Usa più poveri, ecco l’ago della bilancia tra Obama e Romney

Guardate questo grafico che pubblichiamo qui sotto, è importante. Lo hanno prodotto Margaret Jacobson e Filippo Occhino due ricercatori della Cleveland Fed, la sede della Federal reserve della città dell’Ohio. Utilizzando serie di dati provenienti da fonti diverse – da qui due linee, la rossa e la blu – il declino della percentuale di reddito da lavoro negli Stati Uniti. Le colonne grigie indicano le recessioni. Ad ogni crisi economica i lavoratori hanno ricevuto un colpetto dal quale non si sono ripresi. Le due linee declinano verso il basso negli anni 2000 e con la recessione cominciata nel 2007 la dinamica continua. Non è quindi una sorpresa che durante lo stesso lungo periodo le diseguaglianze siano aumentate: se tra 1967 e 1980 il reddito del 20% più povero è cresciuto più rapidamente che quello del 5% più ricco, dall’avvento alla Casa Bianca di Ronald Reagan ad oggi la ricchezza del quinto più povero è cresciuta dello 0,05% mentre il 5% più ricco a incamerato un 1,67% in più.

Dal 2009 a oggi i salari sono aumentati e l’occupazione pure. Ma le linee blu e rossa continuano a scendere. Come mai? Come ha notato il blogger finanziario della Reuters Felix Salmon, la finanza pesa talmente tanto e i ricchi sono talmente ricchi che dei miglioramenti in termini assoluti per i redditi da lavoro non influenzano l’andamento di una grafico che esprime dati in percentuale. Non solo: il grafico ci dice indirettamente che nello stesso periodo in cui la disoccupazione è un po’ diminuita e la paga oraria è un po’ aumentata, chi possiede rendite e investimenti finanziari ha visto crescere la propria ricchezza più velocemente. Di nuovo.

Partire da questo grafico per parlare della campagna elettorale è utile perché aiuta a capire quale sia la vera partita in gioco. In un recente rapporto il Pew Research Centre – autorevole centro di analisi delle tendenze sociali e demografiche – ha chiamato gli ultimi dieci anni “il decennio perduto della middle class”: il centro delle attenzioni delle campagne elettorali, il corpo sociale sui cui si basa la narrazione politica americana soffre e non capisce perché. Meno persone sentono di far parte di una classe che nel discorso politico non è operaia, non è imprenditoriale o impiegatizia ma uno state of mind. Che attraversa i ceti sociali e che si può dividere almeno in due gruppi: uno piuttosto agiato e uno di cui fanno parte piccoli commercianti, professori di scuola, operai dell’industria e così via. Questi ultimi pesano circa il 30% del totale della popolazione.

Il problema americano contemporaneo è che un numero crescente di costoro vive sul confine della middle class. Le due campagne presidenziali di Obama e Romney mostrano che i candidati ne sono consapevoli. E cercano di parlare proprio a queste persone. Se è in qualche modo scontato che i più ricchi che non liberal e non vivono a New York o San Francisco voteranno soprattutto Romney e che le minoranze voteranno soprattutto Obama, c’è una parte di elettorato bianco che va convinta e che ci si disputa selvaggiamente. Volendo usare categorie geografiche e individuare dei gruppi sociali si tratta dei lavoratori del midwest, dei pensionati della Florida e di altri gruppi di middle class bianca residente in Virginia, North Carolina, New Hampshire e Iowa. Non hanno identici interessi se non quello di smettere di preoccuparsi. Per la loro vecchiaia, il loro posto di lavoro, il debito universitario contratto dai figli, l’assicurazione sanitaria del congiunto malato.

Compito dei candidati è quindi quello di rassicurarli, riconoscere il loro malessere, sentirlo proprio e convincerli che domani è un altro giorno. Obama ci sta riuscendo bene: ammette che c’è molto lavoro da fare, rivendica i soldi pubblici per salvare l’industria dell’auto, la riforma sanitaria (finalmente) e afferma che se si fosse adottato il suo piano per il lavoro le cose sarebbero migliori di come sono. Il suo non è più un messaggio messianico ma di concretezza.

La parte ariosa dei discorsi del presidente riguarda i latinos, gli omosessuali, i giovani. Ma nel complesso la sua è una campagna da presidente che si tira su le maniche e si mette al lavoro, non da profeta idealista. Non solo, la sua organizzazione – c’è una chiara divisione dei compiti – ha fatto un ottimo lavoro nel dipingere Mitt Romney come qualcuno di distante dai problemi della gente, amico di coloro che nel grafico raffigurato qui sopra non ci sono. Uno che la vita dura non sa cosa sia (Obama sì). I poveri, nella campagna di Obama non ci sono quasi. Che si sa, i poveri in America non votano – oppure votano già democratico se non vivono in Stati ultraconservatori che non eleggeranno mai un presidente afroamericano.

Mitt Romney, per ora, non è riuscito nel suo intento di promettere un ritorno a un’era in cui la middle class dormiva sonni tranquilli. Il motivo è semplice: non ha una risposta alle domande che affliggono il Paese. Oggi gli americani non chiedono meno tasse, ma qualche sicurezza. Certo, sentono di pagare troppo la benzina, ma in fondo hanno capito che non ci sono risposte semplici ai problemi. E infine, sentono che l’imbalsamato miliardario mormone non è sincero, che direbbe qualsiasi cosa pur di vincere. E così ha fatto, spostandosi dal centro alla destara per poi tornare al centro, a seconda dei sondaggi e del clima politico. Le gaffe accumulate a vagoni nei mesi di campagna elettorale non hanno aiutato. Da quando si disse pronto a scommettere 10mila dollari (non un centone) con un suo avversario delle primarie, a quando parla delle sue auto di lusso per spiegare che lui l’industria di Detroit la aiuta così, il buon Mitt ha trasmesso la propria immagine per quel che è: un miliardario sceso in politica per ambizione personale. Non cattivo, non estremista, ma non uno che patisce per il Paese o ha una sua idea di come dovrebbe essere.

Il danno finale lo ha fatto il celeberrimo filmato rubato durante una cena di raccolta fondi a Boca Raton in Florida. Almeno così dicono i sondaggi, ma siamo ancora agli inizi di ottobre, prima dei dibattiti tra candidati e prima di una serie di dati sull’economia destinati a peggiorare le cose per Obama se dovessero essere negativi. Parlando a dei miliardari in casa di un finanziere, Romney ha dipinto il 47% che non lo voterà mai come una massa di persone che vivono di “diritti” e non pagano tasse. I diritti sono la sanità, la pensione o i food stamps, tutte cose che in realtà si pagano eccome con i contributi sociali. Ciascuno, poi, in America, paga le tasse locali.

Le analisi sul 47%, su chi paga quanto e in che forma hanno intasato l’atmosfera per giorni. E l’idea espressa in privato da Romney di una società in cui chi lavora e non guadagna abbastanza non voterà mai per lui ha fatto un danno enorme al candidato repubblicano. La ragione è semplice: tra i pochi elettori che non hanno ancora deciso per chi votare in Florida, Ohio, Virginia, Iowa e New Hampshire – un 10-15% del totale – la stragrande maggioranza fa parte di quel 47%. O sente che in tempi di crisi potrebbe farne parte. Parlarne come dei potenziali parassiti non è il modo migliore per catturarne il voto.

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