Sandel sul populismo, ecco quello
che le elites liberali non capiscono

Giancarlo Bosetti intervista Michael Sandel

Per Michael Sandel l’idea che l’ascesa del populismo nel mondo sia essenzialmente una reazione razzista contro gli immigrati o una protesta contro la globalizzazione è sbagliata, di molto. «Chi pensa così non vede che si tratta prima di tutto di qualcosa che nasce da un malessere morale e culturale».

Questo filosofo americano della politica, 64 anni, professore di Harvard, allievo di Charles Taylor, è diventato famoso, come di solito accade solo ai cantanti pop, grazie alla sua incredibile chiarezza. Una sua lezione sulla giustizia totalizza sette milioni e mezzo di visualizzazioni. La qualità della sua esposizione e la interazione con gli ascoltatori è quella che tutti gli studenti del mondo sognano di trovare in un docente. Gli voglio chiedere anche come ci riesca, ma intanto va detto che Sandel ha un posto di rilievo nella storia delle idee non solo per il modo della esposizione ma anche per il contenuto del suo pensiero.

Protagonista della celebre sfida tra liberali alla John Rawls e i communitarians alla Alasdair Macintyre, con le sue critiche degli anni ottanta al primo ha contribuito a spingere l’autore di Una teoria della giustizia (1971) sulle posizioni, successive di Liberalismo politico (1993), e cioè più accoglienti per le radici culturali, le connessioni sociali e le tradizioni dei cittadini.

Per tutta la vita Sandel ha criticato il liberalismo, che lui definisce «vuoto», quello che si mantiene neutrale rispetto alla concezione del bene, che si astiene dal definire i contenuti di una vita buona nel nome del rispetto della libertà dei singoli di fare le loro scelte. Ora che siamo di fronte a una crisi delle élites liberali, ecco che lui presenta il conto dei loro vizi, di cui ha cominciato a tenere la lista molto tempo fa. Lo ha fatto anche al Forum di Davos, che di queste élites è quasi un simbolo, il bersaglio perfetto dei populisti. Per farsi capire là ha usato la metafora dello sky-box (il nome delle cabine di lusso negli stadi di baseball, ma ci sono anche nel calcio: si vede il match con ogni comfort e isolati). Un abisso separa chi sta in cima dalla gente comune: appunto la sky-boxification della società.

A Davos non c’erano studenti, ma lo sky-box della politica e dell’economia. Che gli ha detto?
Che non hanno capito qual è il senso della protesta populista. Il malessere non nasce solo da disoccupazione e paura dei migranti, ma dalla perdita di stima e dagli slittamenti progressivi dell’identità sociale e politica. La protesta ha aspetti orribili e pericolosi, ma è basata su legittime rimostranze da parte di chi si sente indebolito da tre decenni di globalizzazione neoliberale. La passione e il risentimento che animano il populismo riguardano la perdita di status, il disprezzo subìto dalla classe media, dai lavoratori, dalla gente.

Lo hanno raccolto?
Non mi faccio illusioni.

Le sue critiche ai limiti del liberalismo hanno una storia lunga, cominciano negli anni ottanta. Mi chiedo quanti tra quelli che la ascoltano conoscano il suo ruolo nella discussione filosofica tra communitarians e liberals. Ma di quale liberalismo parla?
Sì, negli anni ottanta scrivevo da critico del liberalismo, ma da critico, aggiungo, amichevole. La mia tesi principale era contro una versione del liberalismo: quella che insiste sul fatto che il discorso pubblico non deve impegnarsi su questioni sostantive circa che cosa sia una vita buona, che il governo e la legge devono rimanere neutrali rispetto a concezioni in competizione tra loro sul modo di intendere il bene. Questo era allora il dibattito filosofico ed io ero impegnato contro quello che chiamavo un “liberalismo procedurale”.

Quali erano le obiezioni principali?
Erano due: la prima che non è possibile decidere fondamentali questioni di giustizia senza affrontare concezioni diverse della vita buona, la seconda che tenere fuori dal discorso pubblico la discussione su che cosa sia bene crea un vuoto rispetto a quel che preme ai cittadini e che non li mette in grado di far sentire una loro voce nelle questioni più importanti che la società deve affrontare, sulla giustizia, sulla virtù, su quel che i cittadini si devono l’un l’altro. Per questo io contestavo l’idea che si possa definire che cosa sia una società giusta rimanendo neutrali rispetto a fondamentali questioni morali. Negli anni novanta con Democracy’s Discontent ho sostenuto che la vacuità di un discorso pubblico che tenti di evitare grandi problemi morali sarebbe impossibile da sostenere e provocherebbe alla fine un oscuro e sgradevole contraccolpo da parte di coloro che promettono di riempire questo vuoto con concezioni ristrette e intolleranti della vita.

