Bahrein, cosa succede nel paese della primavera dimenticata

Da Reset-Dialogues on Civilizations

È di pochi giorni fa la notizia che il governo del Bahrein ha annullato la visita dell’inviato speciale dell’Onu sulle torture Juan Mendez. Secondo fonti governative il viaggio sarebbe stato cancellato “fino a nuovo avviso”, cioè come dire, in termini meno diplomatici, “fino a data da destinarsi”. La visita, in realtà, avrebbe dovuto tenersi già un anno fa e il rinvio, per stessa ammissione di Mendez, è stata “una decisione unilaterale” che ha lasciato perplessi soprattutto perché arriva a ridosso del nuovo caos e dalla nuova ondata di arresti nel Paese.

Le ultime manifestazioni in grado di guadagnarsi la ribalta sono avvenute, infatti, durante il Gran Premio di Formula 1, in programma dal 19 al 21 aprile. Dal 2011 ad oggi sono queste le occasioni in cui la presenza dei media da tutto il mondo garantisce agli oppositori del regime (principalmente sciiti) gli obiettivi puntati, anche se per poco tempo. Anche per questa ragione, il Consiglio della Shura del Bahrein ha appena approvato una legge che innalza fino a 20 anni la detenzione per incitamento all’odio contro le forze di sicurezza.

Tutto ciò a due anni dall’inizio delle manifestazioni che si sono inserite nel solco della Primavera Araba, sedate solo a costo di una repressione decisa fatta di violenza nella strade, dell’intervento armato del Consiglio di cooperazione del Golfo e di un pugno duro nelle prigioni che all’epoca aveva spinto re Hamad al Khalifa a nominare una commissione d’inchiesta indipendente per indagare sugli abusi commessi.

Due anni che stando alle associazioni che si occupano di diritti umani non sono serviti a migliorare le condizioni sul terreno e su cui anche il Dipartimento di Stato Usa, nell’ultimo rapporto pubblicato il 19 aprile, ha posto seri dubbi. E dire che il Bahrein è per gli Usa il maggior alleato nonNato.

I problemi denunciati ora restano gli stessi su cui allora si era espressa la Commissione d’inchiesta e cioè arresti e detenzioni ingiustificati, torture, assenza delle libertà civili fino anche alla privazione della vita, in cinquantadue casi testimoniati da attivisti e associazioni. A questo si aggiungono discriminazioni più ordinarie come quelle di genere e di religione. Eppure le autorità governative hanno bollato il testo statunitense come poco obiettivo, “lontano dalla realtà” e schierato dalla parte dei terroristi obiettando che non avrebbe preso in considerazione “la realtà sul terreno” e “le riforme intraprese nel campo dei diritti umani”. Poche ore prima, però, sempre Amnesty International aveva appena lanciato un appello a sostegno di Nabeel Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, vittima di una serie di maltrattamenti e di arresti proprio nell’ultimo anno. E ancora, sempre Amnesty International nel rapporto “La libertà ha un prezzo”, lo scorso febbraio, aveva evidenziato come nonostante gli impegni presi dal governo dopo la pubblicazione del documento della Bahrein Independent Commission of Inquiry, l’adozione di un codice di comportamento per gli agenti di polizia, le installazioni delle telecamere a circuito chiuso nelle stazioni di polizia e la promessa di rilanciare il dialogo nazionale, nel piccolo regno persistono comportamenti al di fuori delle regole soprattutto nei confronti dei cosiddetti “prigionieri di coscienza” detenuti nella Jaw Prison, a sud della capitale Manama.

Il fronte dell’opposizione

Quelli che il governo chiama “terroristi” sono gruppi in prevalenza sciiti che chiedono da anni maggiori libertà civili e politiche. Attivi in realtà già dagli anni Novanta, nel frattempo le forze in campo sono mutate. Le rivolte del 14 febbraio si sono trasformate infatti in qualcosa di più, come la richiesta inedita di un regime change. È questo che più di tutti ha preoccupato la dinastia al potere, spingendola a chiedere il sostegno degli alleati del Golfo, prima che l’Iran intervenisse a fianco dei fratelli sciiti.

I loro metodi non sono esclusivamente pacifici e sono quelli tipici della guerriglia urbana, anche se l’ondata di manifestazioni del 2011 fu pacifica in gran parte, così come accadeva in Tunisia, in Egitto e in Siria nello stesso tempo. Dall’altra parte, gli agenti di sicurezza non hanno mai risparmiato sul ricorso alla forza e alla violenza per sedare le rivolte. Basti pensare all’utilizzo delle truppe del Consiglio della Cooperazione del Golfo (si parla di 1200 tra carri armati e mezzi corazzati), alla legge marziale e ai mesi di stato d’emergenza.

Le ragioni dei manifestanti si ritrovano nelle divisioni settarie dell’ex protettorato britannico caratterizzato da un 80% di musulmani, di cui il 70% sciita e il restante sunnita che detiene il potere attraverso una dinastia, quella degli al-Khalifa, che tra alti e bassi governa l’isola dalla fine del diciottesimo secolo.

Il principale partito bahreinita è, infatti, lo sciita Al Wefaq che dal 2007 (da quando cioè ha interrotto il boicottaggio verso le istituzioni) esce vittorioso dalle urne ma che non riesce a guadagnare quella giusta rappresentanza che scardinerebbe lo status quo poiché, in base alla costituzione, la Camera Alta non viene eletta, ma nominata direttamente dal re. In questo sistema di check and balance che garantisce il perpetuarsi del potere sunnita, ha preso via via forma un’opposizione non autorizzata che poi è quella che è stata protagonista delle piazze. Oltre alla Coalizione del 14 Febbraio (e qui la data non è stata scelta a caso, ma è l’anniversario del referendum che nel 2001 avviava una serie di riforme dopo quasi dieci anni di disordini e proteste) che raccoglie giovani sciiti e sunniti uniti soprattutto attraverso i social network e il cui simbolo richiama quello già scelto da tanti coetanei in Nordafrica, o a gruppi politici organizzati già da tempo, come l’Haq Movement che è attivo dal 2005, c’è il Bahrain Freedom Movement che agisce dal 1990.

Di base a Londra, il movimento è composto da fuorusciti di Al Wefaq che, nonostante l’amnistia politica, non sono tornati in patria e continuano a porsi come opposizione all’estero. Il Bahrain Freedom Movement ha anche una testata online, The voice of Bahrain, che per anni è stata bandita dalla rete su ordine del Ministero dell’Informazione.

Gruppi più o meno inclini al compromesso che si confrontano con le divisioni interne allo stesso clan degli al Khalifa, in cui il principe ereditario Salman Bin Hamad Bin Isa al-Khalifa appare più aperto al dialogo e a eventuali riforme, mentre il primo ministro, che è anche suo zio e che è in carica dal 1971, è il promotore di quella linea dura che non ha permesso nessun tipo di dialogo.

Vai a www.resetdoc.org

Immagine: manifestazione del 22 febbraio 2011 in Bahrein

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *