La Chiesa alla prova del Sinodo.
In trincea o all’ascolto della società?

«La nazione non è un museo, ma un’opera collettiva in permanente costruzione, in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche e religiose». Così disse Francesco sei anni fa, avviando il sofferto cammino che finalmente, dal 24 al 27 maggio, dovrebbe portare l’assemblea generale dei vescovi italiani a convocare per la prima volta un sinodo nazionale. È una prospettiva che se attuata con sincerità e capillarità territoriale potrebbe rappresentare l’avvio di un altro Piano di Ripresa e Resilienza, quello della coscienza collettiva, altrettanto necessario, visto che la crisi non è solo economica.

Per capirne la portata non solo ecclesiale occorre prima capire di cosa si tratti. Sinodo vuol dire “camminare insieme” e coinvolge sia i vescovi e i presbiteri che i fedeli laici, i battezzati. Dunque il sinodo, che può essere deliberativo, cambia il soggetto di riferimento: la Chiesa sinodale non è una Chiesa clericale, ma è la Chiesa di tutto il popolo di Dio. Questa ecclesiologia – Chiesa di tutto il popolo di Dio – si è affermata con il Concilio Vaticano II e lo si coglie benissimo con la riforma liturgica, quella che girò gli altari. Girando gli altari in modo che il celebrante non desse più le spalle ai fedeli si passava alla celebrazione comunitaria: tutti diventavano partecipi della celebrazione, non c’era più il prete che celebrando solo lui guidava il gregge dei fedeli. Il sinodo è dunque il passaggio da una Chiesa verticale e piramidale a una Chiesa assembleare. Questa Chiesa il Concilio l’ha definita “tutta ministeriale”: “ministero” per la Chiesa vuol dire “servizio” e tutti svolgono un servizio, laici e ordinati.

Dopo il Concilio si imboccò una via di avvicinamento al modello sinodale con il Convegno Ecclesiale del 1976, aperto al ruolo decisivo dei laici. Ha scritto sulla rivista che a lungo diresse l’ex direttore de La Civiltà Cattolica padre Bartolomeo Sorge: «Si deve constatare che nei successivi quattro Convegni ecclesiali i laici non svolsero più quel ruolo di corresponsabilità che tanto proficuamente avevano esercitato durante il Convegno del 1976 applicando lo stile del con-venire». È molto significativo che una grande figura del cattolicesimo di allora, Pietro Scoppola, esprimesse perfettamente lo spirito sinodale nello spirito che condusse al convegno: Pietro Scoppola – che nel convegno del 1974 presiedette l’assemblea della zona est di Roma – sostenne, rievocando l’evento al momento della scomparsa del cardinale vicario di Roma: «non è che Poletti avesse in testa un disegno, un progetto da realizzare, che volesse imporre qualcosa. Voleva dare alla città la possibilità di esprimersi». A quell’iniziativa il cardinale era stato mosso, con l’assenso del papa, dalla preoccupazione per una Roma che si avvertiva ampiamente scristianizzata. La convocazione era espressione di un’ansia pastorale, rigenerata dalle prospettive aperte dal Concilio Vaticano II, capace di inaugurare stili ed esperienze inimmaginabili solo qualche anno prima. Ma, come ci conferma il testo di Bartolomeo Sorge, quella strada fu abbandonata. I successivi Convegni Nazionali furono visti piuttosto come l’occasione propizia per i vescovi di comunicare al popolo di Dio che è in Italia, con autorità – occupando il posto che gli compete per istituzione divina –, «il programma pastorale per il successivo decennio, elaborato dalla Cei».

Dunque quell’Incontro Ecclesiale non era un progetto, parola che invece divenne decisiva, centrale, dal 1997, quando con il cardinale Camillo Ruini si imboccò la strada del “progetto culturale”. Indirizzato a vescovi e ordinati, il progetto culturale del cardinale Camillo Ruini indicava un’elaborazione di vertice da trasmettere alla base. Lo rende esplicito lo stesso documento del 1997 dove, affermato che la fede è cultura e che il “progetto” riguarda tutto il popolo di Dio, si esplicita che «l’attuazione concreta del progetto è affidata anzitutto alla vita quotidiana della comunità cristiana e coinvolge la responsabilità di vescovi, presbiteri, operatori pastorali in genere». Varato negli uffici della Conferenza Episcopale il progetto doveva dunque discendere nelle diocesi tramite i vescovi e i loro collaboratori.

Nel 2015, al Convegno Ecclesiale di Firenze, Francesco, che si disse innamorato di una Chiesa inquieta, ha chiesto ai vescovi italiani di imboccare la strada del sinodo. Il suo punto di vista era chiaro: «non dobbiamo essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente. Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti».