Ed è quello che vediamo oggi?
Esattamente: una rivolta populista contro un discorso pubblico vuoto, di tipo puramente tecnocratico e manageriale. Il liberalismo procedurale si è identificato con una fede trionfalista nel mercato e al mercato ha consegnato in outsourcing il giudizio politico e morale. Questo processo è cominciato negli anni ottanta con Reagan e Thatcher, ma è continuato con i partiti di centrosinistra che li hanno sostituiti: Clinton, Blair, Schroeder, che hanno da una parte moderato la fede nel mercato, ma dall’altra anche consolidata. Non è stata mai sfidata la promessa che i meccanismi del mercato siano strumenti primari per realizzare il bene pubblico e proprio per questa mancata sfida nelle società democratiche non abbiamo avuto un dibattito sostanziale sul ruolo e i limiti dei mercati

Critica chiara ma incontra una obiezione: una certa neutralità nella concezione del bene è necessaria per garantire la libertà degli individui di perseguire il modello di vita che preferiscono, al riparo da paternalismi e autoritarismi.
È dagli anni ottanta che naturalmente devo affrontare questa obiezione e ho sempre risposto che se ho ragione nella mia tesi che un discorso pubblico neutrale non ci può fornire i principi per una società giusta, allora insistere su questa struttura moralmente vuota del discorso pubblico ha l’effetto di ignorare le convinzioni morali e spirituali di una grande quantità di cittadini, di ritenerle irrilevanti per la sfera pubblica: questa insistenza è percepita come una richiesta oppressiva e anche disonesta perché la gente comune sa che le decisioni che si prenderanno non accoglieranno la loro voce.

Questa protesta prende forme molto poco liberali.
L’effetto paradossale è che il liberalismo della neutralità che nasce soprattutto dalla intenzione di evitare il rischio dell’autoritarismo, crea di fatto la condizione per una politica autoritaria perché genera una reazione contro le élites liberali che ha preso due forme: il fondamentalismo religioso che riempie il vuoto con il suo moralismo intollerante e il nazionalismo populista di destra, che è un altro modo di vestire una sfera pubblica nuda. È vero esattamente l’opposto della critica che mi si rivolge: l’insistenza su una versione manageriale e moralmente neutrale della sfera pubblica crea un vuoto che viene riempito ora alla maniera di Trump e simili.

Nelle righe finali del suo Democracy’s Discontent ormai vent’anni fa lei diceva che la politica non riguarda solo la competizione tra programmi, ma quella «tra interpretazioni diverse del carattere della comunità, dei suoi scopi e fini» e ancora che siccome «gli esseri umani sono fatti per lo storytelling, siamo portati a ribellarci a questa tendenza liberale a cancellare le narrazioni». Ma non c’è garanzia che la ribellione prenda forme salutari. Come conciliare le narrazioni con la libertà di tutti?
Non è facile ma è la principale sfida del nostro tempo: il discorso pubblico ha bisogno di una narrazione sulla comunità e i suoi membri. Il tema centrale della politica è l’appartenenza alla comunità e il suo significato. Come cittadini democratici di società pluraliste noi abitiamo dentro una pluralità di comunità e le nostre identità sono definite in modi molteplici. Questo significa che dobbiamo deliberare insieme sui racconti, le storie e le tradizioni da cui possiamo trarre un significato, non solo nelle comunità nazionali, ma anche in quelle regionali, nelle associazioni locali, nei movimenti sociali, in tutte le fonti pubbliche di identità che danno un significato alle nostre vite. E questo richiede non annunci o dichiarazioni da parte dell’élite politica, ma un discorso pubblico aperto al confronto tra resoconti contrastanti di fronte ai cittadini.

Ma in una società tollerante come può questo confronto onorare il pluralismo?
Qui c’è da distinguere tra due diversi modi di affrontare il tema del rispetto reciproco. Uno è quello che io chiamo dell’«evitarsi» reciproco. Secondo questa concezione noi rispettiamo i nostri concittadini evitando il disaccordo ogni volta che sia possibile. Questa è semplicemente la filosofia del «vivi e lascia vivere», senza fare troppo caso alle diverse tradizioni e convinzioni morali della gente con cui siamo in disaccordo. Ma un rispetto di questo genere è troppo debole e sottile per tenere insieme una società autenticamente pluralista. Diversa è la seconda concezione del rispetto reciproco basata non sull’evitarsi, ma sull’impegno. Questa ci impegna a trovare modi di ragionare sulle differenze apertamente ed esplicitamente. Il pluralismo dell’impegno incoraggia tutti i cittadini non a lasciar fuori dalla sfera pubblica le convinzioni morali e spirituali, ma a entrarci come sono, pienamente «abbigliati», per così dire, in pieno possesso delle loro tradizioni, culture, convinzioni morali. Dal dissenso si può imparare e non sempre andando d’accordo: il pluralismo dell’impegno offre una prospettiva migliore del pluralismo dell’evitarsi per un cittadino democratico.

