Un premio a chi racconta il Mediterraneo,
i suoi conflitti, le sue trasformazioni

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Cinque giorni per parlare di immigrazione, accoglienza, sicurezza, traffico di esseri umani, geopolitica e giornalismo. Il 7° concorso internazionale Giornalisti del Mediterraneo, quest’anno vinto da Amedeo Ricucci, inviato Rai con vent’anni di esperienza in aree di crisi, e Medio Oriente in particolare, ha riconfermato Otranto quale protagonista di un dibattito sempre più attuale, su temi che in Italia spesso restano ai margini dell’informazione mainstream.

Un’occasione di confronto, oltre che di premi, assegnati fra gli altri anche a Gian Micalessin de Il Giornale, Giovanna Pancheri di Sky Tg24, Antonella Palmieri collaboratrice free lance della Radio Televisione Svizzera, Simone Di Meo del Tempo, Lucia Goracci di Rai per Speciale Tv7, Giuseppe Ciulla de La7, Viviana Mazza del Corriere della Sera.

Il Mediterraneo è stato il filo conduttore dei convegni che hanno visto la partecipazione dei premiati e di altri colleghi, che hanno potuto raccontare esperienze dirette, punti di vista, lavori realizzati in questi anni. Sui conflitti, i traffici, le cause delle migrazioni, il ruolo dell’Europa, i cambiamenti in atto nella società contemporanea.

Si è a lungo discusso di Libia, un paese che ha avuto e continua ad avere un ruolo fondamentale lungo le rotte di persone dall’Africa, ultima porta da aprire prima di prendere il mare. Un paese che oggi non ha più uno stato, che ha chiuso 40 anni di dittatura con una guerra civile, più che con una rivoluzione, dove le influenze esterne sono state ben presenti.

“Quando c’era Gheddafi esistevano già i trafficanti di uomini – ha raccontato Gian Micalessin, che ha anche presentato un suo documentario sul paese – ma si trattava di poche famiglie che controllavano il mercato degli esseri umani, e che il regime usava a suo piacimento come arma di ricatto per l’Europa, perché era comunque in grado di tenerle sotto controllo quando decideva di farlo. Oggi questo equilibrio è venuto a cadere, tenendo conto anche della presenza ingombrante di Qatar e Turchia che hanno alimentato la destabilizzazione messa in atto dai Fratelli Musulmani”.

Proprio sul ruolo e l’evoluzione della Fratellanza, in Libia e in Egitto, Laura Silvia Battaglia, giornalista free lance e documentarista con importanti collaborazioni internazionali all’attivo, e una profonda conoscenza del Medio Oriente, ha descritto l’organizzazione nella sua parabola discendente che ha preso avvio in un evento ben preciso, il massacro di Rab’a, al Cairo, del 14 agosto 2013. “Quel giorno – ha spiegato Battaglia, che lì era presente – si è consumata la fine fisica dei Fratelli e di Morsi che fino a quel momento era ancora presidente dell’Egitto. Finché poi il generale Al Sisi non si è sostituito a lui alla guida del paese. È stata una guerra in piena città, il campo è stato stretto con forze di terra ed elicotteri, in una piazza dove non solo esponenti dei Fratelli Musulmani ma una galassia di persone si era accampata per protestare, ed era anche disposta a farsi ammazzare. In tutti i paesi coinvolti nelle primavere c’e’stata una spinta popolare, ma le piazze sono anche state intercettate da forze esterne che hanno fatto leva sulle necessita’della gente per poi introdurre forme di propaganda, come e’avvenuto nel caso dei Fratelli. Che non amano le dittature del mondo arabo sul modello dell’Egitto di Mubarak o dello Yemen, ma non condividono nemmeno il potere di chi come l’Arabia Saudita simpatizza per l’Occidente ma accentra il potere nelle mani di una sola famiglia. L’obiettivo è quello di creare paesi liberi ma secondo il loro modello, dove non esiste un punto di vista laico. Il passaggio di mano dai giovani istruiti delle piazze ad altre organizzazioni è stato breve, perché il processo democratico avrebbe avuto bisogno di tempo, ma non è stato sorvegliato”.

Quanto l’instabilità e i conflitti hanno determinato la crescita dei flussi migratori? Questo è stato un altro dei temi caldi di queste giornate di incontro. Il traffico di esseri umani è diventato fonte di denaro liquido per le organizzazioni criminali, secondo Micalessin, soprattutto in un paese come la Libia dove “è mancato un intervento a sostegno del governo legittimo, dopo le elezioni del 2014”. Anche il conflitto siriano ha generato milioni di profughi, e questo accade da ormai quattro anni, anche se solo negli ultimi mesi l’Europa sembra averne preso coscienza, in vario modo. Per quanto riguarda i profughi siriani, l’idea dell’inviato de Il Giornale è che ultimamente la Turchia stia alimentando il traffico, visto che le partenze sono aumentate nel paese del 750% rispetto allo scorso anno, “come se improvvisamente tutti i campi si fossero aperti”.

