Saeb Erekat, il negoziatore inflessibile che credeva nel compromesso

È stata la memoria storica dei negoziati fra Israele e i Palestinesi. Non c’è stato round che non l’abbia visto protagonista: è stato l’uomo dei segreti, delle trattative sotterranee e di quelle alla luce del sole, è stato in prima fila (diplomatica) con Yasser Arafat e poi con Abu Mazen. Custode dei segreti più segreti, e al tempo stesso la voce internazionale della leadership di Ramallah. Un combattente e un negoziatore. Capace di tessere mille rapporti in ogni parte del mondo ma sempre, sempre, strenuo difensore dell’autonomia politica palestinese. Questo era Saeb Erekat, segretario generale dell’Olp, morto oggi all’età di 65 anni per coronavirus.

Chi scrive ha avuto l’onore di conoscerlo trent’anni fa e da allora i contatti non sono mai venuti meno. Saeb era stato uno dei protagonisti, agli inizi degli anni ’90 di quella “diplomazia segreta” che portò allo storico, esso sì, reciproco riconoscimento tra lo Stato d’Israele e l’Autorità nazionale palestinese. Una svolta che è rimesta negli annali della storia con la stretta di mano sul prato della Casa Bianca – era il 13 settembre 1993 – tra Yitzhak Rabin, primo ministro dello Stato ebraico, e “Mr. Palestine”, il presidente dell’Anp, Yasser Arafat.

Quella stagione della speranza durò poco, spazzata via dai kamikaze palestinesi, dalle durissime rappresaglie israeliane, e dalla morte dei due ex nemici che osarono la pace: Yitzhak Rabin, assassinato da un giovane zelota israeliano, e Yasser Arafat. Da quel 13 settembre 1993, sono passati 27 anni, più di un quarto di secolo. Saeb c’è sempre stato. Ogni qualvolta si riapriva, per poi richiudersi senza risultati, il tavolo dei negoziati con Israele. Lui c’era sempre. Animato da una convinzione che ripeté a chi scrive in tante interviste: «Noi ci battiamo per uno Stato in più, lo Stato di Palestina, e non per uno in meno, lo Stato d’Israele. Negoziare dovrebbe significare cercare un compromesso, trovarsi a metà strada, ma la mia esperienza mi porta ad altre, amare conclusioni. Israele ha usato i negoziati per guadagnare tempo, trascinandoli all’infinito e intanto determinare sul campo una situazione di fatto che finiva per svuotare di ogni significato concreto quelle trattative. Si negoziava e intanto crescevano gli insediamenti in Cisgiordania, e i coloni da qualche migliaio hanno superato i 400mila. Si trattava, e la pulizia etnica a Gerusalemme Est della popolazione araba andava avanti senza soluzione di continuità. La novità, con l’avvento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, è che oggi queste forzature unilaterali vengono legalizzate da parte americana».

Saeb era molto attento a ciò che si muoveva dentro la società israeliana, cercando di coglierne gli umori profondi, non buttando alle ortiche timori, non strumentali, come quello che uno Stato palestinese, magari guidato da Hamas, potesse minare la sicurezza d’Israele. «Ribalto il ragionamento – è stata la risposta di Erekat -.  E dico: la nascita di uno Stato di Palestina è garanzia di sicurezza per gli israeliani, perché è il mantenimento del regime di apartheid in Cisgiordania, l’assedio a Gaza, è l’occupazione alla base della rabbia che può alimentare violenza e instabilità. Come pensano di piegarci? Comprandoci? O deportandoci in massa in Giordania o dove?  Israele vuole uno Stato palestinese smilitarizzato? Dico: discutiamone a un tavolo. Discutiamo dei confini internazionalmente riconosciuti e protetti. Ma per farlo non si possono sposare le posizioni dei coloni».