La rivolta populista colpisce di più i partiti progressisti. Come mai?
Lo abbiamo visto con i Democratici americani, con il Labour e con i socialisti francesi. Questo accade perché sono sentiti come più nettamente collegati alle élites professionali e tecnocratiche che alla gente comune, che tradizionalmente rappresentava la loro base. Questo dipende dal fatto che hanno abbracciato acriticamente la globalizzazione neoliberale senza affrontare il problema delle ineguaglianze, senza contrastare il deprezzamento del lavoro e la diminuzione del rispetto che esso merita. Per una risposta effettiva e per rivitalizzare il progetto socialdemocratico bisogna in primo luogo re-immaginare il significato, lo scopo e la dignità del lavoro. In secondo luogo bisogna valorizzare il significato della comunità nazionale, mentre finora i partiti di centrosinistra hanno consentito che il populismo, specie quello di destra, facesse suo questo tema e lo monopolizzasse.

In Europa il nazionalismo populista è un ostacolo all’integrazione dell’Unione Europea. La difesa della sovranità statale e dei suoi confini diventa una trincea antieuropea.
L’Unione Europea è un nobile progetto, cominciato come unione economica con una finalità politica: superare gli storici conflitti nazionali che hanno portato a due guerre mondiali. Quello che è accaduto al nobile progetto, di cui parlo come un osservatore esterno, ma amico e simpatetico, è che ha sviluppato una struttura economica e burocratica senza introdurvi un corrispondente senso della comunità e della partecipazione democratica. L’Unione ha quindi sofferto delle stesse tendenze generali di cui abbiamo parlato: buoni propositi, ma non sostenuti da un adeguato senso dell’identità e della comunità tra i cittadini; quello che è stato individuato già dagli anni novanta come un deficit democratico. Ogni allargamento della comunità deve implicare un nuovo e più ampio senso dell’identità e se è vero che l’UE ha un suo inno, non ha però adeguatamente ancora ispirato un senso di identità e lealtà e questo perché il processo decisionale è rimasto molto lontano dai cittadini. Questo deficit è stato trascurato così a lungo che ha innescato una reazione da parte di cittadini che si sono visti privare della loro sovranità, negare la loro voce e le loro tradizioni. La risposta deve essere un deciso riequilibrio tra identità nazionali e identità europee, e anche identità globali.

La sua chiarezza nella esposizione è ormai così famosa che quasi si perde il filo delle ragioni di quello che Sandel rappresenta nella filosofia politica. Come ha conquistato questa capacità?
Forse non sono la persona più adatta a spiegarlo. Quel che posso dire è che mi sono innamorato della filosofia piuttosto tardi, negli studi dopo la laurea; all’università mi occupavo con passione di politica, economia, storia, che vedevo come temi pratici. Poi l’incontro con la filosofia politica. E’ vero che molti filosofi si rivolgono essenzialmente ad altri filosofi e intellettuali; io invece ho sempre cercato di collegare la filosofia al mondo e usarla per cercare di dare senso alle vite sociali e politiche che viviamo. Ho sempre ammirato Socrate, che camminava per le strade di Atene impegnandosi in conversazioni con gente comune senza usare un gergo filosofico, ma cominciando con domande semplici intorno alle loro convinzioni sulle questioni della vita che vivevano. Partendo da lì sapeva condurli ad affrontare le questioni fondamentali sul significato della giustizia e di una vita buona. Io ammiro quel modello e cerco di imitarlo, a modo mio.

Una versione ridotta di questa intervista è comparsa su la Repubblica il 5 maggio 2017

L’8 giugno Michael Sandel alle 15.00 terrà una lezione magistrale su ‘Populism, Nationalism, and the Future of Liberalism’ durante i Reset DOC Seminars (Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia) 

  1. molto interessante: coniugare l’alta passione per le proprie idee. e il proprio “paese” rispettando contemporaneamente coloro che hanno storie e prospettive diverse, soluzioni diverse a problemi umani fondamentalmente simili. Un dialogo caldo di veramente pari dignità continuamente in cammino verso soluzioni che nascono cammin facendo … grazie

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