Catalogna, “plebiscit per la independència”

Il Corriere della sera: “Siria, prime bombe francesi”. “Renzi: evitiamo un’altra Libia. Valls: avanti finché necessario”.
L’editoriale, firmato da Franco Venturini, è titolato “Il momento delle scelte”.
In alto, con foto: “In Catalogna vincono i partiti separatisti”.
A centro pagina la visita del Papa negli Usa: “‘Dio piange per la pedofilia’. Il Papa abbraccia le vittime”. In prima anche un articolo “firmato” dal Papa Francesco: “Quei miei incontri con il cardinal Martini. ‘Il padre Martini fu un uomo di dialogo, di mediazione, e fece da ponte tra la Compagnia di Gesù e Paolo VI”.
Sulla morte di Pietro Ingrao un articolo di Paolo Franchi: “Il comunista che amava il dubbio e voleva la luna”.

La Repubblica apre con le elezioni in Catalogna: “La vittoria dei separatisti”, “In Catalogna il fronte secessionista conquista la maggioranza dei seggi ma solo il 485 dei voti. Il leader Arrur Mas: e ora l’indipendenza. Stangata a Rajoy. Affluenza record: il 77% alle urne”.
A centro pagina: “Primi raid, la Francia colpisce in Siria”, “Intervento aereo contro un campo jihadista. Renzi: no ai blitz. Oggi Obama vede Putin”.
Sulla colonna a destra: “Addio a Pietro Ingrao, coscienza critica della sinistra”, “Aveva compiuto 100 anni. Dal Manifesto alla scissione una vita di battaglie nel Pci”. A ricordarlo sono Filippo Ceccarelli e Guido Crainz.
A fondo pagina: “Nel fortino di Volkswagen Italia. L’ad: non so quali auto richiamare”.

La Stampa: “Catalogna, trionfo dei secessionisti. ‘Ciao Spagna, presto andremo via’”, “Maggioranza assoluta all’alleanza indipendentista. Tracollo per il PP di Rajoy”.
In apertura a sinistra: “Raid francesi contro l’Isis. Renzi critico”, “’Evitiamo una nuova Libia’. Mosca attacca la politica Usa”, “Hollande conferma: bombardato un campo”.
A destra: “Addio Ingrao, lo sconfitto che voleva la luna”. Ne scrivono Riccardo Barenghi e Umberto Gentiloni, mentre il direttore Mario Calabresi intervista l’ex presidente Giorgio Napolitano.

L’Unità ha in apertura una grande foto di Pietro Ingrao: “Ciao, Pietro”. “Comunista senza liturgie” è il titolo di un intervento di Achille Occhetto. Di fianco, il commento di Alfredo Reichlin: “La scoperta della passione politica”.
A centro pagina: “À la guerre comme à la guerre”, “La Francia va all’attacco dell’Is e bombarda in Siria senza accordi in sede Ue. Renzi: ‘Evitiamo la Libia bis, no a blitz e sì alla coalizione internazionale’”.
In prima anche un reportage di Marco Mongiello a Beremend, in Ungheria: “I rifugiati tra i carri armati. Pittella: il Ppe cacci Orban”, “Reportage da Beremend, al confine di filo spinato tra Ungheria e Croazia”.

Il Mattino: “Spagna, la secessione vince ma non sfonda. Mas sfiora la maggioranza dei voti”. “Affluenza record, festa a Barcellona”. Il titolo più grande: “Sud e mafia, la sfida di Mattarella. Il capo dello Stato a passeggio sul lungomare tra la gente. Oggi con gli studenti a Ponticelli per il via all’anno scolastico. Il messaggio da Napoli: Mezzogiorno la chiave per tenere unito il Paese”.
A fondo pagina: “Siria, raid francesi contro l’Isis. Bombe sulle postazioni del califfato. Renzi: no ad una Libia bis”.

