I martiri cristiani d’Algeria.
Perché scelsero di rimanere

La mostra organizzata da Fondazione Oasis e dalla LEV (Libreria Editrice Vaticana) a Rimini

Il nesso tra religione e violenza è stato a lungo considerato un’evidenza politica e sociologica. Negli ultimi decenni, in particolare dopo la rivoluzione islamica iraniana del 1979 e gli attentati dell’11 settembre 2001, le religioni sono tornate al centro della scena politica internazionale, e non sempre per ragioni positive. Gli esempi abbondano: i conflitti in Bosnia, Algeria, Kashmir, Palestina, Sudan; ma anche l’islamismo violento, il nazionalismo indù, la destra evangelica cristiana, i partiti ebraici estremisti. Il ritorno della religione nella politica internazionale è stato collegato al tema più vasto della politica identitaria. Le religioni sono state spesso considerate un caso emblematico dell’irruzione dell’irrazionalità nella sicurezza internazionale.

Tuttavia, questa è solo una parte della storia.

In numerose tradizioni religiose, infatti, ritroviamo la stessa idea di fondo di fratellanza universale o di famiglia umana, troppo frettolosamente liquidata come una mera aspirazione etica, priva di rilevanza per l’ordine internazionale e incapace di incidere sull’adozione di politiche plasmate dalle asimmetrie di potere e dagli interessi economici. Esistono, invece, molteplici modalità attraverso le quali le religioni elaborano percorsi pragmatici, proattivi e creativi per coniugare giustizia, comunità e dialogo nelle relazioni internazionali. Nel Mediterraneo, in particolare, possono offrire un’alternativa alla narrazione politica che è stata per troppo tempo dominante nella regione, quella dello scontro di civiltà o dei conflitti intrattabili.

Un esempio può illuminare questo potenziale costruttivo, relativamente trascurato, delle religioni nel ricomporre fratture e risanare profonde ferite sociali. Nel febbraio 2018 papa Francesco emise il decreto di beatificazione di monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano e di altri 18 sacerdoti, monaci e religiose uccisi durante la guerra civile che devastò l’Algeria negli anni Novanta, causando almeno 150mila vittime tra la popolazione algerina. Tra queste, è ben nota la vicenda dei sette monaci trappisti di Tibhirine, rapiti e uccisi nel marzo 1996.

Quel “decennio nero”, come è conosciuto in Algeria, ebbe inizio nel gennaio 1992, quando l’esercito – centro effettivo del potere sin dall’indipendenza del 1962 – annullò il primo turno delle prime elezioni legislative multipartitiche del Paese per impedire una probabile vittoria islamista. Il colpo di Stato – perché di questo si trattò – innescò un’insurrezione violenta, che a sua volta degenerò in una guerra civile brutale. E dunque la matrice di quel conflitto va rintracciata in un atto d’imperio, in una decisione politica sconsiderata, e non semplicemente in una deriva integralista della società algerina. Le colpe vanno pertanto ripartite tra una classe politica irresponsabile e autoritaria e, in misura incommensurabilmente maggiore, un’opposizione islamista che non si fece alcuno scrupolo di ricorrere al terrorismo omicida su larga scala.

Alla fine di quel decennio di terrore, Abdelaziz Bouteflika, divenuto presidente nel 1999 (e costretto a lasciare l’incarico vent’anni dopo, nel 2019, dopo una serie di oceaniche manifestazioni di piazza), si presentò con una controversa piattaforma di presunta riconciliazione nazionale.

Alla fine di guerre civili o conflitti interni alcuni Paesi, storicamente, hanno scelto di dare spazio anzitutto alla verità, come nel caso del Sudafrica, o al negoziato, come in Colombia, prima di avviare un percorso di giustizia come precondizione della riconciliazione. In Algeria, al contrario, i testi che introducevano una sostanziale amnistia “bilaterale” (islamisti da una parte, “patrioti” giustizieri e corpi speciali dall’altra) furono adottati, senza discussione parlamentare né dibattito pubblico, e saltando sia la fase della verità che quella della giustizia (specie riparativa).