Era un sostenitore della prima ora della soluzione a due Stati, ma non ha mai chiuso le porte ad altre prospettive. Come quella di uno Stato binazionale. «La risposta – mi disse in una conversazione – è nella carta geografica della Cisgiordania: uno Stato sovrano dovrebbe avere un controllo totale sul proprio territorio nazionale, frontiere sicure, riconosciute internazionalmente. Ma oggi la Cisgiordania è frantumata in mille frammenti territoriali, quelle che comunemente vengono chiamate colonie sono diventate vere e proprie città… Su quale territorio dovrebbe sorgere lo Stato di Palestina? E in che modo verrebbe garantita una continuità territoriale tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza? Certo, in linea di principio, la soluzione “a due Stati” non è tramontata, ma se i princìpi vengono poi calati nella realtà allora la conclusione è un’altra: in tutti questi anni, Israele ha lavorato per rendere impraticabile questa soluzione, svuotandola di ogni significato concreto. Se così è, allora la comunità internazionale dovrebbe porsi un altro interrogativo e guardare questa storia infinita sotto un altro punto di vista: quello di uno Stato binazionale, che non discrimina su una base di appartenenza etnica o religiosa. Uno Stato nel quale vige il dettato “una testa, un voto”. Uno Stato secolare e democratico, con pari diritti per tutti, cristiani, musulmani, ebrei. Israele è disposto a compiere questo percorso? L’alternativa non può essere mantenere in eterno l’attuale status quo. Perché ciò significa perpetuare l’instaurazione del regime di apartheid che vige in Cisgiordania. Oggi quasi sei milioni di palestinesi vivono sotto il controllo israeliano in tutta la Palestina storica, mentre altri sei milioni di palestinesi vivono nella diaspora. Dodici milioni di persone non possono essere trattate come una massa di profughi: sono un popolo, con una propria identità, che rivendica il diritto ad uno Stato. Se non si vuole instaurare uno Stato palestinese sui territori occupati nel ’67, allora l’unica alternativa all’apartheid è uno Stato democratico, binazionale».

Non è mai stato un estremista, Saeb. Ma determinato a difendere con forza le sue idee, questo sì. Come quando motivò il secco “no” della leadership palestinese al “Piano del secolo” di Donald Trump. «I nostri diritti non sono in vendita. Non c’è un prezzo per la libertà». «È l’occupazione – rimarcò in quel frangente Erekat – che annienta l’economia palestinese. Abbiamo le capacità, le intelligenze, le idee per creare una economia che dia occupazione e migliori le condizioni di vita della gente. Ma questo può avvenire in uno stato di libertà, non sotto un regime imposto di apartheid». E poi un appello all’Europa: «Prenda le distanze dal “Piano del secolo” e rilanci la soluzione a due Stati. Solo così è possibile ridare una chance alla pace. Una pace giusta, stabile, duratura. Una pace tra pari». «Gli estensori di quel piano sembrano avere la memoria corta o ritenere che alcune forzature compiute nel recente passato possano di colpo scomparire, magari in nome di un presunto Nemico principale, l’Iran, contro cui fare fronte, magari con Israele, sacrificando per questo non solo i diritti del popolo palestinese ma anche la legalità internazionale, sancita da più risoluzioni delle Nazioni Unite, votate dagli stessi Stati Uniti d’America».

L’Europa è ancora legata, almeno ufficialmente, a un’idea di pace fondata sulla soluzione “a due Stati”. Ma esiste ancora uno spazio, e una volontà politica, per praticare questa soluzione?, gli chiesi in un’intervista. «Per quanto ci riguarda, la risposta è sì. Altre soluzioni non ne esistono, a meno che non si facciano passare per soluzioni il mantenimento dello status quo o la creazione di un bantustan palestinese spacciato come Stato. Uno Stato è tale se ha piena sovranità su tutto il proprio territorio nazionale, se ha confini certi, se ha il controllo delle risorse idriche. Altrimenti è una farsa che finisce per legittimare lo stato di apartheid che vige in Cisgiordania o la punizione collettiva inflitta da Israele a due milioni di palestinesi con l’assedio a Gaza che dura ormai da oltre undici anni. Noi siamo pronti a tornare al tavolo del negoziato già da domani. Quello che chiediamo è che la trattativa sia fondata sulla legalità internazionale sancita da tre risoluzioni Onu. È chiedere troppo?».