Il Giornale: “Furia Merkel. La Volkswagen rischia grosso. Dieci giorni per mettersi in regola, altrimenti Berlino vieterà la circolazione a milioni di auto ‘truccate’. L’allarme dei concessionari italiani: ‘Hanno ucciso il settore'”.
Il titolo di apertura: “Parla Berlusconi: ‘Settimana decisiva per le alleanze'”.
A centro pagina: “La moglie dell’agente ferito: Alfano si fa bello. Il ministro si vanta dell’arresto dell’aggressore. La donna: ‘Merito dei poliziotti, non suo'”.
Su Ingrao un articolo di Mario Cervi: “L’irriducibile che preferì Stalin ai suoi sogni”.
E sul voto in Catalogna un articolo di Carlo Lottieri: “Vittoria separatista. La Catalogna spina per l’Europa”.

Catalogna

Affluenza record al 77% alle elezioni regionali catalane. La vittoria della lista Junts Pel Sì è netta se si guardano i seggi, molto meno se si contano i voti, scrive Francesco Olivo da Barcellona su La Stampa: il 47%, tanti in un voto regionale, pochi in un plebiscito, come è stata ribattezzata questa elezione. “La Catalogna, pur spaccata a metà, ha scelto gli indipendentisti, sbattendo la porta in faccia a Madrid, in un plebiscito mascherato”. In ogni caso questo voto è “un disastro” per Madrid: a uscirne con le ossa rotte è soprattutto il Ppe di Mariano Rajoy che, a tre mesi dalle elezioni, di ferma all’8,5%, doppiato da Ciudadanos (17,9%, ovvero 25 seggi). I socialisti conquistano 16 seggi e “non fa una grand figura” Podemos, che ottiene appena il 9 per cento dei voti. Per governare, il leader indipendentista Artur Mas ha bisogno del sostegno della Cup, un partito anticapitalista favorevole alla disconnessione dalla Spagna, che ha ottenuto l’8%, ovvero 10 seggi.
Il quotidiano intervista Joan Botella, decano della Facoltà di Scienze politiche dell’Università autonoma di Barcellona. Come spiega questo voto? “Dal disgusto politico verso Rajoy, nelle sue due vesti, prima come leader du quel Partito Popolare che, con tanti ricorsi, ha cancellato la riforma dello Statuto catalano, elaborata da Zapatero; e poi verso il Rajoy di governo che da queste parti non si è mai visto”. L’economia c’entra? “La crisi e la situazione sociale in genere ha pesato, anche nel giudizio verso il governo centrale. Questo voto è un’espressione di indignazione. Ricorda gli indignados che hanno dato vita ai movimenti tipo Podemos? Ecco, qui quel sentimento ha preso un’altra forma, nel resto di Spagna ha virato verso la sinistra, qui il catalizzatore è stato l’indipendentismo”.
In prima, sul caso catalano, anche un’analisi di Roberto Toscano: “Madrid pensi a riforme vere (se non è già troppo tardi)”. Toscano cita l’appello lanciato ieri da Josep Borrell, già presidente del Parlamento europeo, socialista e catalano, che ha invitato i governo di Madrid a ristabilire il dialogo e introdurre le necessarie riforme costituzionali, finanziarie e fiscali.

