Yemen, una guerra di logoramento tragicamente dimenticata

In un cono d’ombra informativo di sconcertante estensione, si consuma giorno dopo giorno la tragedia della sfortunata Repubblica unita dello Yemen, la cui popolazione è allo stremo delle forze.
Ufficialmente, con efficacia la coalizione di Paesi sunniti guidata dal casato arabo dei Saud sta colpendo obiettivi militari dei ribelli zayditi Huthi (sciiti) in supporto al blocco di potere (sunnita) rappresentato dal presidente Abd Rabbih Mansour Hadi, costretto a riparare ad Aden, a Sud, nel gennaio del 2015.

In realtà, sono i civili a pagare il prezzo – altissimo – di una guerra di logoramento che non pare volgere al termine.
È del 18 luglio scorso l’ultimo massacro riferito dall’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), avvenuto nel distretto Mawza nei pressi di Taiz: aerei militari filo-governativi hanno preso di mira un campo di sfollati, provocando la morte di 20 persone, tutti membri della medesima famiglia.
Per Riyadh, l’assunzione di responsabilità in casi come questo è fuori discussione: non si contano, da marzo 2015 a oggi, cioè da quando ha avuto inizio la funesta “avventura militare” saudita in Yemen, gli episodi analoghi, ma mai la coalizione ha ammesso gli errori di valutazione delle proprie forze militari. Ospedali, scuole, quartieri residenziali, campi profughi, convogli umanitari sono stati “scambiati” per bersagli ribelli e colpiti senza esitazione.

Dall’inizio del 2017, al dramma di milioni di persone, per oltre la metà minori, costretti a vivere in centri abitati ridotti a cumuli di macerie oppure in campi profughi a centinaia di chilometri dal luogo di origine, si è aggiunto un ulteriore flagello: il colera.
Gli organismi internazionali, la Croce rossa in primis, attestano 300mila casi di contagio, per oltre 1700 morti. L’organizzazione umanitaria Oxfam fornisce numeri ancora superiori: 360mila contagiati da aprile ad oggi, 2mila i morti. Un dato che dà le vertigini, ancor di più se si pensa che il record negativo più recente era detenuto da Haiti: nel 2011, dopo il disastroso sisma, si registrarono 340mila casi in un anno.

Tragicamente, lo Yemen presenta tutte le caratteristiche necessarie alla diffusione del virus: rete fognaria distrutta o contaminata, mancanza di strutture sanitarie, totale assenza di igiene nei campi profughi e nelle abitazioni sopravvissute ai bombardamenti.
Intanto, niente fa pensare che le parti addiverranno a un accordo per il cessate il fuoco in tempi utili a evitare il peggio. Scontri frontali proseguono nel Sud-Est del Paese, mentre attacchi kamikaze si registrano a macchia d’olio, a segnalare l’ambizione di gruppi islamisti di vario genere di incunearsi nelle brecce aperte dalla guerra per destabilizzare definitivamente lo Yemen.

La capitale, Sana’a, è ancora sotto il controllo delle forze Huthi: non ci sono prove documentate di un supporto militare – oltre che politico – da parte di Teheran ai fratelli zayditi, ma è improbabile che la ribellione stia contrastando unicamente con le proprie risorse un fronte sunnita saldo e ben equipaggiato.

Una copertura efficace da parte della stampa internazionale è palesemente ostacolata da Riyadh: per citare il caso più recente, un aereo Onu che trasportava aiuti umanitari e su cui viaggiavano anche tre reporter della Bbc non ha potuto raggiungere le aree controllate dai ribelli. L’episodio è stato denunciato dall’OCha(Ufficio delle Nazioni unite per il Coordinamento degli affari umanitari), i cui portavoce hanno messo in evidenza quanto sia difficile sensibilizzare la comunità mondiale – e quindi reperire fondi per aiutare la popolazione yemenita – in assenza di un’informazione diretta in merito alla crisi.

Scrive Afrah Nasser (scrittrice, giornalista e blogger yemenita, recentemente premiata per il suo impegno in difesa dei diritti umani dal Committee to protect journalists, Cpj) sul suo http://afrahnasser.blogspot.it/ in un dialogo-intervista con Afef Abroughi, reporter per Global voices: «Sauditi e leadership di Hadi sono ugualmente responsabili del blackout mediatico in atto sulla guerra in Yemen. Quando il conflitto è iniziato in Yemen all’inizio del 2015, WikiLeaks ha diffuso migliaia di dispacci diplomatici provenienti dal ministero degli Esteri saudita, inclusi documenti che dimostrano come l’Arabia saudita stia comprando il silenzio dei media, in particolare quelli arabi».
Di più, ci sono prove, prosegue la giornalista yemenita rifugiata in Svezia, di «come i Saud stiano ingaggiando agenzie di p.r. per “ripulire” la propria immagine, cancellando memoria delle proprie violazioni dei diritti umani».

Allo stesso tempo, il Governo di Hadi impedisce a numerosi giornalisti stranieri indipendenti di accedere al Paese, «siccome i loro racconti mettono in discussione la versione ufficiale dei fatti».
Ferma la denuncia nei confronti di tutte le parti coinvolte nella guerra: «C’è una violenza massiccia contro i giornalisti da parte di gruppi armati diversi: le forze Huthi, le forze di Saleh (ex presidente, “scalzato” dalla Primavera yemenita nel 2012, ndr); gruppi estremisti come al-Qaeda, Is e salafiti».

La diretta conseguenza di tale vuoto giornalistico è la seguente. Non esistono dati aggiornati sul numero delle vittime: il bilancio più recente è di 10mila morti, la maggior parte dei quali è rappresentata da civili. Tre milioni sono gli sfollati. Dei 20 milioni di yemeniti, circa l’80% necessita di aiuti umanitari (di questi, secondo l’Onu, la metà ne ha bisogno urgente, cioè vive con meno di due dollari al giorno).
Sono 14 i milioni di yemeniti che non hanno accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici.

Uno scenario da incubo destinato a peggiorare: la stagione delle piogge – di consueto da fine luglio, per una durata di circa due mesi e mezzo – è ormai alle porte, con tutto il suo carico di potenziale devastazione là dove mancano infrastrutture e misure di protezione civile basilari.

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