Su questo sfondo a dir poco complesso, nel celebrare i propri martiri, la Chiesa cattolica algerina gestì con grande attenzione e saggezza la narrazione dell’evento

Nel suo messaggio per l’evento della beatificazione, papa Francesco espresse i suoi “incoraggiamenti fraterni affinché questa celebrazione aiuti a sanare le ferite del passato e crei una dinamica nuova dell’incontro e del vivere insieme sull’esempio dei nostri beati”. Bergoglio evidenziava che “i cattolici dell’Algeria e del mondo vogliono […] includere nella loro preghiera tutti i figli e le figlie d’Algeria che sono stati, come loro, vittime della stessa violenza per aver vissuto, con fedeltà e rispetto dell’altro, i loro doveri di credenti e di cittadini in questa terra benedetta. È anche per loro che eleviamo la nostra preghiera ed esprimiamo il nostro riconoscente omaggio”. Infine, concludeva papa Francesco, “attraverso la beatificazione dei nostri diciannove fratelli e sorelle, la Chiesa vuole testimoniare il suo desiderio di continuare a operare per il dialogo, la concordia e l’amicizia. Crediamo che questo evento senza precedenti nel vostro Paese traccerà nel cielo algerino un grande segno di fraternità indirizzato a tutto il mondo”. Questa magnifica immagine di “un grande segno di fraternità nel cielo algerino” si trasformò immediatamente in un titolo a caratteri cubitali in tutta la stampa locale. In qualche modo fu un succedaneo, in versione ridotta, della incompiuta riconciliazione nazionale.

Pierre Claverie che nella stola fece ricamare in arabo le parole “Dio è amore”

La Chiesa cattolica algerina, da parte sua, non mancò di evidenziare con maggiori dettagli il carattere inclusivo della decisione di procedere alla beatificazione in territorio algerino, chiarendo che “i nostri fratelli e sorelle non avrebbero accettato di essere separati da coloro con i quali hanno condiviso la propria vita. Essi sono testimoni di una fraternità senza confini, di un amore che non discrimina. È per questo che la loro morte getta luce sul martirio di molti altri, algerini, musulmani, ricercatori di senso che, operando per la pace e perseguitati per il loro senso di giustizia, uomini e donne generosi, rimasero fedeli fino al dono della vita durante il decennio nero che insanguinò l’Algeria. (…) Tra loro ricordiamo i 99 imam che persero la vita per aver rifiutato di giustificare la violenza”. Proprio in occasione della beatificazione a Orano, vescovi e imam, dopo la lettura della sura Maryam, pronunciarono nella grande moschea di Ben Badis interventi improntati alle parole-chiave della pace, della concordia e della convivenza.

Tali gesti e dichiarazioni non costituiscono un semplice esercizio di correttezza politica, né possono essere letti, riduttivamente, come atti di prudenza da parte di una minoranza religiosa (quella cattolica in Algeria). Rappresentano piuttosto un cambiamento paradigmatico fondamentale: il passaggio da un concetto eurocentrico ed egemonico di religione (cattolica) a un autentico atteggiamento postcoloniale di inculturazione riflessiva.

Furono proprio i cattolici algerini rimasti nel Paese per scelta dopo la conquista dell’indipendenza, e ancor di più i monaci di Tibhirine a continuare, a prezzo della vita, l’operazione di “liberazione” del cattolicesimo algerino, per ben 130 anni collegato alla colonizzazione francese, scegliendo di restare in Algeria, nonostante i gravissimi ed evidenti rischi posti dal terrorismo islamista. Ci si trovava, infatti, dinanzi a omicidi mirati, anche se si trattava di un’assoluta minoranza di integralisti violenti nella società algerina, perché in generale i cristiani, e specie quelli che operavano a livello sociale, erano molto amati e anche protetti dal popolo nel contesto in cui prodigavano il loro impegno. È importante ricordare che il priore di Tibhirine, Christian de Chergé, aveva dato vita al Ribat al-Salam, un cenacolo di confronto con alcuni musulmani, il cui nome significa “vincolo di pace”.[1]

La domanda cruciale, formulata dall’allora Vescovo di Algeri, Henri Teissier, a tutte le comunità e a tutti i religiosi, divenne perciò “Restare o partire?”. Dinanzi alla forte pressione per il timore – fondato – di essere letteralmente presi di mira, si era paradossalmente rafforzata in Teissier e nella stragrande maggioranza dei religiosi in Algeria la dimensione della fedeltà. “Noi siamo in Algeria – dichiarò Teissier in un’intervista a Giuliano Vallotto per Missione oggi, nel febbraio del 1995 – per fedeltà a un popolo, il popolo algerino. Come potremmo abbandonare, nel momento del pericolo, i nostri amici algerini? Rimanere è nella logica della nostra vocazione […]. Siamo stati mandati dalla Chiesa in questo Paese musulmano per avvicinarci a dei fratelli e sorelle in umanità: noi vogliamo dire, nella nostra vita, il progetto cristiano di una fraternità dalle dimensioni del mondo. La nostra partenza potrebbe significare che non c’è più speranza. Restare è impegnarsi, con molti altri, ad aprire un cammino di speranza. Se la speranza fosse morta, vorrebbe dire che anche la nostra fede è morta”. Come afferma in un’intervista il domenicano Jean-Jacques Pérennès, biografo di monsignor Claverie, a proposito dei 19 martiri: “Non sono stati beatificati perché sono morti, ma perché hanno scelto di restare”.