“Terremoto per l’Europa” è il titolo di un’analisi di Lucio Caracciolo in prima su La Repubblica: “se davvero, come promesso, il fronte secessionista riuscisse a vincere le resistenze di Madrid, la Catalogna si troverebbe fuori contemporaneamente dalla Spagna, dall’Unione europea e dall’eurozona”.
Il quotidiano intervista Josep Borrell, ex presidente del Parlamento europeo, socialista catalano, secondo cui “la secessione sarebbe solo un salto nel buio”. Commenta così lo slogan ricorrente del movimento indipendentista ‘La Spagna ci deruba’: “Non si può dire che la Catalogna sia depredata fiscalmente”, “è una regione più ricca della media e contribuisce in proporzione superiore rispetto a ciò che riceve dall’amministrazione centrale. Però questa è una lamentela che si sente esattamente uguale in Veneto o in Baviera, in tutti i Paesi in cui c’è una regione più ricca”. Se la Catalogna resta fuori dall’Ue e presenta la richiesta di ammissione? Borrell: “Per poter chiedere di entrare, dovrebbe essere uno Stato. Lo dovrebbe riconoscere il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, cosa che non accadrà”.
A pagina 4, intervista al filosofo Fernardo Savater: “Questo voto è stato un imbroglio, un referendum l’avrebbero perso”, “Sono elezioni regionali, ma i secessionisti le hanno trasformate in maniera fraudolenta in un plebiscito sull’indipendenza. Non credo a un popolo catalano mitologico. Non si può trattare sulla dissoluzione del Paese”, “Il governo centrale può negoziare ciò che gli è permesso dalle leggi: può al limite dare maggiore autonomia”, “L’opzione separatista è nata per coprire gli scandali del leader nazionalista Jordi Pujol” (Savater spiega le origini di quanto accaduto con la crisi economica e con l’emergere di gravi casi di corruzione in Catalogna: “quando le cose andavano bene e non c’erano scandali in vista, l’indipendentismo in Catalogna era una questione quasi folkloristica. Poi è arrivata la recessione, il governo Mas ha messo in pratica drastici tagli alla spesa sociale e, al tempo stesso, il leader storico dei nazionalisti Jordi Pujol è stato travolto da uno scandalo monumentale”).

Anche il Mattino intervista Savater. Segnala che la Cup, cioè il partito di estrema sinistra pro-indipendenza che è determinante per la maggioranza di Arturo Mas ed ha dunque “la chiave della governabilità”, “ha già detto che non voterà la sua investitura. Potrà imporre un suo presidente perché i suoi voti sono determinanti”. La lista Junts Pel Sì ha ottenuto la maggioranza dei seggi “ma ha ottenuto un risultato peggiore delle elezioni del 2012”, “non si può parlare di vittoria schiacciante né di plebiscito per l’indipendenza”, dice.

Il Corriere offre il parere di Javier Cercas, scrittore spagnolo, che definisce “solo populisti mascherati” gli indipendentisti. Cercas, che si trova all’estero, ha votato per corrispondenza ed ha “certamente scelto il fronte favorevole alla secessione. ‘Io non sono equidistante. Il principale responsabile di questa situazione assurda è il governo di Artur Mas che ha scelto una linea sbagliata nonostante la Catalogna abbia una autonomia straordinaria. In nessun’altra situazione esiste la quantità di potere che esiste da noi. Educazione, polizia, un’autonomia enorme che è stata utilizzata per propagandare l’indipendenza. È stata una mancanza di lealtà. Hanno utilizzato e utilizzano il denaro pubblico per arrivare all’obiettivo dell’indipendenza’”. Dice anche che quello che non gli piace è “‘quando si dice che la Catalogna andrà benissimo senza la Spagna e si nega il fatto che la Catalogna uscirebbe dall’Europa. Questo non è vero. Tutto il mondo lo sa’”. Dice di essere “dipendentista, per la dipendenza della Spagna dall’Europa, per la dissoluzione politica della spagna in Europa”.

Sul Giornale Carlo Lottieri, citando Scozia e Qebec, segnala che “nel mondo anglosassone si considera normale consegnare al popolo decisioni tanto spinose” mentre in Paesi come la Spagna o anche l’Italia “permane una anacronistica sacralizzazione delle istituzioni”. Il risultato di ieri è “un colpo all’idea di Stato e due all’idea di Europa”, perché fondata sugli stati nazionali, scrive Lottieri.

