Israele al voto tra disaffezione e successo annunciato dei conservatori

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Oggi più di cinque milioni e mezzo di cittadini israeliani sono chiamati a rinnovare la Knesset, per la diciannovesima volta dal 1948. Per la precisione saranno 5.656 705, stando ai dati diffusi dal Comitato Centrale per le Elezioni, di cui 560mila residenti all’estero. Centoventi i seggi in palio, assegnati con il sistema proporzionale, con uno sbarramento al 2%, e trentaquattro i partiti in lizza.

Bibi verso la riconferma

Si tratta di una tornata elettorale con un vincitore già annunciato, dato non solo dai sondaggi, ma anche da osservatori e analisti, e dal sostanziale indebolimento in questi ultimi anni del fronte dell’opposizione. Benjamin Netanyahu e il suo Likud sono i favoriti grazie all’alleanza con il leader di Yisrael Beytenu, l’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman; un’unione sancita lo scorso 25 ottobre dopo che il premier aveva sciolto anticipatamente il governo e chiamato le nuove consultazioni.

L’asse ultraconservatrice Likud-Beytenu, che si lascia alle spalle 42 seggi (25+12), è data come vincitrice con 32-37 seggi, una maggioranza che lascia prevedere la necessità di alleanze con gli altri partiti religiosi e di destra e che profila, dunque, uno slittamento ancora più a destra del prossimo fronte governativo.

Likud-Beytenu non fa mistero delle sue politiche liberiste dal punto di vista economico e intransigenti sul piano delle relazioni estere, tanto da non escludere la possibilità di una guerra contro la Repubblica Islamica dell’Iran e da escludere, invece, di fatto, la nascita di uno Stato palestinese, con la conferma della politica delle colonie. Che la costituzione dello Stato Palestinese non faccia parte dell’agenda della coalizione è stato chiarito a due giorni dal voto: “Costruire a Gerusalemme non è un problema del mondo, mentre il nucleare iraniano lo è”. Parola del Primo ministro uscente che precedentemente, in un’intervista al quotidiano Maariv, aveva dichiarato: “i giorni in cui i bulldozer hanno sradicato gli ebrei sono alle nostre spalle, non dinnanzi a noi”.

La questione degli insediamenti illegali resta un nodo da sciogliere per il prossimo esecutivo perché anche su di essa si reggono il futuro di possibili negoziati e le relazioni con Barack Obama che ha già fatto pressioni a Bibi sul tema. Sul lato interno, ci sono però i rapporti con i coloni, 500mila che abitano in più di 100 insediamenti costruiti tra Cisgiordania e Gerusalemme est, spezzettando ulteriormente i Territori Occupati.

Le alleanze a destra

I settler trovano già rappresentanza nel gruppo capeggiato da Moshe Feiglin colui che, un paio di settimane fa, ha proposto l’annessione di parte della Cisgiordania a Israele.

Feiglin, già noto negli anni ’90 per la sua opposizione al premier laburista Yitzhakh Rabin, è stato più volte arrestato per aver provato a pregare sulla Spianate delle Moschee. Con lui, altri coloni hanno guadagnato un posto nelle liste del Likud, togliendone a candidati più moderati. Se a ciò si aggiunge la presenza in queste consultazioni di Focolare ebraico, l’ex partito Nazional-Religioso guidato da Naftali Bennett, colono e giovane imprenditore nel campo informatico che parla il linguaggio accattivante delle nuove tecnologie e che è accreditato sui 12-14 seggi, sono già chiare le tendenze del prossimo parlamento.
Ci sono poi gli ultraortodossi di Shas che mal si legano con i laici sionisti di Yisrael Beytenu, ma che tradizionalmente sono alleati del Likud, a cui vengono attribuiti dai 10 ai 12 seggi. E, restando sul fronte degli haredim, incontriamo il gruppo Giudaismo unito nella Torah a cui potrebbero andare 5-6 seggi.

Un centro frastagliato

Spostando lo sguardo più al centro, il panorama resta abbastanza frastagliato e conferma la tendenza degli esecutivi israeliani a coalizioni piuttosto ampie.

