Siria: uscire dal baratro voluto da Assad, prima che sia tardi

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Un discorso che di fatto ribadisce lo status quo e sessantamila i morti che dal 15 marzo 2011 hanno insanguinato la Siria: sono Bashar al Assad e l’Organizzazione delle Nazioni Unite a segnare il punto dell’attuale situazione nel Paese. Il primo, parlando dalla Casa della Cultura di Damasco davanti ai suoi sostenitori, ha proposto un piano in tre fasi che elimina sostanzialmente le forze rivoluzionarie, definite “marionette dell’Occidente”; la seconda, negli ultimi giorni, ha pubblicato una serie di numeri inquietanti. Da luglio a oggi, in corrispondenza con il crescere dell’offensiva militare, i morti calcolati sono stati circa 5mila al mese, per la maggior parte civili (circa il 76 percento). Ma si tratta di dati solo parziali: sin dal titolo del rapporto si parla infatti di Preliminary Statistical Analysis of Documentation of Killings in Syria.“Una cifra ben più alta di quanto ci aspettassimo. Ed è veramente scioccante”, ha sottolineato l’Alto Commissario per i diritti umani Navi Pillay. Più alta anche delle 45mila vittime contate finora dai gruppi legati all’opposizione.

Torture, attacchi a siti protetti, uso di armi vietate e in generale le violazioni dei diritti umani stanno delineando – come si legge anche nell’ultima relazione del 2012 della Commissione d’inchiesta internazionale indipendente sulla Siria guidata da Paulo Sergio Pinheiro – un conflitto dal carattere sempre più settario che si è esteso ormai anche alle minoranze inizialmente “propense ad adottare un atteggiamento neutrale e non ostile” e in cui emerge la presenza di combattenti stranieri “con una propria agenda”. Un conflitto che ha portato “un’incommensurabile distruzione e sofferenza umana per la popolazione civile” e che non può prevedere “alcuna vittoria militare”.

“L’unico modo per realizzare una cessazione immediata delle violenze è una soluzione politica negoziata che risponda alle legittime aspirazioni del popolo siriano”. Si conclude così l’aggiornamento del quadro siriano relativo a settembre e dicembre 2012, semplificando probabilmente la complessità della situazione ormai sul campo.

Chi conosce bene il quadro siriano, nelle sue zone di luce e ombra, è certamente chi come padre Paolo Dall’Oglio nel Paese ha vissuto per oltre trent’anni. Fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa, nel deserto a nord di Damasco, padre Paolo è impegnato da sempre nel dialogo interreligioso con il mondo islamico e fino allo scorso giugno, prima di essere allontanato dal regime, ha raccontato in prima persona la tragedia cui assisteva quotidianamente.

È stato appena diffuso un nuovo rapporto dell’Onu che segnala 60mila morti dall’inizio del conflitto.

Non posso fare una valutazione sul numero dei morti sul piano tecnico perché non mi compete e noto che spesso i movimenti rivoluzionari tendono a far lievitare i numeri a fini propagandistici. Ma l’Onu, raggruppando diverse fonti ragionevolmente credibili, è giunta a un numero ancora maggiore (15mila in più rispetto ai 45mila già segnalati, ndr). Ciò non mi meraviglia, ma io temo che a bocce ferme, quando si potrà fare un conteggio più preciso, i numeri saranno ancora più alti. Non si possono perpetrare mesi e mesi di bombardamenti aerei sulla popolazione civile immaginando di arrivare a bilanci delle vittime da operazioni chirurgiche, anch’esse più che discutibili sul piano morale. In Siria non si agisce per colpire i capi della resistenza ma per ammazzare i siriani, in massa. Il codice morale del regime di Assad è o con Assad o la distruzione del Paese.

Come spiega la sostanziale assenza e il ritardo della comunità internazionale sulla Siria?

Una volta definito dal regime, e dai suoi amici, il “pericolo islamista” in Siria, la comunità internazionale si è autolegittimata a mantenere una posizione attendista: la democrazia non ci sarà in Siria, quindi non c’è motivo di attivarsi per la democrazia dei siriani. Siamo di fronte a un paradosso; questa posizione attendista ha creato le condizioni per l’espansione dell’islamismo radicale.

La rivoluzione, nel suo complesso, ha condannato le prime azioni di questi gruppi come azioni complottiste condotte dallo Stato siriano. Io non ho mai ceduto a questa tentazione, ma la manipolazione teleguidata non è una novità all’interno del panorama siriano; ci sono state manipolazioni di regime di cellule estremiste. Senza semplificare dico che l’attività dell’estremismo islamico faceva parte sin dall’inizio del postulato di Stato secondo cui la rivoluzione era terrorismo pagato dagli stranieri; quando poi quest’area ramificata, complessa ed efficace, è stata in grado di prendere l’iniziativa e la testa della rivoluzione sul piano militare, questi gruppi hanno provocato nella comunità internazionale una autogiustificazione a non agire. È stato fatto un incredibile errore di calcolo e questi stessi gruppi sono esplosi in mano al regime.

