
La morte di Papa Francesco ha suscitato un’ondata globale di riflessioni e analisi su questi dodici anni di pontificato e di interrogativi sul futuro della religione cattolica. Punti di vista diversi da mettere in dialogo tra di loro. Questo pontefice, infatti, non ha lasciato dietro di sé una nuova dottrina compiuta, ma un’agenda aperta di riforme per una Chiesa aperta sul mondo.
Il New York Times titola: “I cattolici si aspettavano una rivoluzione da Francesco, ma non quella che lui ha dato loro” perché “il suo pontificato ha privilegiato il dibattito rispetto all’azione radicale”. Jason Horowitz, corrispondente da Roma e autore dell’articolo, scrive, “era un papa di grandi, spesso eccessive, aspettative. Il suo stile rivoluzionario e libero ha portato i cattolici di ogni orientamento ad attribuirgli speranze e paure più ambiziose (a tratti irrealistiche), a volte indipendentemente da ciò che faceva”.
Per Thomas J. Reese, analista vaticano, intervistato da Horowitz, questo è il vero cambiamento rivoluzionario. Concorda con lui il cardinale Michael Czerny: “Cambiare il processo è più importante che cambiare il prodotto, è qualcosa di più profondo, i temi sono secondari”. Secondo Horowitz, infatti, “l’effetto di Francesco sulla Chiesa è stato più complesso, e per certi versi più profondo, dei cambiamenti politici o delle riforme specifiche. Ha cercato di cambiare il modo in cui la Chiesa vedeva sé stessa, rimproverando incessantemente la sua gerarchia affinché non si comportasse come prìncipi al di sopra del gregge”. Forse “il cambiamento più rilevante per la Chiesa si vedrà nelle prossime settimane per le scelte che ha fatto nelle nomine del collegio dei cardinali”.
Il quotidiano americano propone anche un’intervista a David Gibson, direttore del Fordham’s Center on Religion & Culture, che parla di un “vibe shift”, ovvero di un cambio di atmosfera da una Chiesa gerarchica di “comando e controllo” a un Papa pastore.
Anche le priorità della Chiesa sono state cambiate con decisione. L’editoriale di Le Monde lo descrive come un “apostolo della benevolenza, più attento alla sorte dei poveri che alle norme morali, preferendo l’apertura al mondo e l’ascolto degli altri al ripiegamento su sé stesso”. Il giornale francese insiste sul tema: “In un’epoca segnata dalla crescente disuguaglianza e dalla violenza sociale, l’ex capo della Chiesa cattolica sarà ricordato anche come l’uomo che ha posto i poveri al centro del suo discorso e ha denunciato l’incontrollato desiderio di denaro che regna sovrano”. Gran parte dei quotidiani italiani ha intitolato la prima pagina del 22 aprile, “Il papa degli ultimi”.
El Pais scrive: “Nei suoi dodici anni a capo della Chiesa attaccò il capitalismo, puntò sull’ecologia e difese i migranti”. La Chiesa di Bergoglio ha posto la questione sociale al centro del dibattito combattendo contro la “globalizzazione dell’indifferenza”. Questo messaggio è stato ripreso anche nel suo ultimo discorso pasquale: “Quanto disprezzo si suscita a volte verso i vulnerabili, gli emarginati e i migranti!”.
Una Chiesa inclusiva aperta a tutti
Antonio Spadaro, gesuita e teologo, su Repubblica elogia l’apertura e l’inclusività di Francesco: “Ha desiderato parlare con chiunque, anche con persone e leader che altri hanno sempre tenuto distanti”, infatti “Francesco non ha aperto, ma spalancato le porte della Chiesa a todos todos todos. Non perché la gente restasse dentro, come lui più volte ha detto, ma perché il Signore fosse in grado di uscire, andando per la strada”.
In un’intervista per il Corriere della Sera il cardinale Gianfranco Ravasi sottolinea: “La sua parola è scesa nelle strade, nelle periferie, in sintonia e simpatia con il mondo”. Il papa “ha saputo elaborare anche un linguaggio originale, ricordo che ne parlai con studiosi dell’Accademia della Crusca, una stilistica simbolica: l’odore delle pecore, la guerra mondiale a pezzi, la Chiesa come ospedale da campo sono espressioni che tutti ricordano… In una cultura digitale come quella di oggi, la comunicazione deve avere questa dimensione essenziale”.
