Siria, la Coalizione “trionfa” a Doha, mentre sale il numero delle vittime

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Le dimissioni di Ahmad Moaz al Khatib, la nomina di un premier come Ghassan Hitto, la notizia che la Lega Araba fornirà armi ai ribelli con il contemporaneo rifiuto da parte della Nato di fare lo stesso e gli ultimi dati del Syrian Observatory for Human Rights relativi a marzo, che è stato il mese più sanguinoso nei due anni di conflitto. Seimila in tutto le vittime fra cui spiccano, oltre ai duemila e quattrocento civili e ai 588 combattenti non identificati, 1486 morti tra le file dei ribelli e quasi altrettanti (1464) tra i lealisti, a conferma che le distanze sul terreno sono sempre meno nette.

Questi i nuovi tasselli del puzzle siriano, mentre, dopo l’attacco aereo nella valle della Bekaa e quello a un peschereccio libanese, il conflitto diventa uno spettro sempre più oscuro anche per il Paese dei Cedri in preda a nuova crisi politica interna, con la fine prematura del governo di Najib Mikati, e con non pochi problemi nei campi profughi (quelli palestinesi divisi tra filo Assad e filo ribelli e quelli siriani che esplodono per numero di occupanti). Il problema dei rifugiati resta, però, gravoso anche in Turchia. Proprio in queste ore centinaia di famiglie, soprattutto curde, sono fuggite da Aleppo, la città chiave del nord del Paese, dove sono in corso da giorni violenti combattimenti.

Della situazione nell’amata Siria ha parlato anche Papa Francesco durante la benedizione Urbi et Orbi chiedendo “quante sofferenze dovranno essere ancora inflitte prima che si riesca a trovare una soluzione politica alla crisi?”. La via della politica, però, pare proseguire su piani ancora controversi e su percorsi non univoci. Dopo aver ottenuto un ulteriore riconoscimento con l’apertura della prima ambasciata dell’opposizione a Doha, sempre in Qatar, la Coalizione Siriana ha ricevuto l’impegno della Lega Araba ad un’assistenza anche militare per sostenere “la fermezza del popolo e dell’Esercito Siriano Libero”. I ventidue Stati membri hanno assegnato a Moaz Al Khatib anche il posto vacante di Bashar al Assad e sostituito la bandiera baathista con il tricolore bianco-verde-nero con tre stelle rosse. Una procedura di “normalizzazione” a cui il Libano si era opposto e che a Damasco è stata definita un seggio “rubato” e consegnato ai “banditi della Coalizione”, ma che, tuttavia, non serve a eliminare i segnali di tensioni provenienti dalla stessa coalizione. A cominciare dalle dimissioni di Al Khatib, il volto dell’opposizione siriana negli ultimi mesi, colui che era volato a Bruxelles e che qui, a Roma, aveva incontrato John Kerry e l’allora ministro degli esteri italiano Giulio Terzi: una faccia da politico moderato che era riuscito a ritagliarsi uno spazio di rilievo nella platea internazionale.

L’annuncio è arrivato alcuni giorni dopo la nomina di Ghassan Hitto come guida del governo della Coalizione. Hitto, nato a Damasco, ma residente negli Stati Uniti dal 1980, è il nome che è uscito dopo un lungo e difficile dibattito interno (con un esiguo vantaggio sull’ex Ministro dell’agricoltura Assad Mustafa) dal vertice di Istanbul incaricato di avviare le pratiche per amministrare le aree liberate dal regime di Bashar al Assad, su cui si sono manifestate da subito le perplessità dell’ala militare dei ribelli che si è sentita tagliata fuori dalle consultazioni. Il Free Syrian Army ha detto chiaramente di non riconoscere Hitto come leader della Coalizione, anche se nella provincia di Aleppo, nella parte nord della Siria, il suo arrivo nei giorni scorsi è stato accolto con entusiasmo dai ribelli che controllano l’area. Il composito fronte dell’opposizione che già raggruppa varie anime e si trova a dover armonizzare spinte diverse, mostra così non solo una spaccatura nel campo strettamente politico, ma anche in quello militare che da quasi due anni si confronta con il regime sul terreno. I segnali all’esterno non sono rassicuranti e nelle crepe, si sa, è più facile far penetrare quegli estremismi che tanto spaventano l’Occidente e che hanno giustificato di fatto il “non interventismo”: un duplice omaggio a Bashar al Assad che fa leva sull’assioma ribelli=terroristi.

Il gesto di Khatib, che per il momento è rimasto al suo posto, è forse un’espressione di disagio per le critiche ricevute all’interno della coalizione dopo la proposta di dialogo con il governo in carica, ma è anche una manifestazione di dissenso nei confronti della comunità internazionale, Stati Uniti per primi, che hanno rigettato la principale richiesta del Vertice di Roma, cioè quella di armare i ribelli. Sulla sua pagina Facebook annunciando la sua scelta, l’ex imam della Moschea di Damasco aveva parlato infatti dell’incapacità della comunità internazionale di intervenire in modo risolutivo.

“Negli ultimi due anni – si legge – siamo stati massacrati da un regime malvagio che non ha precedenti, mentre il mondo è rimasto a guardare. La distruzione di tutte le infrastrutture siriane, la detenzione di decine di migliaia di persone, l’abbandono forzato di centinaia di migliaia di persone e altre forme di sofferenza non sono stati sufficienti per far prendere alla comunità internazionale la decisione di consentire al popolo di difendere se stesso”.

Non ultimo il rifiuto della Nato di fornire missili Patriot, interpretata da Kathib come un’autorizzazione per il regime: “Fai ciò che vuoi”. Anche se stando al New York Times la Cia starebbe svolgendo un ruolo chiave per favorire il flusso di armi provenienti dai Paesi arabi e dalla Turchia verso i ribelli dell’Esl. I dati sul traffico aereo e le testimonianze dei funzionari della Central Intelligence Agency dimostrerebbero un incremento del numero degli aerei cargo militari, con un picco dopo le elezioni negli Stati Uniti. Hugh Griffiths, dello Stockholm International Peace Research Institute, citato dal quotidiano newyorchese, ha parlato di circa 3500 tonnellate di “equipaggiamento militare” a dispetto dell’impegno preso da Kerry di fornire “aiuti non letali”.

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