“La Siria – secondo Laura Silvia Battaglia – andrà allo Stato Islamico, all’Iran e ai curdi nel nord, come già accaduto in Iraq. Ma di certo non ai siriani come popolazione composita”.

Le migrazioni seguono anche le rotte africane, come spiega Antonella Palmieri, free lance e collaboratrice della Radio Televisione Svizzera, con una lunga esperienza in Angola e Kenya. “A guardare i dati dell’Unhcr, dal 2000 al 2006 l’andamento delle migrazioni è rimasto più o meno stabile. Il 2008 è l’anno dell’accordo di Bengazi fra Berlusconi e Gheddafi, e il flusso cala fino al 2010, quando poi ricomincia a salire. Ogni anno sono 35 miliardi di dollari i proventi generati dal trafficking, e altri 150 quelli risultanti dall’indotto del lavoro derivante dal traffico di esseri umani, dei quali 99 sono ricavati dal solo sfruttamento sessuale. Se paesi come Camerun e Nigeria non rispettano alcun tipo di accordo in merito, altri stati africani come Angola, Tanzania e Kenya stanno mettendo in campo azioni di contrasto. Un altro paese dove si sfrutta il lavoro forzato è la Somalia, da anni in guerra civile. Se n’è parlato a proposito di alcuni pescatori provenienti dal Pakistan e trattenuti forzatamente per lavorare senza possibilità di andarsene”.

Molte delle persone trafficate provenienti dall’Africa, soprattutto donne, una volta arrivate a destinazione, vengono inserite nel mercato della prostituzione. Il magistrato Giuseppe Scelsi, Sostituto Procuratore Generale a Bari, ha raccontato il viaggio delle vittime di tratta dalla Nigeria all’Italia, attraverso stralci di conversazioni fra trafficanti intercettate durante le indagini su casi di sfruttamento sessuale.

“Dalla Nigeria si affrontano viaggi su strada fino agli hub di partenza per l’Europa, come il Ghana: da lì si arriva in aereo in Repubblica Ceca e poi di nuovo su strada nei paesi dell’Unione, Italia compresa. Anche i visti rappresentano un mercato florido: le autorità cercano di rafforzare il livello di sicurezza, ma di conseguenza aumenta anche la corruzione. Il visto può costare fino a 5 mila euro per gli uomini e 7 mila per le donne. È stato accertato che le reti di trafficanti si informano sulla provenienza della donna per poterne minacciare la famiglia in caso di problemi, e si accertano che non abbia partenti in Europa. Esiste anche una rotta del traffico via mare, con hub in Libia, ma anche in questo caso i flussi hanno subito delle variazioni rispetto agli accordi internazionali; certamente la tratta non si è arrestata, e nel momento in cui si è abbassato il flusso da Tripoli, è cresciuto altrove. Perché non si tratta di un fenomeno arrestabile solo con le azioni di polizia”.

Sul traffico di minori invece Laura Silvia Battaglia ha illustrato il caso dello Yemen: bambini portati in Arabia Saudita, spesso con il consenso delle famiglie che ricevono in cambio una somma di denaro, e impiegati nello spaccio di stupefacenti, nel traffico sessuale, nei lavori forzati o nel caso degli Emirati, nella corsa dei cammelli. “Il fenomeno del traffico di minori riguarda, oltre allo Yemen e all’Afghanistan, almeno 20 paesi del mondo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e dell’Unicef. Vengono venduti o ceduti spesso dalle stesse famiglie per un migliaio di dollari, una cifra che consente di acquistare una casa, in Yemen. I fattori della tratta sono dunque da imputare non solo alle situazioni di conflitto, ma anche all’indigenza, alla bassa scolarizzazione e alle leggi lascive in materia, poco inclini al rispetto dei diritti umani. Per questo le possibilità di intervento devono comprendere anche il rafforzamento di leggi nazionali in merito, oltre ad alternative concrete allo sfruttamento, in grado di prevenirlo (educazione e cibo). La difficoltà più grave è la tracciabilità di questo traffico, perché spesso avviene con il consenso delle famiglie, che dunque non denunciano la sparizione del figlio, e il minore si affida ai suoi trafficanti con la speranza di un guadagno e di un futuro migliore, quindi tende a reggergli il gioco in caso di problemi con le autorità”.

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