Il Primo Emendamento prima di Trump: una norma poco rispettata

L’assassinio di Charlie Kirk e il susseguente dibattito sul rispetto del Primo Emendamento della Costituzione americana hanno aperto molteplici discussioni sul rispetto delle libertà garantite dal cosiddetto Bill of Rights, la raccolta dei primi dieci emendamenti alla Costituzione americana, inseriti per mitigare le sue tendenze centraliste. Il testo di questa prima aggiunta alla carta fondamentale americana è questo: “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”. Queste parole sono quelle che a partire dal suo inserimento nel 1791 ha più fatto discutere. Quanto è stato davvero la stella polare della repubblica a stelle e strisce e quanto invece è stato un richiamo teorico nei fatti non rispettato? Per meglio comprenderlo bisogna ampliare lo sguardo rispetto alle chiare tendenze autoritarie della seconda amministrazione di Donald Trump e tornare proprio agli anni in cui l’emendamento venne approvato.

All’epoca del primo mandato di George Washington, ci si interrogava sui pericoli che la giovane repubblica avrebbe affrontato. L’esempio che veniva alla mente era quello della breve esperienza della Repubblica inglese, finita rapidamente sotto l’autocrazia di Oliver Cromwell.

Per evitare tutto ciò serviva una stampa assolutamente libera: l’ambasciatore a Parigi e futuro presidente Thomas Jefferson scriveva in una lettera nel 1787: “Tra un governo senza giornali e una stampa senza governo, scelgo quest’ultima opzione”. Però la virulenza della lotta politica e il vento della Rivoluzione francese spinsero già l’amministrazione di John Adams ad attuare gli Alien and Sedition Acts nel 1798, una serie di provvedimenti volti a limitare l’influenza del giacobinismo oltreoceano.

Chi criticava i provvedimenti erano soprattutto gli appartenenti all’opposizione del Partito Federalista, formazione politica conservatrice fautrice di una maggiore centralizzazione del potere esecutivo. I democratici-repubblicani, questo il nome di chi si riconosceva nella linea jeffersoniana, affermavano che in realtà si volevano silenziare i giornali contrari al governo e in effetti il Sedition Act sanzionava proprio chi dice “falsità” sul governo. Uno spettro troppo ampio per non violare la libertà di parola. Ma anche con la sconfitta dei federalisti alle elezioni presidenziali del 1800 e la conseguente (e non scontata) pacifica transizione presidenziale, le restrizioni non cessarono.

Di tutti i provvedimenti, l’Alien Enemies Act è rimasto in piedi a tutt’oggi ed è ancora usato dall’amministrazione Trump per perseguire i migranti illegali e lo stesso Jefferson, diventato presidente, in un’altra missiva datata 1807 esprimeva un forte scetticismo sui quotidiani: “Nulla di ciò che viene messo nei giornali può essere creduto. Anzi, la verità si rifiuterebbe di usare un tale veicolo inquinato”. Nonostante questo, però, la libertà di stampa resse sostanzialmente bene i primi cinquant’anni di vita degli Stati Uniti, tanto che la stampa militante (e spesso tendenziosa) divenne anche un segno della vivace vita democratica americana.

Però con lo scoppio della guerra civile nel 1861, la stretta è tornata a farsi sentire e non solo nell’oligarchica confederazione sudista, il governo formato dagli stati scissionisti dove un’élite di piantatori schiavisti gestiva una sorta di “democratura” reazionaria e razzista, ma soprattutto nel governo federale.

Il governo di Abraham Lincoln, la prima amministrazione di matrice repubblicana, mise la censura sulla diffusione di segreti militari mettendo sotto controllo per la prima volta anche le linee telegrafiche che trasmettevano gli articoli dai campi di battaglia fino alle redazioni di New York e Boston. Una misura giustificata, se si pensa che più di una volta i generali confederati sarebbero riusciti a prevedere le mosse del nemico semplicemente leggendo i giornali del Nord.

Al di là di questo, però, la stampa ne fece le spese non solo con le pagine oscurate, ma anche con la chiusura delle testate e l’arresto degli editori. Un giornale del New Jersey venne chiuso per aver scritto che la guerra “non era sacra”. Il segretario di Stato William Seward chiese e ottenne l’arresto del proprietario del Freeman’s Journal, una pubblicazione cattolica conservatrice di New York che difendeva “i sacri diritti degli Stati” a governarsi come meglio volevano. Schiavitù e secessione incluse.  Dopo undici mesi, però James McMaster (questo il nome dell’editore) venne rilasciato senza accuse. Per nulla intimidito, McMaster continuò ad attaccare il governo federale. Il caso più clamoroso però fu quello dell’arresto e deportazione oltre le linee confederate del deputato democratico dell’Ohio Clement Vallandigham, reo di aver criticato durante un comizio le ordinanze militari, in particolare una varata dal generale Ambrose Burnside che affermava che “la simpatia per i traditori non sarebbe stata tollerata”.  L’esponente dem disse apertamente che lui “disobbediva, sputava e calpestava” a pedate, colpendo fisicamente il foglio di carta e accusando “Re Lincoln” di non cercare seriamente la pace. Prima di lui altri politici locali erano finiti in carcere con accuse assai risibili come “linguaggio sovversivo”, “slealtà”, “minacce agli unionisti” e “invito alla diserzione”. Vallandigham, però, venne messo in prigione da deputato federale. Lincoln però decise di commutare la sua pena e di consegnarlo all’esercito confederato. Finita la guerra, però, la stampa riprese il suo corso.