Isis, Siria

L’Unità, pagina 2: “Raid francesi sulla Siria. Attaccate basi Isis”, “Hollande muove i jet: ‘Contro i terroristi colpiremo ogni volta che è in gioco la nostra sicurezza nazionale’. Oggi faccia a faccia Obama-Putin”. Umberto De Giovannangeli sottolinea che Hollande ha specificato che i jet francesi hanno attaccato e distrutto un campo di addestramento nella Siria orientale perché rappresentava una minaccia per la “sicurezza nazionale”, che la missione ha coinvolto sei aerei e che non ci sono state vittime civili. Il quotidiano intervista Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa: “francamente – dice – sia sul piano strettamente militare che su quello politico non riesco a capire l’azione francese, soprattutto perché condotta in modo assolutamente non coordinato con gli altri Paesi dell’Unione europea”; questa azione “è poco incisiva dal punto di vista militare e non in sintonia con l’iniziativa politico-diplomatica che la comunità internazionale sta portando avanti per cercare una soluzione condivisa alla guerra in Siria. Sul piano strettamente militare, va detto che l’azione non può essere soltanto aerea. Per avere un impatto significativo, le operazioni militari devono essere di tipo assolutamente integrati se si vuole conseguire un obiettivo prima tattico e poi strategico. Il che significa che ci vogliono, purtroppo, gli ‘scarponi sul terreno’, a prescindere dalla loro nazionalità”. A pagina 3: “Renzi contrario al blitz: ‘Evitiamo una Libia-bis’”, “Il premier da New York ribadisce le critiche all’iniziativa di Hollande: ‘Serve una strategia’. E agli investitori: ‘Saremo più forti della Germania’”.

Sul Messaggero una intervista a Lawrence Korb, ex viceministro della difesa durante Reagan che “guarda con fiducia” agli attacchi aerei francesi. Ma dice che “sarebbe un errore” mandare militari occidentali sul terreno “perché servirebbe solo ad alimentare la retorica di una guerra santa tra Oriente e Occidente”. “La controffensiva deve maturare all’interno del mondo islamico”. Dobbiamo oggi fidarci di Assad? “Il delegato britannico al congresso di Versailles Harold Nicholson disse: ‘Le nazioni non hanno alleati o nemici perenni: solo i loro interessi sono permanenti’ (…). Il dibattito sulle sorti di Assad invece sta paralizzando l’efficienza dell’azione alleata in Siria”.

La Repubblica: “Siria, primo raid francesi. ‘Colpita una base Is, progettavano attentati’”, “Per Parigi ‘è legittima difesa’. Ma l’Italia è contraria. Renzi: ‘No ai blitz, evitiamo una nuova Libia’”.

Sul Corriere Stefano Montefiori si chiede perché i raid, “annunciati da 20 giorni, sono cominciati proprio ieri? Accanto ai motivi di fondo, e cioè la necessità di mostrare ai francesi la risposta dello Stato alla minaccia terroristica, c’è la grande attività diplomatica in corso a New York, con il bisogno della Francia di avere voce in capitolo nelle trattative. La linea del ministro degli Affari esteri Laurent Fabius, di equidistanza contro il dittatore siriano Bashar El Assad e contro l’Isis, sembra ormai superata. Vince la posizione del ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian, che vede la priorità nella lotta all’Isis, senza più considerare la partenza di Bashar come la condizione preliminare a una qualsiasi soluzione. La Francia così spera di rompere il suo isolamento diplomatico, nel momento in cui il presidente russo Vladimir Putin cerca di formare una nuova coalizione anti-Isis che comprenda anche il regime siriano”.
Sul Corriere viene intervistato l’esperto di terrorismo David Thomson. Dice che sarebbe difficile giustificare i raid francesi se non sotto la voce “legittima difesa internazionale” secondo il capitolo VII della Carta Onu. Dice che nella zona di Dair El Zhor, quella colpita dai francesi, “ci sono in effetti molti jihadisti francesi” ma i raid hanno effetto limitato, “si tratta di una comunicazione politica con scarso impatto militare”, “azioni simboliche” che possono anche essere “controproducenti”. Hollande ha agito per ragioni di “politica interna”, secondo i sondaggi l’opinione pubblica vuole che si faccia qualcosa contro l’Isis, sono “raid preventivi pensati per il momento in cui il Paese sarà vittima dell’attentato su larga scala che tutti si aspettano”.

