Il cinema tunisino racconta l’immigrazione: tra surrealismo e sopravvivenza

Da Reset Dialogues on Civilizations

Il tema della migrazione e dei viaggi disperati tra deserto e Mediterraneo approda alla 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia grazie a un film tunisino indipendente che porta sul grande schermo la solitudine del migrante protagonista di un thriller di sopravvivenza, senza dialoghi, e con un esplicito richiamo al necessario passaggio attraverso la natura selvaggia per conquistare una nuova vita. S’intitola “The Last Of Us” e ha vinto il “Leone del futuro” per la migliore opera prima e il “Premio Mario Serandrei” per il miglior contributo tecnico. 

Racconta la storia di un giovane sub-sahariano (Jawher Soudani, in arte Vajo) che attraversa il deserto verso il Nord Africa, dove ruba una barca per affrontare il mare. Quando questa si rompe, inizia per lui un’odissea surreale e immaginaria durante la quale incontra un altro uomo più anziano (Fathi Akkari), una sorta di versione alterata di se stesso, e, in un paesaggio selvaggio, riscopre il suo rapporto con la natura primaria.

Una delle particolarità di questo film capace di raccontare con tocco quasi poetico un’esperienza umana atroce, risiede nello sguardo artistico del regista Ala Eddine Slim, già autore di documentari, cortometraggi, video arte e di uno degli episodi di “Babilonia”, film vincitore del Gran Premio al festival FID 2012 di Marsiglia (in cui mostra il campo profughi tunisino di Choucha). Sembra che Ala Eddine Slim cerchi di sfidare l’indifferenza del mondo verso la migrazione forzata portando lo spettatore in una dimensione inconscia comune a tutti, in una “terra promessa interiore”, un luogo immaginario dove ci si gioca la vita, creando una sorta di “favola filosofica sul perdersi”, come l’ha definita Giona Nazzaro, delegato generale della Settimana della Critica.

Il film è stato prodotto senza finanziamenti pubblici in Tunisia da quattro società, Exit Productions, Inside Productions, MadboxStudios and SVP, e ha ricevuto il sostegno finanziario per la post-produzione del Fondo Hubert Bals, Doha Film Institute, il Fondo Arabo per le Arti e la Cultura (AFAC) e Film Fund Abu Dhabi SANAD.

Ala Eddine, come nasce “The Last of Us”?
Il problema dei territori, dei confini e dei viaggi mi ha sempre interessato, dal mio primo cortometraggio “La caduta”, in cui ho seguito un gruppo di giovani tunisini nel tentativo di attraversare il mare. Il film si chiudeva in mare aperto, e “The last of Us” è una sorta di continuazione di quel film. L’immigrazione clandestina – aggettivo che trovo molto offensivo – è largamente diffusa in Tunisia. In queste traversate, si verificano diverse cose: ci sono quelli che riescono a raggiungere l’altro lato, quelli che muoiono, quelli fermati dalla guardia costiera e quelli i cui corpi non vengono ritrovati. L’idea principale del mio film gira intorno all’ultimo caso, il viaggio di un “corpo mancante”. La scelta del personaggio principale è caduta su un giovane uomo sub-sahariano, anche se nel film non sappiamo la sua esperienza passata e da dove provenga. Ho voluto portare il mio personaggio sui sentieri battuti dell’Africa verso la terra promessa, l’Europa, anche se che questa promessa è una terra del passato, quando l’Europa era una terra da raggiungere. Oggi, l’Europa è un’altra cosa, ma il mio film non la mostra. Quello che mi interessava era una nuova terra; quella dell’immaginario e dell’ignoto, quella delle opportunità.

Perché ha scelto la chiave surrealista per raccontare il dramma della migrazione? Pensa sia più efficace?
Il film non è surreale, piuttosto è inondato di realismo magico. Anche in “Babilonia”, l’approccio a tre (mio, di Youssef Chebbi e di Ismaele) era tutt’altro che realistico. Mi avvicino al cinema come una scoperta e un’assunzione di rischi e non mi interessa riportare schemi già assicurati. Mi piace sperimentare, provare, indagare nuove strade, etc. Non ho mai controllato i miei film al 100%, non mi piace questo metodo di produzione. Voglio essere sorpreso ad ogni momento della lavorazione e generalmente gli incidenti apportano proposte interessanti. In “The Last of Us”, l’idea principale è quella di seguire un corpo scomparso in preda al cambiamento continuo. Tutti i luoghi sono stati filmati come se li avessi sentiti o visti per la prima volta. Il punto del film che sembra essere surrealista, è invece il punto in cui regna la finzione. È un territorio immaginario.

Quanto durerà ancora il dramma della migrazione nel Mediterraneo?
Non so, probabilmente fino a quando i governi (del sud e del nord) pianificheranno strategie che escludono i cittadini del mondo. Le frontiere sono il risultato di un braccio di ferro tra più forti e meno forti. Questa è la peggiore idea che ha creato l’uomo.

