LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Al cinema con Shakespeare

Da Orson Welles a Kenneth Branagh e Al Pacino, dai musical fiammeggianti ai drammi più cupi, in Ghana come in India o in Giappone, la fortuna cinematografica di Shakespeare non conosce pause e confini. C’è poco da sorprendersi. Aveva ragione il sommo Laurence Olivier: «Se al suo tempo fosse esistito il cinema, Shakespeare sarebbe stato il regista più grande». E il suo tempo s’iniziava giusto 450 anni fa, il 23 aprile 1564, data della nascita di William Shakespeare a Stratford-upon-Avon. Un fior da fiore degli ultimi lustri? L’irriverente Romeo + Giulietta di William Shakespeare (1996) di Baz Luhrmann con Claire Danes e un corrusco Leonardo DiCaprio pre-Titanic, ambientato nella coloratissima e violenta Verona Beach. Il «romantico» Shakespeare in Love (1998) di John Madden che vinse sette Oscar attribuendo alla biografia immaginaria di Shakespeare la genesi del conflitto tra i Montecchi ed i Capuleti. Il film venne sceneggiato da Tom Stoppard, regista a sua volta di Rosencrantz e Guildenstern sono morti del 1990, Leone d’oro a Venezia. Quindi, il granguignolesco Titus (2000) di Julie Taymor che trasferisce il Tito Andronico nelle scenografie moderniste dell’Eur a Roma care a certo Fellini (Le tentazioni del dottor Antonio) e si avvale dell’indiscutibile carisma cannibalico di Anthony Hopkins. D’altronde per Bertolt Brecht tutto Shakespeare è «teatro di cannibali» simboleggiati da Shylock e Calibano; mentre Leslie Fiedler nel suo celebre libro sui Freaks sostiene che per Shakespeare «esotico e mostruoso sono sinonimi».

amleto    nottedimezzaestate201

Incanta la bionda Michelle Pfeiffer fata del Sogno di una notte di mezza estate (1999) e Pene d’amor perdute di Kenneth Branagh – il vero artefice della rinata «bardolatria» sullo schermo – trasforma l’omonima commedia scespiriana in un musical anni Trenta scandito dalle note di Cole Porter e George Gershwin. Più di recente, i fratelli Paolo e Vittorio Taviani hanno vinto l’Orso d’oro di Berlino 2012 con Cesare deve morire che documenta la messa in scena del Giulio Cesare da parte dei detenuti di Rebibbia. L’elenco dei debiti scespiriani anche dove meno te lo aspetti (nel western o nella Bisbetica domata di Adriano Celentano), è una lista infinita a partire dal britannico King John del 1899, le cui rare scene residue di pochi minuti sono custodite nel museo del cinema di Amsterdam. E s’annuncia Cymbeline di Michael Almereyda (già autore di un Hamlet 2000) con interpreti di rango quali Ed Harris, Ethan Hawke e Milla Jovovich. C’è sempre una nuova meteora e una scia luminosa proveniente dal Pianeta Shakespeare, che, a proposito, ispirò taluni episodi della saga di Star Trek.

Ran.Jiro    locandina

Pensiamo alle suggestioni nei capolavori di Akira Kurosawa, dall’«amletico» Le canaglie dormono in pace del 1960 a Ran dell’85 con echi del Re Lear. Il musical West Side Story di Robert Wise già nel 1961 concepì Romeo e Giulietta quali appartenenti a bande rivali, i Jets e gli Sharks, bianchi e portoricani. E Roberta Torre raccontò nel ’99 la medesima vicenda in ambito palermitano e in chiave grottesca con Sud Side Stori. La storia vera di Romea e Giulietto, una prostituta nigeriana e un cantante di strada. Ancora Branagh in Nel bel mezzo di un gelido inverno (1995) ibrida un allestimento di Amleto con le vivaci vicende della compagnia, rifacendosi in parte a Vogliamo vivere! (To Be or not to Be, 1942) di Ernst Lubitsch, tornato nelle sale di recente in versione restaurata, che utilizza il monologo amletico come parola d’ordine politico-sentimentale nella Varsavia occupata dai nazisti. Non manca Totò. Nell’episodio pasoliniano Che cosa sono le nuvole? del film miscellaneo Capriccio all’italiana (1968), il genio comico napoletano è un parodistico Jago-burattino al fianco di Otello-Ninetto Davoli.

west side story   Pacino

Shakespeare al cinema è sempre di moda, come certifica una bibliografia non meno vasta, fra cui mette conto citare le ricerche di Luke McKernan e Olwen Terris per il British Film Institute e, in Italia, i cataloghi del Bergamo Film Meeting a cura di Emanuela Martini. Dal falstaffiano Orson Welles a Franco Zeffirelli o al «nostro» Carmelo Bene (autore del memorabile Un Amleto di meno, 1973), registi e attori prima o poi avvertono il bisogno di confrontarsi sullo schermo con i testi che costituiscono il canone stesso della cultura occidentale. Una formidabile spinta viene dalla dialettica interiore dei personaggi: si pensi ad Amleto, il quale, è stato notato da Giorgio Melchiori, segna il passaggio dal teatro di con-quest, «conquista», al teatro di in-quest, di «ricerca» interiore, di inchiesta psicologica. Un ennesimo motivo è senza dubbio la coincidenza di molte tragedie o commedie di Shakespeare con i generi propri della struttura hollywoodiana del racconto: il noir e il gangster movie, il film storico e la commedia d’attori, l’horror, lo splatter, il pulp proprio di alcune riduzioni del Riccardo III o di Tito Andronico.

Shakespeare non solo forniva copioni a richiesta, ma li adattava, ricuciva, rimaneggiava, «saccheggiava» fonti diverse, plasmandoli alle esigenze del pubblico con una leggerezza del tocco e un senso dello spettacolo pari al furore divulgativo delle complicatissime vicende dinastiche e belliche dell’Inghilterra dell’epoca. Né mancavano i remake, le riscritture, le nuove versioni di testi pregressi dettati dal successo dell’originale e modificati in base sia alle compagnie committenti sia alle cangianti pretese della censura, esattamente come avviene a Hollywood. Shakespeare così «costruiva» eroi e ne proiettava i tormenti e la gloria sullo spettatore desideroso di emozioni forti. Una fervida identificazione dell’arte con la vita che ritroviamo splendidamente all’azione in Riccardo III. Un uomo, un re (Looking for Richard, 1996) di Al Pacino. Il docu-drama – lungo i tre anni delle riprese ad intermittenza – mescola prove, letture, sopralluoghi e interviste ai protagonisti dello show business che, chiamati a raccolta dal principe degli attori, si prestano a lavorare per «quaranta dollari al giorno più tutte le ciambelle che riuscite a mangiare». E infine ha ragione Al Pacino: «Qualunque cosa io dica, so che Shakespeare l’ha già detta».

Articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 22 aprile 2014.

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