Su La Repubblica lo “scenario” firmato da Federico Rampini: “Obama e Putin all’Onu, il risiko sul futuro di Assad per il difficile disgelo”, “Oggi il primo faccia a faccia in due anni, dall’inizio della crisi in Ucraina”, “Il presidente russo torna alle Nazioni Unite dopo dieci anni”, “Washington deve fare i conti con gli errori della strategia anti Is. Mosca sta tentando l’escalation”.

Umberto De Giovannangeli su L’Unità sottolinea che Putin, intervistato da alcuni network americani, alla vigilia del delicato incontro a New York, ha ripetuto che il presidente siriano Assad merita l’appoggio internazionale perché sta combattendo contro organizzazioni terroristiche: Damasco dovrebbe quindi essere inclusa negli sforzi internazionali per la lotta all’Isis. Putin ha anche criticato il piano Usa per l’addestramento di circa 5.400 ribelli contro l’Is: “si è scoperto -ha detto Putin- cje solo 60 di questi combattenti sono stati addestrati e solo 4 o 5 hanno armi”, “gli altri hanno abbandonato le armi americane per unirsi all’Isis”.

Su La Stampa, un articolo da Mosca di Mark Franchetti: “Così Putin sfida Washington: ‘Senza di noi vincerà l’isis’”, “Dopo 10 anni di assenza oggi il leader russo sarà all’Onu e vedrà Obama. Ma la vera partita per Mosca e far scivolare in secondo piano l’Ucraina”.
E a pagina 7 il “retroscena” di Fabio Martini da New York, dove si trova il presidente del Consiglio: “L’appoggio di Renzi alla Russia per tornare protagonisti in Libia”, “Il premier cerca più autonomia nel Mediterraneo. Colloquio con Rouhani”, il presidente iraniano. Renzi ammonisce contro il rischio di una Libia-bis, si richiama alla coalizione internazionale, si smarca dall’iniziativa francese. E sulla Libia “finisce per usare parole che riecheggiano gli argomenti dei russi, che da anni rinfacciano al fronte ‘atlantico’ di aver destabilizzato tutta l’area, con la cacciata di Gheddafi. Uno smarcamento che porta l’Italia a guardare con crescente interesse, senza sposarlo, al protagonismo russo. Ed infatti è anche all’iniziativa russa in Siria che Renzi allude, quando spiega: ‘Il processo di riavvicinamento degli Stati Uniti e della Russia è fondamentale perché Mosca è un attore chiave nello scacchiere internazionale, soprattutto nel Medio oriente e nel Mediterraneo’”.
A pagina 7 anche un articolo di Paolo Mastrolilli da New York: “L’America chiede aiuto a Roma: ‘Parlate con Mosca e teheran’”, “A Washington gli incontri con i diplomatici italiani: convinceteli a cooperare. La Casa Bianca vincola il dialogo al rilascio dei detenuti Usa in Iran”.
E in prima pagina l’analisi di Stefano Stefanini: “Obama-Putin, il dialogo inevitabile”: “tutte le anticipazioni indicano la Siria come tema centrale dell’incontro. Putin sostiene che l’appoggio ad Assad è l’unico modo per estirpare l’Isis. Gli americani non sono del tutto sordi a questa logica. Non ci vuol molto ad accorgersi che, per la sicurezza internazionale, lo Stato islamico e Al Nusra, una filiazione di Al Qaeda, sono più pericolosi della brutale dittatura di Assad”.

