Gaza: “Che cosa abbiamo fatto?”
Il pensiero che viene coi crolli

A Gaza, i grattacieli stanno cadendo. Cadono a fasi: un’inclinazione esitante, il lento cedimento del cemento, l’improvvisa accelerazione e poi la sparizione, inghiottiti da una nuvola bianca che si espande, coprendo tutto ciò che incontra.

C’è una bellezza strana e terribile nel crollo. La polvere si solleva, morbida come seta, ma intrisa di veleno. Si insinua nelle tende e nei rifugi dove la gente si accalca, soffocandola, spingendola sempre di più ai margini dell’esistenza. Danni collaterali, li chiamiamo, come se l’espressione potesse attenuare la crudeltà. Ma qui non c’è nulla di accidentale. Anche gli ostaggi, se vengono tenuti lì vicino, non sfuggiranno al fragore, alla polvere, all’aria che soffoca.

Perché cadono gli edifici? Perché Israele ha deciso — senza logica, senza ragione — che è il momento che le torri vengano giù. Un’altra espansione dell’infinito elenco dei bersagli. Perché? Perché sì.

L’apparato militare stesso si oppone alla mossa, sapendo bene che la guerra continua trasforma noi, tanto quanto i palestinesi, in bersagli umani. L’esplosione, il crollo, seguiti da una densa nuvola di polvere, e poi urla e singhiozzi umani, non possono distogliere la nostra attenzione dal fatto che gli edifici che cadono non salvano gli ostaggi, condannati a una morte dolorosa, né i soldati distesi come bersagli facili, facili prede da abbattere.

Eppure, comunque, gli alti edifici continuano a essere presi di mira. Anche ora, qualcuno — forse tuo figlio, o il figlio di un amico — è seduto a una scrivania, a tracciare la meccanica precisa del prossimo crollo. Lo guarderà sgretolarsi e proverà un cupo compiacimento. E fra un anno o due lo rincontreremo perseguitato, svuotato da ciò che ha fatto, ad aggiungersi alle fila sempre più numerose dei soldati traumatizzati che questa guerra ha prodotto. Terremo lui e i suoi amici stretti al nostro cuore, apriremo per loro reti di supporto, sapendo che ogni giorno uno di loro si toglie la vita, incapace di sopportare oltre la responsabilità morale di ciò che gli era stato ordinato di fare.

Questo è il momento di agire. Mentre i grattacieli crollano, dobbiamo inondare le strade. Dobbiamo esigere che l’esercito segua il sobrio giudizio dei suoi comandanti, non gli sconsiderati decreti dei politici. Sì, è una decisione radicale. Ma un capo di Stato Maggiore non può consapevolmente mandare i soldati in una trappola mortale.

Non ci sarà un’altra occasione. Non potremo dire che non lo sapevamo. Lo sappiamo già. Sappiamo che i palestinesi sono condannati a sofferenze inutili, sofferenze che si trasformano in odio mortale. Sappiamo che i nostri figli torneranno da Gaza intorpiditi, segnati, con lo spirito spezzato in modi che non si possono riparare. Le loro ferite resteranno nelle loro case, nei loro matrimoni, nella vita dei loro figli.

Il silenzio ora è complicità. Ogni guerra insegna la stessa amara lezione: chi distrugge, chi bombarda, chi abbatte abitazioni — osannati oggi con pacche sulle spalle e parole di lode — una notte dovrà fare i conti con le proprie azioni. Il pensiero “che cosa ho fatto?” li raggiungerà, come già raggiunge molti, implacabile e senza perdono.

Noi, che restiamo seduti in casa, ci diciamo che la distruzione non ci tocca. Non è così. Anche noi ne saremo perseguitati, nei sogni e nella veglia, in Israele e in tutto il mondo. Perché tutto questo è fatto in nostro nome, e perciò non possiamo esserne assolti.

C’è un altro modo di pensare? Un altro modo di vivere?

Nel 1940, sotto le bombe del Blitz — i bombardamenti tedeschi su Londra — Virginia Woolf scrisse Pensieri sulla pace durante un raid aereo. Mentre Londra bruciava, sosteneva che la guerra nasce nella mente. Per fare la guerra, bisogna prima assorbire i valori del potere, della gerarchia, della supremazia. Per porvi fine, quelle immagini interiori devono essere smantellate. Ci invitava a fare della pace non solo un’azione, ma una pratica del pensiero: costruire una cultura del dialogo invece che del dominio, crescere figli che non si nutrano d’odio né venerino le armi.

Non è facile. Sotto il terrore costante e i bombardamenti, la pace sembra impossibile. La paura genera obbedienza. La macchina pretende lealtà. Ma quando la paura si attenua, la mente istintivamente cerca un rinnovamento, si ricorda di frammenti di poesia, delle voci degli amici, del semplice incanto della normalità. Se vogliamo salvare i giovani dalla macchina della guerra, dobbiamo permettere loro di respirare, sentire, percepire, annusare la vita.

Serve coraggio per dire la verità in tempo di guerra. Eppure ora, in Israele e a Gaza, queste verità devono essere dette. Gli israeliani devono capire che i crolli di Gaza non schiacciano solo i palestinesi: cadono anche su di noi. Finché non cambieremo coscienza — dalla vendetta alla compassione, dall’odio alla speranza — non ci libereremo mai dalle catene della guerra senza fine. Non respireremo mai liberamente. Non vivremo mai davvero.

 

 

Yuli Tamir è la presidentessa del Beit Berl College e insegna teoria politica alla Blavatnik School of Government dell’Università di Oxford. Già ministra dell’Istruzione e ministra dell’Immigrazione nel governo israeliano, è una delle fondatrici del movimento pacifista in Israele.

Questo articolo è stato pubblicato in origine in ebraico su Haaretz il 7 settembre 2025.

Immagine di copertina: alcune persone fuggono dopo l’esplosione di un edificio parte dell’Università islamica di Gaza a Gaza City, il 14 settembre 2025 (Foto di Omar Al-Qattaa / AFP).

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