Queste parole furono seguite da anni di silenzio e poi dalla scelta dell’autorevole La Civiltà Cattolica di tornare nel 2019 sulla richiesta di un sinodo. Si è trattato di diversi articoli e di una cruciale intervista del direttore, padre Antonio Spadaro, a Giuseppe De Rita, che aprì il Convegno Ecclesiale del ‘76 e che ha spiegato così le scelte che hanno fatto abbandonare la  prospettiva sinodale: «A distanza di tempo, e pensando al rinserramento degli anni Ottanta e Novanta, quella spinta alla mobilitazione collettiva appare un’eccezione ‘epocale’, qualcosa di anomalo rispetto al tran tran quotidiano della vita ecclesiale, e anche rispetto all’appariscente politica ecclesiastica sui cosiddetti ‘valori non negoziabili’. Eppure non era un’eccezione, anzi quella mobilitazione collettiva era coerente con una società italiana, quella degli anni Settanta, che era piena di tensioni, contraddizioni, conflitti sociali e dialettiche culturali. In un clima che imponeva ai vari soggetti – individuali e collettivi – l’imperativo di osare, pur di non restare nell’irrilevanza della mediocrità. Sono gli anni dell’esplosione della piccola impresa, dei distretti industriali, dei consumi di qualità, dell’avvio della stagione del made in Italy. E anche – è bene ricordarlo – gli anni di una conflittualità diffusa, sia sindacale – ricordiamo gli autunni caldi – sia di piazza». Sempre De Rita, descrivendo culturalmente quel tempo, ha affermato: «Era da tempo in corso un dibattito, diciamo, tra gli ottimisti e i pessimisti post-conciliari. E in quel preciso momento dominava un pessimismo, con venature di non speranza, che mi sapeva proprio di pessimismo borghese; di declino della borghesia come gruppo di spinta, mentre cresceva l’imborghesimento di massa; di illusione borghese di poter e dover dare testimonianza con le parole, mai con l’impegno e le opere».

Si può permanere nell’illusione borghese? Forse se si sceglie come raffronto chi numericamente sta peggio si potrebbe. Ma l’emergenza Covid ha detto il contrario e sta dando riscontro, sei anni dopo, all’impellenza della richiesta sinodale. Nella persistente resistenza dell’episcopato italiano, Francesco è tornato a intervenire nuovamente per ribadire con toni più fermi la necessità di un sinodo italiano. A quel punto è arrivata la svolta, annunciata a Radio Vaticana dal presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Bassetti, il 27 febbraio 2021: «L’incontro con Papa Francesco è andato molto bene. Abbiamo parlato per un’oretta insieme e aveva lo scopo primario di incontrare tutta la presidenza della Cei perché ci sono due vice-presidenti che durante l’assemblea di maggio lasceranno il loro incarico perché sono già passati 5 anni e anche di più: l’anno scorso non abbiamo fatto l’assemblea. Questi vice-presidenti che lasciano sono monsignor Franco Brambilla e monsignor Mario Meini. Quindi era un po’ l’occasione anche di salutare il Santo Padre da parte loro. Poi naturalmente. siccome il Papa il 30 gennaio disse ai partecipanti all’incontro promosso dall’ufficio nazionale del catechismo più o meno queste parole: occorre cominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi e anche questo processo sarà una catechesi, allora abbiamo preso lo spunto da questo invito e abbiamo preparato una bozza che abbiamo sottoposto stamattina al Santo Padre per cominciare già a dare un incipit a questo movimento sinodale». Bozza, cominciare, incipit… A questa estrema cautela è seguito un nuovo intervento di Francesco nel corso del suo intervento davanti all’Azione Cattolica, il 30 aprile di quest’anno, ma non si è saputo di pronunciamenti di vescovi.

Ora ci siamo: la spinta propulsiva di Francesco sta per portare la sua Chiesa alla scelta di incardinare i tempi della celebrazione sinodale. Avrebbe certamente rilievo per questioni interne, come le parrocchie di domani, visto che sempre più spesso si diluiscono in unità pastorali di anno in anno più grandi, o i seminari di domani, che difficilmente potranno mantenere la separazione tra maschi e femmine. Ma in termini culturali diverrebbe cruciale per tutta la società italiana se l’agenda sarà, come chiesto, “aperta”. Nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium Francesco ha indicato quattro principi cardine: «Il tempo è superiore allo spazio», che vuol dire che i processi sociali o culturali sono più importanti dell’occupazione di spazi, o delle norme; «il tutto è superiore alla parte», che vuol chiaramente indicare la priorità del vero bene comune da cercarsi nella riconciliazione delle diversità; «la realtà è superiore all’idea», una decisiva indicazione di superamento di idealismo e ideologismi che spesso si aggrappano a presunti sistemi di interpretazione della realtà che antepongono l’interpretante all’interpretato; «l’unità prevale sul conflitto», che sembra poco ma è tutto quel che precede.

