Issawiya, Gerusalemme Est. La Città Santa sul filo del rasoio

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Gerusalemme – Il sole sta calando sul quartiere di Issawiya, ma la giornata è ancora lunga: sono circa 200 i residenti palestinesi accalcati lungo le transenne poste dalla polizia israeliana. Sono qui per protestare contro la chiusura della strada di accesso al villaggio: sono ormai due settimane che la principale via di ingresso a Issawiya è sbarrata; a presidiarla i poliziotti a cavallo.

È una delle tante forme di punizione collettiva imposte alla comunità palestinese di Gerusalemme in queste settimane di alta tensione. Dalla fine di ottobre i riflettori si sono di nuovo accesi sulla Città Santa, teatro di duri scontri, attacchi, vendette, raid. Una situazione esplosiva e difficilmente gestibile: la rabbia della popolazione araba, da anni ai margini, è esplosa.

“Le autorità israeliane hanno chiuso due strade di accesso a Issawiya, ne resta aperta solo una, una strada sterrata, ma anche quella è presidiata dalla polizia”, ci spiega Ziad Abu Namir, residente di Issawiya, mentre i responsabili del comitato del villaggio tengono una sorta di comizio, vicino alle transenne. “I poliziotti entrano due o tre volte al giorno nel quartiere, compiono raid, arrestano attivisti, lanciano gas lacrimogeni e sparano acqua chimica contro le case. Mandare via l’odore è difficilissimo. Pochi giorni fa un neonato di tre mesi è stato ricoverato in ospedale per l’inalazione di gas”.

“I nostri figli hanno paura ad uscire dal quartiere, perché vengono spesso aggrediti. Alcuni non frequentano la scuola da giorni, per timore di uscire. Ci sono gruppi di coloni che li aspettano fuori per picchiarli: ieri è toccato ad una ragazza di 14 anni. Non prendiamo più nemmeno l’auto, andiamo a piedi: la polizia ci aspetta all’uscita e ci multa con ogni scusa possibile, oppure ci distrugge i vetri con i calci dei fucili”. “Dire che si tratta di una situazione dura è un eufemismo – conclude Abu Namir – Non è possibile vivere in questo modo”.

Issawiya, come gli altri quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, è da tempo target delle politiche di repressione e occupazione del governo israeliano. Circondata dal muro e da tre colonie (French Hill, l’ospedale Hadassah e la Hebrew University, tutte costruite su terre confiscate al quartiere), tenta di sopravvivere alla mancanza di servizi e di spazio che risponda alla naturale crescita della popolazione. Ad oggi sono 17mila i residenti su 600 dunam di terre (un dunam è pari a mille metri quadrati): prima del 1967 Issawiya ne possedeva 12.400.
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Le condizioni di vita sono le stesse del resto della Gerusalemme palestinese: impossibilità di ottenere permessi di costruzione di nuove strutture, demolizioni delle case, arresti, assenza di servizi di pulizia delle strade, mancanza di reti fognarie, sovraffollamento di studenti nelle poche scuole presenti, assenza di investimenti economici e sociali.

Queste le ragioni dietro la rabbia che, dopo decenni di marginalizzazione, sta esplodendo nella città, inasprita dai recenti raid all’interno della Moschea di Al-Aqsa, terzo luogo sacro dell’Islam: da mesi la polizia accompagna coloni estremisti all’interno della Spianata, impedendo l’ingresso ai fedeli musulmani. La rabbia ha trovato la sua espressione in attacchi individuali, come quelli dell’ultimo mese. Palestinesi hanno ucciso con la propria auto pedoni alla fermata dell’autobus, mentre due uomini armati il 18 novembre sono entrati all’alba in una sinagoga di Gerusalemme e hanno assassinato quattro rabbini, per essere a loro volta uccisi dalla polizia. A tali atti è seguita la risposta sia dei coloni israeliani che delle istituzioni: si stanno susseguendo i casi di aggressioni da parte di estremisti israeliani contro residenti palestinesi, pestaggi, accoltellamenti e un omicidio: a perdere la vita è stato un autista di autobus, prima picchiato e poi impiccato dentro il suo pullman.