Sul Corriere una analisi di Franco Venturini sull’incontro di oggi tra Putin e Obama al Palazzo di Vetro Onu. Venturini ricorda che Putin ha “mosso per primo sulla scacchiera che l’indecisionismo siriano di Obama ha da tempo paralizzato”, fornendo aiuti militari per “sostenere il traballante Assad, suo alleato storico, e mettere in sicurezza l’asse Damasco-Homs-Latakia che potrebbe in futuro rappresentare l’ultima trincea del presidente assediato”, assicurando così a Mosca “un ruolo di primo piano (e il porto di Tartus sul Mediterraneo) in un eventuale negoziato”. Ha così costretto la Casa Bianca a muoversi – con ritardo – dal suo “impossibile progetto di battere l’Isis adoperandosi nel contempo per far cadere Assad. Oggi la posizione americana è diventata più realista, e ha preso corpo una strategia che anche al Cremlino potrebbe non dispiacere: la collaborazione russo-americana contro l’Isis sarebbe fattibile nei tempi brevi se Mosca accettasse l’allontanamento di Assad in una seconda fase”. Tuttavia “non vedremo nascere all’Onu una improvvisa cordialità russo-americana, come confermano le critiche rivolte da Putin a Obama poche ore prima del loro incontro. Basterà un consenso pragmatico sulla emergenza politica e umanitaria che si pone in Siria, e sulla comune priorità militare di combattere l’Isis. In attesa che lo faccia, almeno in Iraq, anche l’Italia”.

La Repubblica mette a confronto le opinioni del professor Olivier Roy, orientalista francese (“I raid non bastano, ma l’Europa non ha alleati sul terreno”, “Nessuna escalation, l’Occidente è in una impasse”, “L’unico modo di proteggerci dal terrorismo sarebbe blindare la frontiera tra Turchia e Siria”) e di John Bolton, ex ambasciatore Usa all’Onu con l’Amministrazione di George W. Bush (“Barack sbaglia strategia in Siria. E il Cremlino ne approfitterà”, “Ormai è chiaro che Putin sta cercando di restituire alla Russia un ruolo di grande potenza”).

Ingrao

Su La Repubblica, pagine 14 e 15: “Addio Pietro Ingrao, grande giovane vecchio del comunismo”. È Filippo Ceccarelli a raccontare “il personaggio”: “Eretico, coscienza critica della sinistra, partigiano. Fu padre della Repubblica e presidente della Camera. Aveva compiuto cento anni”, “Onestà assoluta. Mai un lamento. Ostinazione senza rigidità. Ingrao perseguì l’utopia dell’ideale. Non ci fu avversario che non lo rispettò”. Il quotidiano intervista Rossana Rossanda, che dice: “Per proteggere il partito rinunciò a cambiare la storia”. Ingrao disse di essersi pentito di aver votato per l’espulsione del gruppo de “Il Manifesto”. Rossanda dice: “Affermò che si trovò solo nella battaglia e che noi l’avevamo abbandonato. Non andò così”.
Guido Crainz, su La Repubblica in prima: “Pietro Ingrao e la grande eresia”. Scrive Crainz: “la grande eresia di Pietro Ingrao fu quella di dire che non si poteva comprendere e trasformare quel mondo con il centralismo (anti)democratico vigente nel partito. Fu il tema che portò sino alla tribuna dell’XI congresso del Pci, nel 1966, nonostante i durissimi attacchi che aveva ricevuto all’interno del gruppo dirigente e sapendo bene che avrebbe pagato di persona. Fu sconfitto, e quella sconfitta lo segnò in profondità. Se non si comprende cos’ha significato essere ‘comunisti italiani’ non si comprende neppure perché accettò, poco più tardi, l’espulsione del gruppo, cresciuto alla sua scuola, che aveva fondato ‘Il Manifesto’”.