Se noi proviamo a immaginare un sinodo su queste indicazioni abbiamo la concretizzazione del valore per tutta la società italiana di una Chiesa che scegliendo di uscire dai propri confini offra al Paese risorse culturali ed etiche per superare quello “slabbramento” di cui ha parlato il cardinale Bassetti. Proviamo a immaginare una Chiesa che oltre alla questione della benedizione delle unioni tra gay discuta del rapporto tra centri storici e periferie, della solidarietà intergenerazionale, di tavoli di concertazione tra parrocchie o diocesi e Ong, enti locali, sindacati e servizi socio-sanitari sulle emergenze territoriali. Questo deriverebbe da un confronto sinodale sui bisogni dei singoli territori, delle emergenze più avvertite e della visione cristiana davanti ad esse. Un esempio: Francesco ha raccomandato tempo fa ai conventi, spesso quasi abbandonati, di aprirsi ai profughi. Non è accaduto se non in pochi casi. E se un sinodo diocesano ritenesse di deliberare che tutte le sue strutture ecclesiali si aprano ad alcuni dei nuovi poveri, italiani e no?

Il sinodo proposto da Francesco dovrebbe essere diffuso sul territorio, “dal basso e dall’alto”. Francesco ha certamente ottenuto dal presidente della Cei l’impegno citato e che l’imminente assemblea discuta del sinodo, infatti risulta che sia allo studio il documento di base, ma ciò che si nota è una scarsa passione dei vescovi per il tema. Nostalgia del clericalismo, della centralità burocratica? Eppure ciò di cui parlò Pietro Scoppola è esattamente ciò di cui ha bisogno l’Italia oggi per ritrovare un collante culturale: “esprimersi”, confrontarsi su valori e urgenze. Di quali altri polmoni culturali, etici, civili, dispone il nostro Paese per affrontare un’emergenza, che non è solo economica, come quella nella quale ci ritroviamo? Qui si coglie l’affanno tra chi ritiene prioritario difendere spazi, evitando legislazioni sgradite, e chi prospetta processi, nella convinzione che le radici cristiane è bene che penetrino nella realtà più che nei documenti.

Una Chiesa in uscita, ospedale da campo, pronta a collegarsi alle periferie esistenziali e non solo geografiche del nostro Paese, è forse l’unica realtà esistente in grado di riattivare un circuito sociale virtuoso. Ma le resistenze poggiano soprattutto sulle certezze del clericalismo e sull’idea che preservare il carattere cattolico del Paese passa più da un’interlocuzione politica capace di contenere la secolarizzazione piuttosto che nell’immergersi nella realtà dei territori, con l’inquietudine cara a Francesco. Il cardinale Bassetti ha giustamente indicato quattro fratture: sanitaria, sociale, educativa e delle nuove povertà.  Ha scritto Marcello Neri su Settimananews: «Se la stasi della Chiesa italiana, imbevuta di retorica bergogliana proprio per non toccare nulla del suo impianto complessivo, ha avuto un che di stonatura fin dal principio, essa è divenuta ecclesialmente e civilmente insopportabile nel corso di quest’ultimo, lungo anno della pandemia. Una Chiesa locale oggi non può permettersi questo attendismo esasperato – non tanto per un’eventuale mancanza di fedeltà al magistero del papa, quanto piuttosto per ben più radicali ragioni di una sopravvivenza un minimo sensata nella vita del paese e davanti alla fede dei credenti».

 

Foto: Vincenzo PINTO / AFP.

  1. Sono piuttosto disincantata su queste “parole d’ ordine”: Sinodo, ponti, muri, ultimi, pecore, sporcarsi le mani. Non sento il parlare lingue nuove, ma un vecchio linguaggio tendente paternalisticamente ad inculcare concetti, pur con buone intenzioni.
    I Sinodi Diocesani si fanno con i fedelissimi coinvolti all’ ultimo momento a sottoscrivere documenti fatti dal clero, poi si confeziona il libro del sinodo …et voilà! Ho trovato interessante inoltre il libro della Scaraffia ” Dall’ ultimo banco”. Ma dopo il libro è stata epurata, o così è sembrato.
    Comunque, auguri

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