È iniziato l’autunno arabo?

Condannare la violenza scaturita dalla rabbia per le offese al Profeta è difendere i valori democratici, primo fra tutti quello della libertà di parola. La mette in questi termini il New York Times, attraverso i commenti di Roger Cohen e di Nicholas Kristof. Non si tratta certamente di fare da scudo al gesto di quello che Kristof definisce “un imbecille” – “La libertà di essere un imbecille è uno dei nostri valori fondamentali”, scrive. Quanto mettere in evidenza l’ “ossimoro” implicito nell’idea di una Repubblica islamica e la vera scommessa della Primavera Araba, evidenziata da Cohen: “La grande sfida della Primavera Araba è dimostrare che, come in Turchia, partiti di ispirazione islamica possono abbracciare un pluralismo moderno e così accompagnare le loro società da una cultura di lamento e vittimismo a una di creatività e mediazione.”

Gli attacchi alle ambasciate americane, scaturiti nei paesi islamici dalle proteste per il film considerato blasfemo dai musulmani, e che hanno causato la morte di quattro cittadini statunitensi – tra i quali l’ambasciatore a Tripoli, Christopher Stevens – dimostrano, secondo Benjamin Barber, che la Primavera Araba sta sfiorendo. La colpa si rintraccia in un Occidente impaziente, erroneamente convinto di poter dare vigore a questo corpo obbligandolo a flebo di democrazia, restando cieco ai segnali provenienti dal popolo islamico o auto-convincendosi di un rigetto dovuto esclusivamente a frange isolate di terroristi.

Nel suo commento pubblicato sul sito del Guardian, Barber ripercorre alcuni incidenti avvenuti in Libia, significativi dell’anarchia in cui regna il Paese: tante piccole micce che hanno preparato allo scoppio della bomba più rumorosa – quella scoppiata nella notte tra l’11 e il 12 settembre scorsi, a Bengasi. “Forse la lezione più importante viene dalla storia delle rivoluzioni: la caduta di una tirrannia, non comporta di per sé la democrazia, ma porta più spesso all’anarchia. E dall’anarchia e dal disordine nasce una nuova tirannia. ” Consapevole del rischio che la sua opinione passi per un attacco alle rivoluzioni, Barber la chiarisce. Il suo è un tentativo di aprire gli occhi all’Occidente, perché possa guardare oggettivamente ai rischi che il sostegno incondizionato dei ribelli comporta, smettendola di “fingere che […] la Libia e l’Egitto siano popolate esclusivamente da aspiranti democratici e smanettoni informatici innamorati della libertà”.

L’anarchia è la spiegazione data alle violenze che si sono registrate per una settimana in gran parte dei Paesi islamici, anche da Murtaza Hussain. In un commento pubblicato su Salon.com, spiega che ad alimentarle è stato il collasso della società, successivo al vuoto di potere che si è venuto a creare con la caduta di Gheddafi. Non ne fa quindi una questione di antiamericanismo: “Un recente sondaggio Gallup mostra come la grande maggioranza dei Libici guarda l’America e la leadership americana in una luce positiva e vuole entrare in una nuova era di relazioni più strette e più cooperative con l’Occidente”.

Un’interpretazione, questa di Hussein, che va nella direzione opposta rispetto a quella di Patrick Cockburn che su Independent.co.uk, scrive: “La verità è che la Primavera Araba, non solo in Libia ma in tutto il mondo arabo ha tratto molta della propria forza esplosiva dalla combinazione di persone e punti di vista molto differenti tra loro, uniti dall’avversione delle autocrazie oppressive e corrotte. I Fratelli Musulmani, la classe media degli intellettuali, i Jihadisti, benestanti uomini d’affari e contadini impoveriti, si sono uniti e in Tunisia, Libia e Egitto sono riusciti a rovesciare le dittature esistenti.” Ma Cockburn sottolinea anche come siano stati in molti i musulmani libici partiti dalle loro case verso l’Iraq per farsi saltare in aria: “Se le persone erano anti-Gheddafi a quel tempo, erano anche contro l’occupazione americana in Iraq”, spiega. E conclude: “La Primavera Araba non è mai stata un voto collettivo a favore dell’Occidente, ma una serie di rivoluzioni vere che hanno in serbo altre sorprese, buone e cattive.”