Il che significa uno Stato palestinese entro i confini antecedenti la guerra dei Sei Giorni. Ma da quel luglio del 1967 è trascorso più di mezzo secolo e la realtà sul terreno è profondamente cambiata. Non c’è del vero in questa considerazione che viene fatta da politici israeliani, non solo della destra?, lo incalzai.  «Questa realtà cambiata non è dovuta a eventi naturali ma a forzature unilaterali compiute nel corso di questi decenni da Israele. Cosa c’è di “naturale” nella colonizzazione della Cisgiordania, nella confisca di terre palestinesi, nella pulizia etnica portata avanti nei confronti dei palestinesi a Gerusalemme Est? La realtà non è immutabile. Quel che diciamo è molto semplice: le risoluzioni Onu sono la base di una seria trattativa, possono esserci modifiche, circoscritte, delle linee di confine ma esse vanno negoziate sulla base del principio di reciprocità».

Un principio negato dal piano di annessione, congelato ma non rimosso, di Benjamin Netanyahu. «Per la prima volta in 53 anni di occupazione, un piano di annessione di Territori palestinesi occupati diviene in modo esplicito parte del programma di un Governo israeliano», dichiarò in esclusiva a Reset Erekat. «L’applicazione di questo piano – aggiunse – infligge un colpo mortale al dialogo e alla ripresa di un negoziato di pace, distrugge definitivamente la soluzione a due Stati e rappresenta una minaccia per la sicurezza e la stabilità in Medio Oriente».

Duro lo fu anche nel rigettare gli “Accordi di Abramo”, la pace siglata da Israele con Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Agli emiratini che sostengono che grazie a quell’accordo Israele ha do­vuto mettere nel cassetto il piano di annessione di parti della Cisgiordania, Erekat replico così: «Di cosa dovremmo ringraziarli? Di aver utilizzato strumentalmente la que­stione palestinese per un accordo con l’occupante israeliano che con i diritti del popolo palestinese non ha nulla a che fare? E chi avrebbe dato loro il via libera per trattare a nome e per conto dei palestinesi? Vogliono giustificare la stretta di mano virtuale con Netanyahu e Trump? Lo facciano pure, se lo considerano un evento storico, ma non usi­no i palestinesi per giustificare l’ingiustificabile. Questo non gli è permesso. Quanto poi all’affermazione secondo cui quell’accordo ha posto fine ai propositi d’Israele e del suo primo mi­nistro di istituzionalizzare, attraverso l’annessio­ne, il regime di apartheid di fatto in vigore da tempo in Cisgiordania, qui siamo davvero allo stravolgimento della realtà».

«Stanno veramente sbattendo le porte in faccia al diritto internazionale e spalancando quelle dell’estremismo, del terrorismo, della violenza, della corruzione, dello spargimento di sangue – aggiunse Erekat – Costringono i popoli a convincersi che l’unico modo di risolvere i problemi sia attraverso la violenza e non con i mezzi pacifici». E chiosò: «La comunità internazionale deve prendere tutte le misure necessarie per rispondere a fare da deterrente a questo comportamento irresponsabile degli Usa che rappresenta una minaccia alla sicurezza globale e alla pace».