Da parte del governo la risposta è ancora più dura. A partire dalle demolizioni: come nella Seconda Intifada, Tel Aviv ha ritirato fuori dal cilindro la politica della demolizione delle case dei responsabili degli attacchi, una pratica condannata la scorsa settimana dagli ambasciatori di Italia, Spagna, Francia, Gran Bretagna e Germania e da Amnesty International. Si opera al di fuori della legge: la polizia uccide i responsabili o i sospetti, privandoli di un processo equo, e distrugge la casa di famiglia.

Il resto della comunità viene punito con raid e arresti: sono 1.300 i palestinesi di Gerusalemme arrestati dalla polizia dallo scorso giugno, 600 dei quali bambini accusati di lancio di pietre. Un atto considerato criminale da Tel Aviv e che, secondo la nuova legislazione israeliana, potrebbe essere punito con 20 anni di carcere. Lo stesso pugno di ferro non viene applicato agli israeliani che compiono gli stessi atti: i coloni che hanno ucciso o ferito in Cisgiordania pedoni con la loro auto o hanno accoltellato palestinesi a Gerusalemme sono tutti liberi. La loro casa è ancora in piedi.

“La società israeliana ha una precisa visione dello status di Gerusalemme volta all’annessione definitiva della città – ci spiega Rasim Obaydat, giornalista palestinese – L’attuale governo israeliano è un esecutivo formato da fazioni ultranazionaliste, da Casa Ebraica al Likud-Beitenu, e punta alla conquista territoriale dell’intera Palestina storica. Per questo ha lanciato una vera e propria guerra contro la popolazione di Gerusalemme Est, mettendo insieme la giustificazione della sicurezza con l’obiettivo della colonizzazione”.

“Nonostante l’Onu riconosca Gerusalemme città internazionale e non la capitale di uno Stato, l’obiettivo israeliano è la conquista finale della città, intesa come capitale indivisibile e unica dello Stato di Israele. Un obiettivo che viene perseguito attraverso una serie di politiche: Israele ha circondato Gerusalemme, chiudendola e dividendola dalla Cisgiordania con il muro e le colonie, ha creato un anello intorno alla città che punta all’annullamento dei legami con il resto dei Territori Occupati e all’impossibilità futura di applicare le risoluzioni Onu”.
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“A ciò si aggiunge il trasferimento forzato della popolazione palestinese, attraverso la selvaggia colonizzazione dei quartieri di Gerusalemme Est, da Silwan a Issawiya fino a Sheikh Jarrah – continua Obaydat – Attraverso demolizioni [28mila case palestinesi demolite dal 1967, ndr], rifiuto a rilasciare permessi di costruzione, ritiro del diritto di residenza [14mila gerusalemiti hanno perso il diritto di vivere nella loro città, ndr], si punta al cambiamento dell’equilibro demografico della città”.

Le attuali tensioni sono esplose con l’uccisione di Mohammed Abu Khdeir, il primo luglio 2014. La rabbia si è ulteriormente accesa perché i responsabili non sono mai finiti in prigione o perché minorenni o perché considerati mentalmente disturbati. Da allora Israele ha ucciso otto palestinesi a sangue freddo, perché accusati di aver messo in pericolo la vita di israeliani o di rappresentare una minaccia per lo Stato.

“La popolazione palestinese è quotidianamente umiliata – conclude Obaydat – La vita sociale, economica e religiosa è distrutta, oggetto di aggressioni e attacchi, la struttura politica è soffocata, la dignità delle singole persone non è in alcun modo rispettata. Ogni aspetto della vita è sotto attacco e per questo le forme di resistenza – dal lancio di molotov e pietre alla disobbedienza civile fino alle marce e alla chiusura delle strade – non si sono mai fermate, ma sono quotidiane nei quartieri di Gerusalemme Est. Lo Stato di Israele la sente, questa resistenza, sa che è difficile da spezzare. Per questo le politiche di repressione sono sempre più dure”.

Nelle immagini: manifestazioni a Issawiya, foto di Chiara Cruciati

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