Nella relazione della Commissione d’inchiesta della Nazioni Unite sulla Siria, si dice che, data la situazione sul terreno, una soluzione militare al conflitto sia ormai impossibile, e che sia invece auspicabile l’inizio di negoziati. Ma in questo momento una soluzione negoziale sembra impraticabile.

Il regime vuole i negoziati nella misura in cui ha bisogno di altro tempo per continuare la distruzione sistematica della Siria e entrare così nella fase tre e tentare di riprendersi in mano il Paese. Io mi aspettavo che il regime di Damasco avrebbe operato per dividere il Paese sulla linea dell’Oronte, una volta riconosciuto il fatto di non poter tenere il controllo su tutto. Di fronte a una rivoluzione generale l’unica cosa possibile sarebbe stato un Kosovo siriano, puntando alla solidarietà alauita e delle altre minoranze presenti in quella zona, come appunto i cristiani; una soluzione accettata dall’Iran (sciita, ndr) come male minore. Questo non è avvenuto finora e negli ambienti rivoluzionari si dice che non possa più avvenire perché i ribelli sono talmente penetrati anche in quell’area che per il regime non sarebbe più possibile una simile divisione.

Perché non si è scelta la via secessionista finché è stato possibile?

Io do due motivazioni. Una è psicologica. Bashar al Assad ha sempre detto io sono un uomo di Damasco e non della montagna alauita. Il suo spazio culturale e mentale è tutta la Siria. In questo senso, paradossalmente, Assad sarebbe un “non settario”. Lui usa la sua setta per il suo potere, ma un potere che se non è su tutta la Siria non lo interessa. Assistiamo così a uno scollamento fra la propria idea di sé e la realtà.

L’altra ipotesi parte dall’idea che il regime sia un fatto complesso, diviso fra ideologia ba’ath, che ovviamente non è per la secessione, e logiche di famiglia alauita. Queste due anime si vanno separando da tempo ma non abbastanza da approdare alla dislocazione geografica del paese.

Lei aveva parlato della necessità di iniziare ad amministrare almeno le zone liberate.

Ho scritto in arabo proprio due giorni fa, su Facebook, chiedendo al capo della coalizione di istituire immediatamente nei territori liberati il governo unico di transizione. È un’operazione che andrebbe fatta subito perché eliminerebbe l’impressione che la rivoluzione siriana sia ormai tutta nelle mani dell’estremismo musulmano eversivo e clandestino e per cominciare a restituire lo Stato ai siriani. Sul terreno ci sono problemi pratici come la mancanza di acqua, elettricità, lavoro, stipendi.

Ritiene sia ancora presto per parlare del futuro delle minoranze?

Non è presto, anzi bisogna parlarne ora, ma è molto difficile vedere il futuro proprio per l’omissione di soccorso internazionale. C’è la speranza che la rivoluzione nel suo complesso possa avere una capacità di autodisciplina che consenta di realizzare quell’unità del Paese nella riconciliazione auspicata da tutta la rivoluzione democratica siriana. Solo alcuni gruppi estremisti militari sembrano minacciare il destino delle minoranze, anche se non hanno mai attaccato i cristiani in quanto tali.

Nei giorni scorsi, però, c’è stata una denuncia da parte di suor Agnes Mariam (carmelitana e superiora del monastero Deir Mar Yocoub di Qara, conosciuta per essere molto critica nei confronti dei ribelli, ndr) in questo senso.

Suor Agnes sa bene come dosare le parole ed è solo, ripeto e sottolineo, l’espressione clericale (abile) dell’azione di manipolazione menzognera del regime siriano. Suor Agnes si autoproclama capo di un movimento che non esiste sul terreno, Musalaha (Riconciliazione, ndr), ed è un vero problema perché per lei l’interpretazione dei fatti è sempre selettiva e a senso unico: la rivoluzione è terrorismo!

Come vede la Siria in un possibile dopo Assad e dopo quasi due anni di guerra?

Ritengo che la natura profonda della Siria democratica costituirà un laboratorio di evoluzione civile e di elaborazione politica dell’area islamista araba di grande interesse. La Siria ha una dignità culturale diversa da quella dell’islamismo del Golfo.

Questo è il mio voto, la mia speranza e anche lo spazio del mio impegno. Alla fine di gennaio parteciperò a quelle commissioni della rivoluzione siriana che si occupano di evitare i massacri nel momento della vittoria e spero, in febbraio, di poter rientrare nel Paese. La Siria non può vincere la rivoluzione lasciando sul campo centomila morti alauiti. Bisognerà trovare il modo, anche ideologico e teologico, per dire che non ci sarà vendetta nei confronti degli alauiti e che tutti i criminali saranno giudicati con equità.

Vai a www.resetdoc.org

Nella foto: Padre Paolo Dall’Oglio

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