Sette anni dopo la beatificazione a Orano, una straordinaria mostra (“Chiamati due volte”) dedicata ai 19 martiri è stata recentemente allestita in Italia (a Rimini) su iniziativa della Fondazione Oasis, un think tank impegnato nel dialogo interreligioso, con particolare attenzione all’islam, per impulso del suo direttore delle ricerche, Michele Brignone. Nell’ambito del “Meeting Internazionale per l’Amicizia tra i Popoli” (Rimini, 22-27 Agosto 2025), si è svolto un dibattito di alto livello con la partecipazione, tra gli altri, del cardinale Jean-Paul Vesco, arcivescovo di Algeri (che, al momento della beatificazione, era vescovo di Orano), di suor Lourdes Miguèlez Matilla (missionaria agostiniana, testimone diretta dei tragici eventi) di padre Thomas Georgeon, postulatore della causa di beatificazione dei martiri d’Algeria, e di Nadjia Kebour, studiosa algerina, docente al Pontificio Istituto Studi Arabi e d’Islamistica (PISAI), esperta di Sant’Agostino, un padre della Chiesa algerino.[2] Papa Leone XIV si è riferito a queste iniziative affermando che nella testimonianza dei martiri di Algeria “risplende la vocazione della Chiesa ad abitare il deserto in profonda comunione con l’intera umanità, superando i muri di diffidenza che contrappongono le religioni e le culture, una via di presenza e di semplicità, di conoscenza e di ‘dialogo della vita’”.

Nella ricostruzione di padre Thomas Georgeon, al momento della beatificazione “papa Francesco si stava impegnando, con passi decisivi, in un dialogo con l’Islam. Alcuni mesi dopo ebbe luogo l’incontro di Abu Dhabi con il grande imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, e la firma del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, un testo che ha inaugurato una nuova era: quella dell’opposizione formale alla ‘guerra santa’ attraverso un’alleanza nella quale le due più grandi religioni del mondo hanno dichiarato con chiarezza di collocarsi all’interno della cornice della fraternità umana”.

Talvolta, nella retorica “civilizzazionale” di stampo pregiudizialmente e scopertamente anti-islamica, si parla della necessità di “proteggere i cristiani” in Medio Oriente (con picchi inaccettabili, come la richiesta di una “protezione selettiva” dei soli cristiani a Gaza), ma il tema è quello della sostanziale appartenenza storica a quelle terre dei cristiani, che non hanno bisogno di potenze tutelari, ma di diritti e di cittadinanza a pieno titolo.

Se la vicenda dei martiri d’Algeria insegna qualcosa, è proprio il radicamento, in forme rinnovate, dei cristiani nel Mediterraneo e nel Medio Oriente in contesti nazionali e culturali antichi e densi di storia, ai cui destini essi sono inestricabilmente legati, come si vede, ad esempio, nel caso – ancora interamente sub iudice – della “nuova” Siria.

 

 

 

[1] Jean-Jacques Pérennès, Christian de Chergé. Un cristiano tra l’Islam e Gesù, Qiqajon, Magnano (BI) 2016.

I diritti delle immagini qui riprodotte sono del Meeting Rimini (Flickr). 

  1. Avendo seguito il «decennio nero», e non solo, in Algeria ho avuto modo di conoscere e frequentare sia il vescovo di Orano (avevo un appuntamento con lui quando fu assassinato e partecipai al suo funerale) che quello di Algeri. Monsignor Teissier diceva che il suo rapporto con gli algerini era di fratellanza e di solidarietà: «Come potrei fare proselitismo in un paese dove il 99 percento della popolazione è musulmana», diceva. A casa di Monsignor Teissier ci ritrovavamo con religiosi, musulmani laici, femministe, tutti nel mirino dei Gruppi islamici armati.

  2. Questo scritto molto interessante rivela quanto gli umani siano capaci di unire le loro vite con gli altri piuttosto che restare nella loro zona di sicurezza.
    Mi ricorda un bellissimo film di Xavier Beauvois : ” Des hommes et des dieux”.

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