Le cifre sul commercio d’armi: crescita dell’8.4% negli ultimi cinque anni

Il 22 marzo scorso il Comitato permanente sull’attuazione dell’agenda 2030 e gli obiettivi di sviluppo sostenibile della Camera ha ascoltato l’audizione del Ministro Plenipotenziario Francesco Azzarello, direttore dell’Autorità Nazionale UAMA, Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, nel contesto di un’indagine conoscitiva sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Il numero 16 in particolare è dedicato alla promozione di società pacifiche e inclusive, anche attraverso il traguardo, fissato per il 2030, di riduzione del finanziamento illecito al traffico di armi. Ed è qui che si inserisce il ruolo di UAMA, istituita nel 1991 e competente per il rilascio delle autorizzazioni per l’interscambio dei materiali di armamento, secondo la legge 185.

Il tema è controverso è riporta subito ad un esempio concreto, quello della guerra in Yemen e dei bombardamenti dell’Arabia Saudita, paese fra i maggiori importatori al mondo che anche l’Italia continua a rifornire. Sono trascorsi due anni dall’inizio di questa guerra, e secondo le Nazioni Unite ci sono state oltre 4 mila 500 vittime civili, tre milioni di sfollati e più di sette milioni di persone a rischio a causa della malnutrizione. Secondo Amnesty International, Rete Italiana Disarmo e altre organizzazioni che hanno deciso di scrivere una lettera aperta al Ministro degli Esteri italiano, sulle città yemenite sono state sperimentate da entrambe le parti in causa tecniche militari particolarmente distruttive nei confronti della popolazione civile, come ad esempio gli attacchi double tap che mirano non solo a distruggere gli obiettivi ma anche a uccidere i soccorritori. Per questo la richiesta è di cessare, secondo il diritto nazionale italiano, la fornitura d’armi a Riyad.

Secondo i dati dell’Osservatorio OPAL e della Rete Disarmo, nel 2016 l’Italia ha inviato in Arabia Saudita bombe e munizionamento militare per un totale di 40 milioni di euro, contro i 37,6 milioni del 2015. “Le spedizioni – si legge – sono state effettuate dalla provincia di Cagliari e sono riconducibili alla RWM  Italia, azienda del gruppo tedesco Rheinmetall, che ha la sua sede legale a Ghedi (Brescia) e la sua fabbrica a Domusnovas, non lontano da Cagliari. Già nel 2015, e dunque a conflitto aperto e dichiarato, sono state confermate e certificate numerose spedizioni di bombe aeree della RWM dalla Sardegna all’Arabia Saudita”.

A seguito di un esposto promosso dalla Rete Disarmo, la procura di Brescia ha anche aperto un’inchiesta sulle forniture di bombe ai sauditi. Durante l’audizione in Commissione il ministro Azzarello spiega come l’UAMA lavori per garantire la legalità di questi trasferimenti: “la documentazione comprende anche l’Euc, end-user certificate, che è governativo, ovvero l’end-user statement, che, invece, è prodotto dalla società destinataria, che garantisce che il materiale esportato non verrà riesportato verso paesi terzi senza l’assenso del paese d’origine. Questa è una prassi normale: si cerca di controllare i trasferimenti di tecnologia, ma anche di controllare la destinazione dei materiali d’armamento”.

Secondo l’ultimo rapporto Sipri, Istituto nazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, l’Italia è l’ottavo paese al mondo per esportazione di armi, e il quinto in Europa, in un contesto internazionale che negli ultimi anni ha riportato le transazioni riguardanti materiale bellico ai volumi della guerra fredda. Nel documento sono stati messi a confronto i periodi 2007/2011 e 2012/2016, ed è stata evidenziata una crescita del volume d’affari dell’8,4% nel secondo quinquennio rispetto al primo.

I cinque più grandi esportatori sono gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Francia e la Germania, mentre i maggiori importatori sono l’India, l’Arabia Saudita, gli Emirati, la Cina e l’Algeria. Il flusso di armi verso Asia, Oceania e Medio Oriente è cresciuto, mentre è diminuito in Europa, America e Africa. Usa e Russia insieme rappresentano insieme il 56% del totale delle esportazioni, e con Cina, Francia e Germania raggiungono il 74%. L’Italia, all’ottavo posto, totalizza il 2,7%, con Turchia, Algeria e Angola come principali clienti.