L’Unità dedica 7 pagine alla figura di Ingrao. La testimonianza di Achille Occhetto: “Il mio rammarico è di non averlo convinto sulla svolta. Ma fu uno scontro bello e leale”.
Il quotidiano pubblica poi il discorso che Alfredo Reichlin ha pronunciato il 31 marzo scorso alla Camera dei deputati, in occasione dei cento anni di Ingrao: “colui che le dicerie consideravano il delfino di Togliatti è lo stesso che comincia a sentire l’insufficienza della grande lettura togliattiana dell’Italia come Paese arretrato in cui il compito storico dei comunisti era risolvere le grandi ‘questioni’ storiche: il Mezzogiorno, la questione agraria, il rapporto col Vaticano. Questa lettura, insieme, non riusciva più a dare conto delle trasformazioni che cominciavano a cambiare radicalmente il volto dell’Italia: il passaggio da Paese agricolo a Paese industriale, una biblica emigrazione che svuotava le campagne del Sud, l’avvento dei consumi di massa, la rivoluzione dei costumi”.
Alle pagine seguenti, un editoriale che Ingrao scrisse per l’Unità il 16 novembre del 1990 sulla crisi aziendale Olivetti e sugli operai che diventavano ‘cose’; un testo di Pietro Spataro (“Politica, reportage, cultura. Così Ingrao inventò L’Unità”, “Scelto come direttore nel ’47 da Togliatti per fare dell’organo di partito il Corriere della Sera della classe operaia, realizzò un giornale moderno e aggressivo, con le migliori firme italiane”).

Su La Stampa a ricordarlo sono Riccardo Barenghi (“Pietro Ingrao, il comunista che voleva la luna”) e Umberto Gentiloni (“L’uomo del Pci attratto dai movimenti”, “Nel ’56 appoggiò l’invasione sovietica in Ungheria, poi si pentì: ‘imperdonabile’”). E il direttore Mario Calabresi intervista l’ex presidente Giorgio Napolitano: “Avevamo le stesse passio, lasciate per gettarci nella politica”, “Il ricordo del Presidente emerito della Repubblica, che fu suo avversario: ‘Una persona di assoluta limpidezza morale, mai un interesse personale’”, “la più aspra polemica fra noi fu alla vigilia dell’XI congresso del Pci, nel 1966, due anni dopo la morte di Togliatti. La scomparsa di un leader che aveva garantito una guida unitaria aprì una stagione nuova in cui emersero posizioni apertamente conflittuali”, “ci furono momenti in cui manifestò una certa tendenza schematica nell’analisi e nelle conclusioni, gli imputavo di non avere sufficiente duttilità, ma sono cose su cui non si può tornare con slogan passati”.

Su Ingrao Il Mattino intervista Antonio Bassolino, che ama definirsi “berlingueriano e ingraiano”: “‘Pietro mi ha insegnato l’inquietudine critica’”. Il Corriere intervista Luciana Castellina (Ingrao votò per l’espulsione sua e degli altri del gruppo del Manifesto dal Pci nel 1969). “Pietro era convinto che bisognasse restare nel ‘gorgo’, non isolarsi dal resto del popolo”. “Ci furono momenti di freddezza, di tensione” ma “poco alla volta ci siamo riavvicinati. L’amicizia vera non si è mai interrotta”.

Sul Messaggero Giuliano Ferrara: “Papa buono della sinistra, andrà di filato in Paradiso”. Ingrao “come tutti i veri demagoghi non sapeva di esserlo”, “aveva un sentimento della storia pieno di ansie paradisiache”. Era un “uomo pieno di grazia”, “ha dato ai figli i nomi del suo arcobaleno: Chiara, Bruna, Celeste…”.

Riforme

Sul Messaggero: “Riforme, il governo: contro l’ostruzionismo misure eccezionali”. Si dà conto delle parole del ministro Boschi che ieri ha detto “non sarà una passeggiata di salute ma ce la faremo” e che – visto che non era mai successo che su un provvedimento fossero proposti 75 milioni di emendamenti – “dovremo trovare soluzioni eccezionali” per affrontarli, “non possiamo pensare che si blocchi il Parlamento, non è una questione di governo ma di democrazia”.