E se Israele ha sempre rimarcato la necessità di una pace nella sicurezza, Erekat ha inglobato il principio della “sicurezza” in quello di giustizia. Consapevole che fossero le due facce di una stessa medaglia. E che la parola compromesso non fosse un insulto ma la chiave per porre fine all’“eterno” conflitto israelo-palestinese. Saeb ci credeva veramente, e molti dei retroscena che hanno costellato la sua lunga vita da negoziatore li avrebbe raccontati, mi confidò una volta, in un libro autobiografico che si riprometteva, un giorno, di scrivere. Non ha fatto in tempo. La vita è volata via veloce. Che la terra ti sia lieve, Saeb.

 

Foto: A. Momani / AFP

  1. Caro signor Stern,
    anzitutto la ringrazio per il tono e la profondità delle sue considerazioni. In tempi grami come quelli che stiamo vivendo, e non solo per la crisi pandemica che ha cambiato le nostre vite, discutere serenamente, ma con la forza delle proprie idee, davvero non è poca cosa. E Reset, con cui mi onoro di collaborare, tenta di svolgere questa preziosa funzione: essere un luogo aperto al confronto. Soprattutto quando il confronto verte su un tema così delicato qual è quello del conflitto israelo-palestinese. Iniziai a occuparmene nell’ormai lontano 1987, agli albori di quella che passò alla storia come l’”Intifada delle pietre”, una vera, grande rivolta popolare che costrinse il mondo a fare i conti con una irrisolta, ma spesso dimenticata o peggio demonizzata, causa palestinese. Sono passati 33 anni da allora, molti dei protagonisti del tempo, che io ho avuto l’onore di conoscere e intervistare, non ci sono più: Yitzhak Rabin, Yasser Arafat, Shimon Peres, Ariel Sharon e ora anche il mio amico Saeb Erekat. Vede signor Stern, tante cose sono successe in questi 33 anni, e una pace giusta, duratura, tra pari in Palestina è ancora un sogno da realizzare. Ma una cosa, questa lunga esperienza sul campo, mi ha insegnato. E per riassumerla faccio mia la considerazione che mi offrì, in una nostra lontana conversazione, un grande intellettuale israeliano, recentemente scomparso: Amos Oz, il cui impegno per la pace e il dialogo nessuno può certo mettere in discussione. L’essenza di questa tragedia, mi disse, che la distingue da tante altre che segnano il mondo, è che a scontrarsi non è il Bene contro il Male, Il Torto, tutto da una parte, scegliete voi quale, e la Ragione dall’altra. L’essenza di questa tragedia, aggiunse, è che a scontrarsi sono due diritti egualmente fondati ma che non riescono a incontrarsi a mezza strada. “Nel mio mondo – scrive Oz in un libro quanto mai attuale, “Contro il fanatismo” – la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Così è.
    Vede signor Stern, lei cita quella notte che cambiò il corso della storia in Israele, in Medio Oriente, nel mondo. La notte in cui un giovane estremista di destra, Yigal Amir, pose fine con tre colpi di pistola alla vita di Yitzhak Rabin. Io ero lì, quel 4 novembre 1995, in quella Piazza dei Re d’Israele, nel cuore di Tel Aviv, in cui si era radunata una folla festante, venuta lì per sostenere un primo ministro oggetto di una campagna di odio orchestrata contro di lui dalla destra israeliana, e uno dei più duri, nelle accuse e negli insulti sferzanti, era colui che ancora oggi è il Primo ministro d’Israele: Benjamin Netanyahu. Ma, e qui viene il punto della nostra differenziazione, se Netanyahu, un anno dopo, vinse, sia pure per poche decine di migliaia di voti, le elezioni che lo contrapponevano a Shimon Peres, non è solo perché Amir e chi gli armò, ideologicamente, la mano aveva assassinato l’uomo che aveva avuto il coraggio e l’autorevolezza, e non solo l’autorità, di avviare un percorso di pace con quello che nella psicologia di una nazione, Israele, era il Nemico per antonomasia. Netanyahu vinse perché le elezioni si giocarono sul