Iran, l’opposizione: la minaccia esterna compatta il regime

Una sola tregua, tre celebrazioni. Dopo l’annuncio del cessate il fuoco tra Iran e Israele, Teheran rivendica la propria resistenza, Benjamin Netanyahu parla di vittoria storica che durerà per generazioni e Donald Trump si presenta agli Stati Uniti e al mondo come l’uomo della pace.

Ma dietro le dichiarazioni ufficiali resta il nodo irrisolto del futuro del regime iraniano.

Il presidente statunitense ribadisce di non aver mai voluto un “regime change” a Teheran perché “sarebbe il caos”. Solo tre giorni fa, però, scriveva sui social – a caratteri cubitali – che se la Repubblica islamica non è “in grado di RENDERE NUOVAMENTE GRANDE L’IRAN, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime?”.

Da quando Israele ha attaccato l’Iran, uccidendo parte della sua leadership – ma non il presidente Massoud Pezeshkian e soprattutto la guida suprema Ali Khamenei – e invitando la popolazione a ribellarsi, il tema è tornato al centro del dibattito. Ma molti intellettuali iraniani in esilio hanno detto che nessuna bomba straniera avrebbe instaurato una democrazia, anzi, ad oggi il rischio è di aver ottenuto l’effetto contrario.

Lo aveva sostenuto Reza Aslan, sociologo e scrittore iraniano-americano, in un’intervista a Zeteo subito prima dell’attacco americano: “È vero che il regime si regge a malapena, ma l’idea che bastino alcune bombe statunitensi su Teheran perché collassi e il popolo si sollevi e prenda il potere è assurda”. “Semmai accadrà il contrario – aveva sottolineato Aslan – gli iraniani sono molto patriottici, molto nazionalisti, la cosa migliore che potrebbe capitare a questo regime è che le bombe americane inizino a cadergli addosso”.

È dello stesso parere Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace nel 2023, detenuta nel carcere di Evin. Intervistata dal Corriere della Sera ha dichiarato: “Credo profondamente che la democrazia, i diritti umani e la libertà non si ottengano attraverso la violenza e le bombe”. Ad aver causato tutto sono Ali Khamenei e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha affermato, “perché promettono che si può costruire un futuro migliore attraverso la guerra, l’uccisione e la violenza: impossibile”. Mohammadi è stata anche tra le firmatarie di un appello di condanna ai governi dell’Iran e di Israele, sottoscritto da oltre 2100 attivisti di entrambi i paesi.

Shirin Ebadi, anche lei premio Nobel per la pace nel 2003, fa una distinzione: “Nelle prime ore degli attacchi, quando sono stati fatti fuori i capi pasdaran, la gente era felice,” e pensava che questo scontro sarebbe potuto essere un punto di svolta. “Ma quando i razzi di Tel Aviv hanno cominciato ad attaccare le infrastrutture e a causare vittime tra i civili, la percezione è cambiata”, nota. Di sicuro non sarà la guerra a far cadere il regime, “la cui fine definitiva e duratura dipende dagli esiti della lunga battaglia che il popolo iraniano sta combattendo da anni per riappropriarsi del proprio destino”.

L’unica vera minaccia per il regime dei pasdaran è il popolo iraniano. Lo ribadisce anche Amiry-Moghaddam, presidente dell’organizzazione Iran Human Rights: “La transizione democratica deve avvenire dall’interno. Se Israele prevedeva che l’attacco avrebbe portato la gente in strada a manifestare, ha sbagliato i suoi calcoli. A prevalere sono stati il terrore per i bombardamenti e gli arresti di dissidenti con l’accusa di spionaggio”. Il conflitto potrebbe essere usato “per colpire più duramente l’opposizione nel Paese con il pretesto della cooperazione con Israele”.

Anche il regista Jafar Panahi, vincitore da ultimo della Palma d’oro al Festival di Cannes 2025, ha espresso la sua frustrazione: “Israele ha violato l’Iran e dovrebbe subire un processo internazionale come aggressore di guerra”. Ma accusa anche la Repubblica Islamica che ha portato a “quarant’anni di cattiva gestione, corruzione, oppressione, tirannia e incompetenza. Entrambi i regimi dovrebbero essere condannati per la loro continua violenza, guerra e assoluta indifferenza alla dignità umana”.

Shahram Akbarzadeh, direttore del Middle East Studies Forum alla Deacon University in Australia, ha detto ad Al Jazeera: “L’obiettivo di Netanyahu è da sempre quello di deporre la Repubblica Islamica”, ma ciò che ha ottenuto con questo attacco è “l’eliminazione della possibilità di una rivolta popolare nel Paese”. Anche se il governo iraniano è impopolare e potrebbe essere prossimo alla capitolazione, “l’attacco straniero ha avuto l’effetto di galvanizzare la popolazione dietro al governo. Il regime ne beneficerà politicamente da queste vicende” perché “la priorità degli iraniani è diventata la propria sicurezza, non il cambio di regime”.

Anche perché, sottolinea Ramin Jahanbegloo, intellettuale iraniano residente in Canada, “chi parla di regime change non dice come dovrebbe avvenire. Intanto la popolazione subisce”. È vero che “nessun giovane vorrebbe combattere per il regime, ma questo non significa però che approvino gli attacchi israeliani contro i civili”.

Non sono poche le persone, in Iran e all’estero, che hanno sperato in un cambio di regime dopo i bombardamenti israeliani e americani. Uno di questi è Reza Pahlavi, figlio in esilio dell’ultimo monarca iraniano. Il principe ereditario ha girato gli studi televisivi statunitensi affermando che il regime è sull’orlo del collasso e offrendosi come figura di spicco di una transizione democratica. Anche se non sembra godere di un grande consenso in patria, ha dichiarato: “Molti elementi di spicco stanno già fuggendo dall’Iran, ho un piano per il futuro e la ripresa dell’Iran”. Netta la risposta di Shirin Ebadi: “Pahlavi non ha più diritto rispetto agli altri, all’Iran serve un referendum”.

Mentre i pasdaran festeggiano “l’imposizione della tregua a Israele” e cercano di compattare il fronte interno, gli oppositori iraniani non hanno perso la speranza di un avvento democratico nel Paese. Al timore della sopravvivenza del regime, però, si aggiunge ora anche la paura di una sua caduta per mano straniera. Infatti, senza un movimento interno radicato nella società iraniana, qualsiasi cambio di regime rischia di sacrificare la democrazia e i diritti umani sull’altare della geopolitica.

 

(A cura di Pietro Spotorno)

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