Un “restroscena” sul Corriere è dedicato alle mosse che farà Grasso, che “preme per la mediazione” ma “potrebbe non ammettere in blocco le richieste” di modifica. “Negli ambienti di Palazzo Madama si sottolinea come l’azione diplomatica e di moral suasion abbia condotto al ritiro di una prima tranche di oltre 10 milioni di emendamenti leghisti e di 60 mila emendamenti di Sel. Calderoli ora sta trattando su alcuni temi: sulle funzioni del Senato e delle Regioni e sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali. Se rientrasse l’ostruzionismo, la massa degli emendamenti di merito si ridurrebbe a tremila”. Ostruzionismo a parte, restano altri nodi, come la richiesta di “intervenire sulle norme transitorie, per chiarire come si eleggeranno i consiglieri regionali senatori la prima volta e per definire la platea di elettori del presidente della Repubblica.
Il Corriere intervista il senatore Pd Vannino Chiti, esponente della minoranza, che dice che “la riforma ha fatto due grandi passi avanti” su funzioni e composizione del Senato, ma “occorre intervenire sulle norme transitorie e sull’elezione del presidente della Repubblica”.

Forza Italia

Sul Corriere: “Forza Italia riscopre l’unione: due anni per prendere il Paese”. Si dà conto dell’intervento di Berlusconi alla scuola di formazione politica organizzata da Mariastella Gelmini dove “il Cavaliere non parla di ‘Altra Italia’, lo spauracchio dei dirigenti azzurri, dei suoi compagni di strada politica che gli sono rimasti a fianco in tempi anche piuttosto turbolenti. Dice ‘Forza Italia’ e questo antico nome è una specie di balsamo sulle ferite di chi già si sentiva pronto a entrare in ospedale per i postumi della rottamazione. Così, il discorso del Cavaliere ha un sapore dolce di casa per tanti che temevano un futuro da senzatetto”. A sentire il suo discorso ci sono Romani, Gasparri, Bernini, Marin, la Carfagna e la “quasi azzurra Viviana Beccalossi (‘sono di Fratelli d’Italia, ma qui mi sento a casa e per me Berlusconi è il mio presidente’)” e anche Nunzia de Girolamo appena tornata a casa. “Paolo Romani annuncia che ‘per due anni non si vota di sicuro’, ciò che poco dopo lo stesso Berlusconi confermerà e che è un’altra ragione di sollievo per questo partito in cerca di riassetto e di respiro dopo cadute, fughe, cambi di schieramento”.

E poi

Sul Corriere Gian Guido Vecchi dà conto delle parole pronunciate ieri dal papa a Filadelfia: “Mi dispiace profondamente. Dio piange'”, rivolto a cinque vittime della pedofilia, tre donne e due uomini, ricevuti di prima mattina. E poi ai vescovi: “‘I crimini e i peccati degli abusi contro i minori non possono essere mantenuti in segreto più a lungo, prometto che tutti i responsabili pagheranno'”. Con le vittime degli abusi “ha parlato uno ad uno. A giugno ha approvato una proposta dalla Commissione per la tutela dei minori da lui istituita: il reato canonico di ‘abuso d’ufficio episcopale’ e una sezione del tribunale vaticano per giudicare i vescovi insabbiatori. ‘Accountability'”, responsabilità”.
Sul Corriere si parla delle auto per polizia e carabinieri italiani. L’appalto è stato vinto dalla Seat ma il problema è che tra le auto che potrebbero essere richiamate dalla Volkswagen per la “ripulita” alla centralina sulle emissioni ci sono anche le Seat in dotazione alle forze dell’ordine italiane. Le auto, già consegnate, sono del tipo “Leon” con motore 2.0 Tdi da 150 cavalli, Euro 5, “oggi nel mirino per il software in grado, durante le omologazioni in laboratorio, di fornire dati fasulli sulle emissioni di ossido di azoto. Quindi, a loro insaputa, polizia e carabinieri sono in qualche modo (il termine è inappropriato ma suggestivo) ‘fuorilegge'”.

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