a Cannes e oltretutto scelto come film d’apertura del Tertio Millennio Film Fest oggi a Roma. Il protagonista Robert Redford è un naufrago nell’Oceano Indiano alla ricerca di una rotta oltre la tempesta e in tenace lotta per la salvezza. Solitudine e metafora del cinema.

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