Il partito Laburista vede una leader, l’ex giornalista Shelly Yachimovich, che dovrà affrontare una strada tutta in salita dopo l’erosione progressiva di consensi e l’abbandono del suo capo storico Ehud Barak (che è uscito due anni fa per fondare Azmaut e che ora pare essersi ritirato dalla vita politica). I sondaggi lo danno a 16-17 seggi, a lunga distanza da Kadima guidato dall’ex ministro della Difesa Shaul Mofaz, accreditato per due seggi. Un risultato che rifletterebbe la profonda crisi del gruppo, vincitore nel 2009 e ora privo di quasi tutti i suoi deputati, candidati con liste concorrenti. La più grande transfuga è certamente il ministro degli Esteri dell’esecutivo Olmert, Tzipi Livni, che ha fondato un’altra coalizione di centro, Hatnouah, a cui hanno aderito sette deputati del suo ex partito e due ex dirigenti laburisti. Attualmente Hatnouah è dato a 7-8 seggi. Punto in comune, in tutti e tre i casi è la volontà dichiarata di una ripresa dei negoziati con i palestinesi, ma anche la l’estensione dell’obbligo della leva a tutti (attualmente esistono delle deroghe per motivi religiosi e per i pacifisti dichiarati; discorso diverso per i refusnik). Favorevole alla ripresa del dialogo anche Yesh Atid, un nuovo raggruppamento centrista laico guidato da Yair Lapid, giornalista televisivo, che nei sondaggi pare essersi guadagnato numerosi consensi al punto di essergli stati attribuiti 11-13 seggi.

Poco spazio, invece, per la sinistra pacifista di Meretz che promuove il ritiro dalla Cisgiordania e la creazione di uno Stato palestinese. Restano minoritari anche i tre partiti arabo-israeliani che potrebbero ottenere 10-11 deputati in tutto e che riflettono lo sconforto dei palestinesi con cittadinanza israeliana, incerti tra astensionismo e partecipazione. La Lega Araba ha lanciato un appello affinché si partecipi in massa al voto, proprio per opporsi all’ascesa annunciata della destra più intransigente.

Il peso dell’economia e gli incerti

Ma non sarà la questione palestinese, né il nucleare iraniano o i problemi con i vicini di casa in Libano o in Siria, a guidare le scelte degli elettori. Anche in Israele sono le questioni economiche a preoccupare di più, tanto che il governo si è sciolto proprio sull’impossibilità di votare il bilancio nazionale. Dopo aver visto gli indignati per le strade di Tel Aviv, lo Stato Ebraico ha dovuto prendere atto di una flessione della crescita dell’1,3 % rispetto al 2011 e dell’1,7 % rispetto al 2010. Siamo sempre al + 3,3% ma le inquietudini rimangono e si manifesta anche una certa insofferenza per gli Haredim che non lavorano, ma studiano la Torah e quindi non solo non producono reddito e non pagano le tasse, ma ricevono un sussidio statale per proseguire la loro attività. Crescono anche il costo della vita e le disparità sociali; e da questo punto di vista le dinamiche politico-elettorali dello Stato ebraico non si allontanano troppo da quelle di casa nostra.

Proseguendo il parallelismo, altro aspetto evidente in questa tornata elettorale è l’incertezza e la disaffezione degli aventi diritto, tanto che alcuni giornali hanno parlato di “elezioni noiose”.

Solo pochi giorni fa, il quotidiano Haaretz titolava sull’online, “Only mules won’t vote in Israel’s election”. Solo i muli non voteranno: questo il monito della testata progressista che cerca di scongiurare quell’astensione che aiuterebbe la vittoria della destra ultra-nazionalista.

Stando ai sondaggi, circa il 20% dei votanti, molti dei quali giovani, si dice indeciso e per ovviare al problema è stato creato anche un sito internet che attraverso un percorso guidato, composto da ventuno quesiti, suddivisi in tre categorie (sicurezza nazionale, economia, politica), fornisce il nome del candidato ideale sulla base delle proprie esigenze. Paradossi in quella che viene definita l’unica democrazia del Medio Oriente.

Vai a www.resetdoc.org

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