Gli esportatori in cima alla classifica

Con il 33% del totale delle armi esportate a livello mondiale fra il 2012 e il 2016, gli Usa mantengono il primo posto; il Medio Oriente è l’area che ne riceve di più (47%), seguito da Asia e Oceania (35%), Europa (10%) e Africa (2,3%). Almeno 100 stati hanno acquistato dagli Stati Uniti d’America, e il primo della lista è l’Arabia Saudita (13%): il flusso di armi fra i due paesi, rileva il Sipri, è destinato a rimanere alto per la consegna di 154 aerei da combattimento F15 SA, cominciata nel 2016. E questo a dispetto di un richiamo del Congresso, durante lo scorso anno, che aveva chiesto la riduzione delle esportazioni verso il paese impegnato nelle operazioni militari in Yemen che hanno già causato migliaia di vittime civili.

L’esportazione della Russia è cresciuta del 4,7% fra il 2007/2011 e il 2012/2016. A livello regionale Asia e Oceania raccolgono il 68% dell’esportazione russa, l’Africa il 12%, il Medio Oriente l’8,1% e l’Europa il 5,9%. Fra il 2012 e il 2016 la Russia ha consegnato armi in 50 stati, oltre che alle forze ribelli in Ucraina, ma la maggior parte delle esportazioni sono state destinate ad un gruppo ristretto di stati: India (38%), Vietnam (11%), Cina (11%), Algeria (10%), Venezuela (5%) e Azerbaijan (4%).

L’export della Cina è cresciuto del 74% fra il 2007/11 e il 2012/16, passando da 3,8% al 6,2%. Asia e Oceania raccolgono il 71% delle armi provenienti da Pechino, seguite dall’Africa con il 22% e dal Medio Oriente con l’1,7%. Negli ultimi cinque anni la Cina ha venduto armi a 44 paesi, e per la prima volta anche a stati dell’ex Unione Sovietica, come il Turkmenistan.

I primi cinque esportatori dell’Europa occidentale sono Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Italia, e insieme totalizzano il 21,7% dei trasferimenti di armi degli ultimi cinque anni. La Francia ha diminuito del 5% le esportazioni rispetto al 2007/2011. Il 38% delle esportazioni totali di Parigi vanno in Medio Oriente, il 29% in Asia e Oceania, l’11% nelle Americhe, il 9,2% in Africa e il 12,8% negli altri stati europei. La Francia ha consegnato armi in 81 paesi, e ha firmato accordi fra gli altri con l’Australia per 12 sottomarini, e con l’India per 36 aerei da combattimento. Il 28% delle esportazioni della Germania è rivolto ad altri stati europei, il 24% ad Asia e Oceania, il 23% al Medio Oriente, il 16% alle Americhe, l’8,9% all’Africa. Il Regno Unito ha aumentato le esportazioni del 27%, la Spagna del 2,9% e l’Italia del 22%.

I maggiori importatori

Sono 155 i paesi che hanno importato armi negli ultimi cinque anni, e i primi (India, Arabia Saudita, Emirati, Cina e Algeria) rappresentano il 34% del totale. A livello regionale Asia e Oceania canalizzano il 43% delle importazioni, seguiti da Medio Oriente, Europa, America e Africa.

L’importazione dagli stati africani è diminuita del 6,6%. La Russia è il più grande fornitore dell’Africa ed esporta nel continente il 35% del totale, seguita dalla Cina con il 17%, dagli Usa con il 9,6% e dalla Francia con 6,9%. I primi cinque stati sub-sahariani che comprano armi sono Nigeria, Sudan, Etiopia, Cameroon e Tanzania, a causa delle guerre in Darfur, Sud Sudan, contro al Shabab. In Sud America è il Venezuela il principale importatore, mentre la Colombia ha diminuito gli acquisti grazie al processo di pace avviato con le Farc; il Messico ha aumentato le importazioni del 184% a causa della lotta ai cartelli del narcotraffico. In Asia è l’India a raccogliere il 13% del totale delle armi esportate nel mondo, mentre la Cina ha accresciuto la sua capacità produttiva nel settore ed è diventata meno dipendente dalle importazioni, fatta eccezione per i mezzi militari di trasporto.

Il Rapporto Sipri inquadra fra gli importatori anche soggetti extra-stato, ossia i gruppi ribelli che nell’ultimo quinquennio hanno ricevuto dotazioni belliche: se è vero che rappresentano solo lo 0,02% delle esportazioni, rivestono un ruolo spesso fondamentale negli attuali conflitti. Inoltre non sempre le transazioni sono dirette, e le armi ricevute possono essere state prese dagli armamenti governativi, come accaduto per lo Stato Islamico.