terreno sempre vincente per la destra, e non solo in Israele, quello della sicurezza. Vinse perché Israele venne trasformato in campo di battaglia dai “kamikaze” palestinesi indottrinati e armati da Hamas, dalla Jihad islamica, dal fronte del rifiuto palestinese, eterodiretto, a cui Arafat non seppe porre argine. Caffè, pizzerie, discoteche, autobus, centri commerciali, alberghi, mercati ridotti in cumuli di macerie dagli “shahid”. A morire non erano persone in divise, ma civili inermi, tante donne e bambini. David Grossman, scrittore tra i più impegnati in Israele e affermato in tutto il mondo, una volta mi invitò a casa sua. E in quell’occasione conobbi la sua meravigliosa famiglia, la sua moglie ei suoi figli, tra cui Yoni, che morì, ultimo carrista israeliano, qualche anno dopo nella guerra in Libano. Alla fine della nostra conversazione, la signora Grossman mi confidò una cosa che non ho mai dimenticato: la mattina io e David mandiamo i nostri figli a scuola su autobus diversi perché così abbiamo la certezza che uno ritornerà vivo a casa. Nessuno, certo non io, ha dimenticato i crimini compiuti a Gaza contro la popolazione civile, ne ho scritto in centinaia di articoli, ed ero a Ramallah nei giorni dell’assedio della Muqata, il quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese, al cui interno era asserragliato Yasser Arafat e un pugno di fedelissimi. Arafat, dunque. Definirlo “Mr Palestine” è cogliere la sua importanza che andava ben oltre le cariche formali. La causa palestinese nel mondo ha avuto come immagine, come volto, come voce, quella di Arafat. Riconoscerlo non significa però mettere tra parentesi gli errori, gravi, che commise, e che non possono essere imputati soltanto all’occupante israeliano. La metto così: fu un grande capo di un movimento di liberazione nazionale, e un pessimo stratega politico. Pessimo, anzitutto, nella selezione della classe dirigente palestinese: invece di promuovere alla guida dell’Anp, uno Stato in formazione, coloro che si erano forgiati sul campo, nella prima Intifada, i Feisal Husseini, i Saeb Erekat, gli Abdel Shafi, le Hanan Ashrawi e soprattutto quel Marwan Barghouti, inviso alla vecchia guardia di Tunisi, Arafat preferì circondarsi di yes men, di burocrati privi di qualsiasi legame con la gente palestinese. Una nomenclatura incapace e corrotta. Ed è proprio questi connotati negativi che portarono Hamas a vincere le prime e ultime elezioni libere in Palestina a cui lei fa riferimento. Arafat merita un posto nella storia, ma non ebbe la volontà, e forse la capacità, di trasformarsi da leader “guerrigliero” a capo di uno Stato in divenire. Quella grandezza che ebbe Nelson Mandela. L’ho fatta lunga, ma le sue considerazioni, così criticamente stimolanti, ne valevano la pena. La pace, ecco l’altra lezione che ho tratto da questa esperienza trentennale, non nasce dall’alto e tanto meno può essere imposta dall’esterno. La pace nasce dal basso, da un dialogo che deve impegnare le due società. La pace è anche una rivisitazione condivisa della storia dal 1948 ad oggi. E’ fare i conti con l’altro da sé, riconoscendone l’identità, diritti, speranze e paure. Non so se questo significa vedere realizzato un accordo fondato sulla soluzione a due Stati, o se in un futuro non indefinito, nascerà uno Stato binazionale. Di certo, se nascerà, quando nascerà, non sarà un matrimonio d’amore ma di interessi. Sarà la pace dei generali e non dei poeti o romanzieri. Sarà la pace voluta dai tanti, tra gli israeliani e i palestinesi, vogliono per sé e i propri figli una vita normale, non in trincea. Che non hanno disegni messianici o imperiali da realizzare, la Grande Israele, la “Grande Palestina”, e che attendono leader coraggiosi e lungimiranti che sappiano tradurre queste aspettative in atti politici, in un compromesso che sa di vita.