The Atlantic propone una mappa interattiva delle rivolte musulmane che hanno agitato il Medio Oriente – ma non solo – a partire dal 12 settembre scorso. Mentre ArtInfo ricorda opere controverse come Submission (2004) di Theo Van Gogh, Piss Christ (1989) di Andres Serrano o The Holy Virgin Mary (1996) di Chris Ofili, per lanciare un messaggio al mondo politico: “Nelle società civilizzate, non si risponde a un’opera d’arte o ad altre forme di espressione – non importa quanto ‘offensive’ si considerino – con la violenza. Si risponde con il dialogo. Questo è la civilizzazione. E non solo non dobbiamo scusarci per questo; lo richiediamo. O almeno, lo richiede il mondo dell’arte. È tempo per il Dipartimento di Stato di fare altrettanto.”

Un filosofo in difesa della religione

È questo il titolo dell’articolo, proposto da The New York Review of Books, su Where the Conflict Really Lies: Science, Religion, and Naturalism, ultimo testo di Alvin Plantinga, filosofo e teologo americano. Il punto dove le strade della religione e della scienza si incrociano è situato, secondo Plantinga, molto nel profondo: la loro è una conflittualità esclusivamente superficiale. Intimamente concordi, si scontrano semmai – in particolare la scienza – con il naturalismo. Includendo la fede tra i suoi “warrants” epistemologici, Plantinga porta avanti una discussione metodica in Where the conflict really lies, per spiegare come la scienza entra in contrasto – o supporta – la religione.

“La cosa interessante di questo libro, specialmente per i lettori laici, è la sua presentazione del punto di vista di un teista, filosoficamente acuto e scientificamente ben informato […]. Plantinga scrive in maniera chiara, accessibile e a tratti acida – in risposta a critici della religione aggressivi, come Dawkins e Daniel Dennett. La sua posizione è un contributo prezioso a questo dibattito. ” Scrive così l’autore dell’articolo, Thomas Nagel – un “Darwin heretic”, secondo gli evoluzionisti, che loda un altro “Darwin heretic”. Di naturalismo, teismo e religione, Alvin Plantinga aveva parlato anche con Paul Pardi – filosofo cristiano, interessato ai nuovi movimenti atei – in un’intervista pubblicata su PhilosophyNews.

Mentre il Dalai Lama ha recentemente affidato a Facebook questo messaggio: “Al mondo d’oggi, le fondamenta etiche della religione non sono più adeguate. È per questo che sono sempre più convinto che sia giunto il tempo di trovare un modo di intendere la spiritualità e l’etica che vada oltre la religione.”

La fabbrica della bugia

Su The New Yorker, un articolo scritto da Jill Lepore, racconta la nascita della Campaigns Inc. di Clem Whitaker and Leone Baxter.

È l’America degli anni Trenta. Il democratico Sheridan Downey ingaggia due giornalisti allo scopo di far perdere un referendum proposto dalla Pacific Gas and Electric. Lui ha 34 anni, si chiama Clem Whitaker; lei, Leone Baxter, ne ha 26. Dalla loro unione – prima collaborativa, poi anche sentimentale – nasce, nel 1933, Campaigns Inc.
Facendo dello slogan “Ogni elettore, un consumatore” il proprio mantra, la Whitaker and Baxter Campaigns Inc., specializzata in consulenza politica e organizzazione delle campagne, segna la nascita della politica come industria, l’alba di un modo tutto nuovo di fare business in un campo di cui per anni ha posseduto il monopolio. “Tra il 1933 e il 1955 – ricorda The New Yorker – vinsero settanta campagne su settancinque. Le campagne elettorali che decisero di seguire, e il modo in cui decisero di condurle, hanno cambiato la storia della California, e del paese. Campaigns Inc. sta ancora cambiando la politica Americana.”

Chi ha ucciso le materie umanistiche?

Se lo chiede in un articolo firmato per The Weekly Standard, Joseph Epstein – saggista e scrittore americano – denunciando il calo di prestigio di quelle che, nel mondo anglosassone, vengono identificate come liberal arts; per denunciare la crisi generale dell’istruzione superiore negli Stati Uniti. Una crisi che si lega inevitabilmente alla crisi economica, alle elevate tasse universitarie e al sopravvento della vocational arts education – la formazione professionale. La risposta, Epstein, la trova da solo – sottolinea Salon che la ripropone, scostando la retorica che la copre. Nell’articolo intitolato Conservatives killed the liberal arts, il dito viene puntato contro “Ronald Reagan, Rupert Murdoch, William F. Buckley e i loro eredi. Lo hanno fatto attraverso un calo dell’accesso all’educazione, combinato con una demonizzazione della cultura accademica e degli accademici. Statene certi: la morte delle materie umanistiche è un assassinio che ha movente ideologico.”

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