Nel complesso mercato globale degli armamenti vi sono anche casi particolarmente controversi, come quello di Russia, Armenia ed Azerbaijan, entrambi “clienti”, anche se in proporzioni nettamente differenti a favore di Baku, e nello stesso tempo parti in causa nel conflitto del Nagorno Karabakh. L’area dove le transazioni sono aumentate costantemente negli ultimi anni resta il Medio Oriente. Gli stati del Golfo, coinvolti a vario titolo nei conflitti armati in Yemen e Siria hanno incrementato la spesa per l’acquisto di armi in maniera esponenziale: l’Arabia Saudita ha registrato una crescita dell’importazione del 212%, il Kuwait del 175% e gli Emirati del 63%. In Iraq l’importazione è cresciuta del 123%, e nell’ultimo decennio il paese ha ricevuto centinaia di veicoli militari, 29 aerei da combattimento statunitensi, 24 sud coreani, e 43 elicotteri dalla Russia. La maggior parte delle dotazioni ricevute negli ultimi tempi sono state usate immediatamente nel conflitto in corso contro daesh.

Le small arms

Se i dati di spesa e i volumi di materiale scambiato tracciati dal Rapporto Sipri riguardano i sistemi d’arma “pesanti”, e sicuramente più facilmente tracciabili, molto più complicato è ricostruire il percorso, lo scambio, la destinazione finale delle armi leggere.

Come riporta il Rapporto 2016 dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, il valore del commercio mondiale legale di armi piccole e leggere è pari a 8,5 miliardi di dollari all’anno; eppure non esiste ancora una definizione universale. L’unica distinzione fu quella proposta da un panel di esperti delle Nazioni Unite nel 1997, fra armi piccole (revolver, pistole a caricamento automatico, fucili e carabine, fucili d’assalto, fucili mitragliatori e mitragliette, munizioni), e armi leggere (mitragliatori pesanti, alcuni tipi di lanciagranate, razzi antiaereo e anticarro portatili, sistemi di lancio di missili antiaereo portatili e mortai dal calibro inferiore ai 100 mm).

Il tema delle small arms resta comunque più difficile da indagare, per la riluttanza di alcuni paesi a rilasciare dati in merito alle licenze accordate. I meno trasparenti risultano essere Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita ed Emirati. In questo settore, l’Italia ha stipulato complessivamente contratti per l’esportazione di armi comuni da sparo, munizioni ed esplosivi per un totale di 519 miliardi e 554 mila euro. Solo in Medio Oriente si parla di quasi 26 milioni di euro (dati 2015), per la maggior parte nella categoria munizioni. In testa alla classifica degli importatori dall’Italia ci sono gli Emirati con quasi 9 milioni di euro di licenze, Israele con quasi quattro milioni e mezzo e l’Arabia Saudita con poco più di due milioni di euro. In Nord Africa il maggiore volume d’affari è stato realizzato con l’Egitto (cinque milioni e 600 mila euro) e il Marocco (due milioni e 300 mila euro).

La distinzione fra armi ad uso civile e militare rappresenta la principale problematica relativa al commercio di armi comuni, perché non tiene conto del fatto che anche le cosiddette “armi civili” abbiano un uso offensivo e possano comunque confluire in situazioni di conflitto armato.

Proprio per riflettere sulle conseguenze di questa diffusione, fin troppo capillare e incontrollabile, di armi leggere, è nato il web documentario di Emergency, Storia di una pallottola, da una narrazione della presidente Cecilia Strada, interpretata da Valerio Mastandrea sulle immagini di una giornata nell’Ospedale di Kabul, in Afghanistan.

“Siamo tra i principali esportatori di armi piccole e leggere – dice Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo e fra i realizzatori del webdoc – le vere armi di distruzione di massa che fanno 400 mila morti all’anno, come diceva Kofi Annan, che vuol dire un morto al minuto. Bloccare il trasferimento non sicuro contribuirebbe in maniera decisa a bloccare i conflitti ed evitare morti in giro per il mondo”.

L’intento è stato quello di raccontare il lavoro dei medici, degli infermieri, il punto di vista dei pazienti, in un centro che riceve feriti di guerra senza sosta, in un paese in cui il conflitto è tutt’altro che in via di soluzione. Dove la pallottola finita nella testa di una bimba di sette anni diventa il filo conduttore di un’ordinaria giornata di lavoro.

Foto credits: Gianluca Cecere per Emergency

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