  2. La conversazione con Erekat comprende un arco storico di trent’anni. La storia di quelle trattative alle quali ha dato un contributo, e che, lungi dal risolvere, hanno aggravato i problemi. Quelli dei palestinesi.
    Ma, devo dire, non mi è piaciuto il seguente passaggio di Giovannangeli .

    “Una svolta che è rimasta negli annali della storia con la stretta di mano sul prato della Casa Bianca – era il 13 settembre 1993 – tra Yitzhak Rabin, primo ministro dello Stato ebraico, e “Mr. Palestine”, il presidente dell’Anp, Yasser Arafat.Quella stagione della speranza durò poco, spazzata via dai kamikaze palestinesi, dalle durissime rappresaglie israeliane, e dalla morte dei due ex nemici che osarono la pace: Yitzhak Rabin, assassinato da un giovane zelota israeliano, e Yasser Arafat. Da quel 13 settembre 1993, sono passati 27 anni, più di un quarto di secolo.”

    E segnatamente la parte da me sottolineata. Dopo il 13 settembre ’93, Rabin, che strinse la mano ad Arafat, venne sottoposto in Israele ad un vero e proprio linciaggio da parte della destra di Sharon e Netanyahu. Poi il 4 novembre 1995 venne assassinato, non da uno “zelota” qualsiasi, ma di un estremista sionista del Likud i cui capi fino al giorno prima linciavano Rabin. Quando Netanyahu andò all’ospedale per rendere omaggio alla salma di Rabin, fuori la folla (ebrei israeliani del Labour) urlava “Bibi hai le mani sporche di sangue”.(“Bibi” è il diminuitivo di Netanyahu).
    Dopo l’assassinio di Rabin (novembre 95) Israele si accinse ad andare alle elezioni (maggio 96) per sostituire il capo del Governo. La campagna elettorale iniziò subito e Netanyahu ai primi di gennaio del ’96 si candidò con la parola d’ordine: Eleggetemi e non ci saranno più colloqui. Ricordo di esser stato al suo comizio fuori dalla porta di Jaffa, quando presentò il suo “programma”in mezzo alle ovazioni.
    In quello stesso tempo, gennaio 96, per la prima volta venne permesso ai palestinesi di tenere elezioni politiche. Hamas, il partito che si contrapponeva ad Arafat, si presentò dicendo che i colloqui erano una trappola e invitava a disertare le urne. Arafat giocò tutto il suo prestigio invitando a votare per lui e la prosecuzione dei colloqui. In quel 20 gennaio i palestinesi dettero un voto plebiscitario (altissima percentuale di votanti e valanga di voti ad Arafat) per la prosecuzione dei colloqui. Il Corsera allora titolò: La vittoria di Arafat è anche la vittoria di Rabin”.
    I palestinesi, all’omicidio di Rabin, risposero dando l’anima e il corpo per le trattative. Ma il cinque mesi dopo, il 30 maggio, vinse Netanyahu. E fu un vittoria che scosse i commentatori politici di tutti il mondo. Lo stesso Clinton saputo della vittoria di Netanyahu, commentò “Il processo di pace è morto ” (Cito dal Jerusalen Post, il giornale della destra israeliana di quei giorni).
    Questi sono i dati. Giovannangeli li ignora citando attentati (che ci sono anche stati) ma dimenticando (?) gli sviluppi concreti della Storia e mettendo insieme avvenimenti e date distantissimi gli uni dagli altri: Rabin è stato ucciso nel 95 e Arafat morì nel 2004 tra le macerie di Ramallah . Come fa a dire “la morte dei due ex nemici che osarono la pace”. La pace è morta a partire dalla scomparsa di Rabin e da 25 anni a questa parte l’hanno seppellita Netanyahu e gli altri che in Israele non hanno oppositori (se non ancora più a destra).
    Giorgio Stern

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