Il bilancio sulle riforme
Sul Guardian Julian Coman si chiede: “Francesco è riuscito a ricostruire con successo la Chiesa? Nel 2018 si lamentò che riformare Roma era come pulire la Sfinge d’Egitto con uno stuzzicadenti”. Ma “per un papa intenzionato a ritrovare lo spirito più aperto del Vaticano II, dopo un lungo interregno conservatore, si tratta di un bilancio imperfetto, ma non negativo”. Secondo lui sarebbe un errore considerare il papato di Francesco come un pontificato liberale, ma ha comunque esercitato una notevole influenza progressista su temi significativi, soprattutto in relazione all’emergenza climatica e ai migranti. Forse, ipotizza ancora Horowitz del NYT, Francesco ritenne che la Chiesa non fosse ancora pronta per certe decisioni e questo deluse le volontà dei cattolici più progressisti. Lo stesso autore elenca, però, anche le forme attuate: “Francesco aprì la porta ai cattolici divorziati e risposati per ricevere la comunione, concedendo maggiore libertà ai sacerdoti e ai vescovi locali. Aprì le principali riunioni dei vescovi ai laici e alle donne, e assegnò alle donne ruoli di rilievo all’interno della potente burocrazia romana che governava la Chiesa. Soppresse la Messa in latino” e “permise ai sacerdoti di benedire le coppie dello stesso sesso. Ma permise anche ai sacerdoti africani che si ribellavano alle benedizioni di ignorare sostanzialmente la regola”, sintomo di un’autorità che preferisce il dialogo alla prescrizione.
Il futuro della Chiesa
Adesso “la battaglia per il futuro della Chiesa si giocherà in conclave” scrivono sul Guardian Harriet Sherwood e Angela Giuffrida. Due terzi dei cardinali elettori sono stati nominati da Francesco, ma “non significa che siano coesi o che condividano la sua visione”. Ci si aspetta “una feroce battaglia per il futuro della Chiesa, la cui posta in gioco è altissima” e potrebbe esserci il desiderio, nella Curia, di qualcuno “più ordinato e meno carismatico di Francesco”.
Non si tratta solo di chi sarà eletto, ma di quale visione prevarrà: una Chiesa centrata sul processo, sulla sinodalità, sull’ascolto dei margini, o una Chiesa che torni a una gestione verticale e ordinativa. Il Conclave non designerà solo un papa, ma deciderà se l’agenda aperta di Francesco sarà una parentesi o una soglia.
Secondo l’arcivescovo di New York “chiunque sarà il suo successore dovrà avere il suo stile, che era uno stile vincente capace di commuovere il mondo”.
Lo storico italiano Andrea Riccardi ha dichiarato alla Rai: “Ci troviamo con una serie di processi iniziati e con un’eredità molteplice, non sappiamo come frutteranno. Il prossimo papa si troverà il problema di concepire l’unità nella diversità di questo cattolicesimo”.
Anche il cardinale Ravasi sul Corriere della Sera si mostra preoccupato: “Il Papa che verrà si troverà di fronte una situazione un po’ inedita”. Si prospetta “un mondo che sta tornando indietro, al modello peggiore del secolo scorso”. Le ingerenze politiche non vanno sottovalutate, dichiara lo storico delle religioni Alberto Melloni in un’intervista a Repubblica: non sarebbe la prima volta che imperatori o aspiranti imperatori si interessano alla Chiesa. L’allusione è alla destra americana: “Oggi alla destra quello che manca è un collante, che naturalmente non può essere quello nostalgico o totalitario, per questo l’interesse è verso un collante religioso. Negli Stati Uniti Trump si è appoggiato al protestantesimo evangelico, Vance invece offre al movimento MAGA un’altra prospettiva, quella del cattolicesimo universale. La Chiesa di oggi è vulnerabile a queste influenze”.
Di certo, come titola Francis X. Rocca sull’ Atlantic, “Il papato è cambiato per sempre”, soprattutto nei modi. L’apertura della Chiesa di Bergoglio passa anche dalla sua comunicazione semplice e accessibile. L’articolo parla dell’importanza delle interviste del Papa: “È stato in grado di ispirare il dibattito all’interno della Chiesa e di modificarne le priorità senza toccare il testo delle sue leggi”, “il prossimo papa, a prescindere dalle sue inclinazioni personali, sentirà la pressione di mantenere un certo livello di accessibilità ai media, per evitare di apparire distaccato o indifferente al confronto con Francesco. Che gli piaccia o no, i suoi successori non potranno lasciare che siano i loro insegnamenti ufficiali a parlare per tutti”.
Lo sforzo di Papa Francesco è stato quello di riformare la cultura della Chiesa più che la teologia, ovvero il modo in cui l’istituzione religiosa si pensa e si relaziona al mondo. “Ha usato il suo potere per plasmare una Chiesa più aperta, generosa e socialmente impegnata”, conclude il Guardian. Quanto durerà questa influenza, lo dirà il tempo. E soprattutto, lo dirà il prossimo conclave.
(A cura di Pietro Spotorno)