Il film è nato grazie a un grande lavoro di gruppo e tanta determinazione. Ci racconta come avete organizzato il lavoro?
Tutti i collaboratori sono vecchie conoscenze, colleghi di lavoro o amici. Molti di noi avevano già lavorato insieme, cosa che spiega il motivo per cui la produzione del film è venuta in maniera naturale. Un secondo punto è che il film è stato realizzato in modo completamente indipendente, con la creazione di uno specifico piano di produzione; lungaggini e decisioni stagnanti dell’amministrazione del Dipartimento di Cinema del Ministero della cultura tunisina, che è quasi l’unico fornitore di fondo locale, non si adattavano a noi, che avevamo desiderio e urgenza di fare il film in breve tempo e con una troupe ridotta.

Dove avete girato il film?
Il film è stato girato in 28 giorni, percorrendo quasi tutto il territorio tunisino. La prima parte del film si svolge al sud, tra Zarzis e Mareth. La seconda a Tunisi, nei quartieri di Rades e Raoued. La terza ad Ain Drahem, a nord. Girare la sparatoria è stato faticoso, ma lo sforzo di ciascun membro della squadra ha aiutato a superare ogni ostacolo.

Sono prevalentemente due le parti della storia
L’attraversamento dal mare rappresenta il buco nero del film. La prima parte del film è più realistica, ma è ben lungi dall’essere realtà, molti segni di alterazione del reale sono già presenti (come il sole che diventa un’aureola). Entrambe le parti funzionano a specchio e come ho detto prima, la seconda parte è la finzione che regna in un nuovo territorio; quello della fantasia.

Qual è lo stato di salute del cinema tunisino in questa delicata fase sociale ed economica?
Il cinema tunisino è molto vivace negli ultimi anni. Anche prima del 14 gennaio 2011, direi dal 2006, era presente un movimento nel mondo del cortometraggio, agevolato dalla proliferazione di scuole di cinema e in particolare dalla divulgazione di strumenti digitali. Dopo il 14 gennaio diversi registi hanno realizzato documentari e abbiamo visto un’esplosione di questo genere, nel bene e nel male. Ogni regista ha avuto la possibilità di girare e far circolare il proprio film. Ma, come al solito, lo Stato è abbastanza cieco da non vedere in questa corrente una nuova era, bensì una minaccia. Da qui il ritorno delle leggi repressive contro i cineasti, la chiusura delle porte a qualsiasi iniziativa personale a nome di una regolamentazione della professione. Credo fermamente che siano i film a cambiare i giochi, mai gli uomini d’ufficio. Sono fiducioso per il futuro di alcuni registi che hanno a lungo lottato per realizzare i propri film.

In cosa risiede il “lato oscuro” della Tunisia post-rivoluzionaria?
La cacciata di Ben Ali è stata una grande porta, ma chiusa molto rapidamente, immergendo di nuovo i tunisini nell’oscurità, come già noto. C’è resistenza, non politica, ma di cittadini. Dopo di che, la Tunisia è collegata al resto dei paesi della regione e quanto accaduto nel 2011 non può accadere di nuovo, certamente non nello stesso modo, magari in un modo diverso.

Quali sono le più grandi difficoltà che incontra oggi l’artista tunisino per lavorare?
È isolato dal suo ambiente. Non sto dicendo che bisogna fare film realistici o film in questo genere, ma che è importante partire dall’esperienza, alterarla, mescolarla e andare oltre i luoghi comuni del cinema del sud. Quello che i precedenti governi hanno fatto alla cultura è inimmaginabile. L’hanno schiacciata a favore di un populismo avaro. Dovrebbero mettere da parte gli intermediari dell’amministrazione pubblica e andare direttamente verso la gente.

Cosa rappresenta per voi essere stati selezionati alla Mostra di Venezia?
Già che il film sia stato selezionato è una cosa sacra per noi. Essere a Venezia è sempre un ottimo trampolino per un primo film e forse incontrerò un regista che amo per caso.

Avete già trovato una distribuzione internazionale?
Sì. È StillMoving con a capo Pierre Menahem, che ha già lavorato in grandi strutture internazionali (Celluloid Dreams). C’è stato un buon dialogo tra di noi. È molto importante per me che il venditore sia coinvolto nella distribuzione del film ed è in qualche modo “avventuriero” a fronte di un mercato sempre più incorniciato.

Prima di salutarci, ci parli del festival che organizza a sud-ovest della Tunisia, a Redeyef, al confine con l’Algeria.
Gli incontri del Film documentario di Redeyef (RFDR) sono un evento dedicato al cinema documentario in tutta la sua varietà. Si sono appena conclusi (28 agosto-31 agosto). Abbiamo proiettato 12 film e offerto due seminari di formazione per i giovani (documentario e fotografia), un Cineconcert, Cartes Blanches, omaggi, ecc. È molto importante cercare di cambiare la situazione in zone remote come Redeyef. Siamo alla terza edizione. La gente Redeyef inizia ad abituarsi alla manifestazione, nonostante la tensione sociale che prevale in città.

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