Un’altra guerra molto più mediatica come la prima guerra mondiale, l’amministrazione del democratico Woodrow Wilson nel 1917 in un discorso al Congresso invocò una “decisa” repressione di chi si fosse opposto allo sforzo bellico. Il direttore generale delle Poste Albert Burleson fece una campagna a tappeto contro tutte le pubblicazioni pacifiste e “sovversive”. L’Espionage Act del 1917 diede poi al governo nuovi poteri censori che gli oppositori definirono “tirannici”. Giudizio condiviso dagli storici. Anche allora a farne le spese fu un politico, il leader del Partito Socialista Eugene Debs, che fu costretto a condurre una campagna elettorale per le presidenziali direttamente dal carcere.

Dalla repressione dell’epoca bellica si creò la prima campagna di “terrore” contro i rossi che schiacciò quello che poteva essere un nascente movimento socialista. Anni più tardi lo scrittore Upton Sinclair riflettendo sulla vicenda affermò in una lettera: “Penso che dobbiamo semplicemente riconoscere il fatto che i nostri nemici sono riusciti a diffondere la Grande Menzogna. Non ha senso attaccarli frontalmente; è molto meglio aggirarli”. Il brand del socialismo era tossico; i suoi principi no.

Questa scissione però non bastò in un’altra stagione nefasta per la libertà di parola, ovvero il periodo maccartista, dove la ricerca paranoica di spie sovietiche portò al silenziamento di decine di intellettuali e giornalisti tramite la chiamata in correità di “simpatie comuniste” per chiunque criticasse tali metodi. E a rafforzare la caccia alle streghe ci fu anche una sentenza della Corte Suprema, la Dennis v. United States del 1951, che non ritenne lesivo del Primo Emendamento l’arresto del leader del Partito Comunista Eugene Dennis in quanto le sue opinioni spingevano per un violento cambio di governo negli Stati Uniti, sulla base di una legge del 1940, lo Smith Act, che criminalizzava chi invocava la distruzione del governo americano con la forza, un provvedimento volto a contenere il piccolo movimento fascista statunitense che però è stato maggiormente usato contro i comunisti.

Nonostante innumerevoli episodi di autocensura, non ci sono state vere e proprie limitazioni alla stampa in quel periodo e pochi anni più tardi invece sarebbe iniziata una nuova stagione di libertà civili grazie alla nomina di Earl Warren come nuovo giudice capo della Corte Suprema. Warren, nonostante il background giuridico, non aveva fatto una carriera standard nei banchi dei tribunali minori, se si esclude un periodo come procuratore distrettuale nella contea di Alameda, ed era stato per oltre dieci anni governatore repubblicano della California. Di idee centriste e moderate, a capo della Corte Warren decide di espanderne il ruolo trasformativo, sia per demolire l’impianto giuridico della segregazione razziale, sia soprattutto per demolire tutte le criminalizzazioni del discorso politico che fino ad allora avevano costituito l’ossatura legale del maccartismo.

Con Yates v. United States del 1957 alcuni dirigenti di medio livello del Partito Comunista americano, consci della caduta in disgrazia del senatore McCarthy, fecero un ricorso contro la sentenza Dennis e vinsero. Lì finisce la persecuzione dei comunisti americani ma è con Brandenburg v. United States del 1969 che finalmente diventa illegale perseguire persone per un discorso politico per quanto incendiario possa essere. Principio rafforzato vent’anni più tardi con la sentenza Texas v. Johnson che stabiliva che anche il gesto di bruciare la bandiera era costituzionale, anche grazie al voto del giudice conservatore Antonin Scalia che in quel modo riaffermò la centralità del free speech nella Costituzione americana.

Con la seconda amministrazione Trump tutto questo sembra accantonato anche grazie a una Corte Suprema guidata da un giudice conservatore come John Roberts e che sembra disposta a qualsiasi torsione giuridica pur di dare ragione alla Casa Bianca nell’ennesima stretta autoritaria, magari smontando proprio la sentenza Brandenburg. Un altro problema che prescinde invece dalle tendenze tiranniche del governo federale e dall’acquiescenza della Corte Suprema è rappresentato dalla proprietà oligarchica delle testate giornalistiche sia televisive che tradizionali. E quello è un problema che si può sintetizzare con “obbedienza in anticipo”. Un problema che a questo punto può essere risolto solo da una presa di coscienza collettiva. Come avvenuto già in passato.

 

 

Immagine di copertina: giornalisti e sostenitori alla manifestazione “Il giornalismo non è un crimine” a Manhattan, Stati Uniti, il 1 ottobre 2025. (Foto di Melissa Bender / NurPhoto via AFP)

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