Se in Europa si riparla di razza.
La spina Orbán nel fianco dell’Ue

Il premier ungherese rievoca teorie degli (altri) anni '20. Troppi problemi interni?

Nel corso della sua lunga carriera politica il premier ungherese Viktor Orbán ha diviso innumerevoli volte l’opinione pubblica con discorsi controversi. L’ultima in ordine tempo, qualche giorno fa, durante il Bálványos Free Summer University and Student Camp, un evento organizzato dalla comunità magiara nel villaggio romeno di Băile Tușnad, nel cuore della Transilvania. Davanti a un pubblico di migliaia di persone il premier ungherese si è lasciato andare a un discorso in tema di ordine sociale dai toni stupefacenti. «Le migrazioni hanno diviso l’Europa, o meglio dire l’Occidente, in due parti – ha affermato Orbán in un passaggio contro l’immigrazione – una metà è quella in cui europei e non europei vivono insieme. Questi Paesi non possono essere più definiti nazioni: non sono nient’altro che un agglomerato di persone».

In passato Orbán aveva già attaccato il modello liberale della società aperta, minaccia a suo dire per l’integrità dell’Europa, ma non lo aveva mai fatto in maniera così diretta, tirando in ballo esplicitamente la questione della razza. «Nel Bacino dei Carpazi non siamo una razza mista: siamo semplicemente una mescolanza di persone che vivono nella nostra madrepatria europea…Questo è quello per cui abbiamo sempre combattuto: siamo disposti a mescolarci gli uni con gli altri, ma non vogliamo diventare popoli di razza mista».

Queste dichiarazioni hanno scosso la comunità ebraica ungherese, che ha chiesto immediatamente un incontro con lo stesso Orbán, non nascondendo la propria inquietudine. L’ex primo ministro Ferenc Gyurcsány ha invece definito Orbán “una tragedia per l’Ungheria”. La reazione più clamorosa è stata tuttavia quella della sociologa Zsuzsa Hegedüs, sua ventennale consigliera, che con una lettera in prima persona indirizzata a Orbán e pubblicata dal quotidiano online Hvg.hu ha annunciato l’intenzione di interrompere la collaborazione. In uno dei passaggi più duri chiede al primo ministro ungherese come abbia fatto a non rendersi conto che stava pronunciando un discorso puramente nazista, degno di Goebbels. Nelle ultime ore lo strappo potrebbe però essere rientrato. Hegedüs ha apprezzato il fatto che Orbán abbia specificato che lui non è contro l’immigrazione per motivi biologici, ma culturali, e tramite una nuova lettera ha fatto sapere di voler ritirare le proprie dimissioni.

Ma quali possono essere state le ragioni che hanno condotto Orbán a pronunciare un discorso di questo tipo? Una spiegazione, secondo Nicholas Watson di Balkan Insight, è che si tratterebbe di un ammiccamento rivolto alla destra conservatrice americana, che ad agosto si riunirà a Dallas nella Conservative Political Action Conference (CPAC), e con la quale la destra ungherese flirta da tempo.

 

Problemi interni

Un’altra chiave di lettura potrebbe però essere quella della politica interna. Passata la sbornia della travolgente vittoria elettorale a inizio aprile, il governo ungherese si è trovato ad affrontare una serie di problematiche, per cui il discorso “sulla razza” avrebbe rappresentato un’ottima arma di distrazione di massa.

Nelle ultime settimane migliaia di persone sono scese in strada a Budapest per protestare contro la riforma fiscale delle partite Iva, la cosiddetta Legge Kata, che ha interessato circa un milione e mezzo di persone, costrette a passare a un regime più oneroso. Una protesta vibrante e continuata, proseguita per molti giorni, spia di un certo malessere che comincia a serpeggiare nella società. Non sono tempi facili per l’economia ungherese, e certamente la scelta di approvare una legge così impopolare affonda le radici nella necessità di fare cassa. A giugno il cambio fiorino-euro ha superato la soglia psicologica di 400 a uno. La svalutazione della moneta ungherese ha subito un’impennata all’indomani dell’inizio dell’invasione russa in Ucraina, ma segue un trend ormai decennale.

Oltre all’indebolimento del fiorino Orbán deve fare i conti con un’inflazione galoppante che ha raggiunto l’11,7% su base annua e sta erodendo il potere d’acquisto. Da qui la decisione di calmierare il prezzo di alcuni beni di prima necessità, tra cui sette prodotti alimentari di base, e di fissare il prezzo del carburante. Quest’ultima mossa ha avuto molteplici risvolti. Se sul breve termine ha certamente giovato al portafoglio degli ungheresi, dall’altro ha sollevato malumori in sede europea, dal momento che il prezzo fisso viene riservato solo alle automobili con targa magiara, mentre a quelle immatricolate all’estero viene applicato il prezzo di mercato. Una discriminazione per Bruxelles; un modo per evitare di restare a corto di carburante, per Budapest. Il rischio in realtà esiste ancora. MOL, la principale compagnia petrolifera del Paese ha dovuto ridurre il limite di rifornimento giornaliero da 100 a 50 litri, e lo stesso amministratore delegato dell’azienda, Zsolt Hernádi, ha parlato di una situazione “molto pericolosa” che prima o poi porterà all’esaurimento della benzina se non verrà tolto il blocco dei prezzi. Secondo le disposizioni attualmente in vigore tale blocco dovrebbe durare fino a ottobre.

 

Il fronte energetico

Il problema del carburante rientra nello spettro delle problematiche legate alla questione energetica attualmente in cima all’agenda di tutte le cancellerie europee. Un paio di settimane fa il premier magiaro ha convocato d’urgenza un’unità di crisi per discutere le azioni da intraprendere per scongiurare il rischio di arrivare impreparati alla stagione invernale, nel caso in cui la Russia decidesse di interrompere le forniture di gas. Ne è uscito un provvedimento articolato in sette punti, con alcune decisioni particolarmente drastiche. Tra queste il divieto di esportazione di ogni tipo di combustibile – contestato dall’Unione europea -, la rimodulazione delle bollette secondo il principio che chi consuma più della media deve pagare molto di più rispetto a chi consuma di meno, e l’autorizzazione al ministro degli Esteri Péter Szijjártó ad acquistare ulteriori riserve di gas.

Questo punto assume particolare rilevanza alla luce del fatto che pochi giorni dopo l’entrata in vigore del provvedimento Szijjártó si è recato a Mosca per incontrare il vice primo ministro russo Alexander Novak, e il ministro per il Commercio, Denis Manturov. Sul tavolo c’era l’acquisto di 700 milioni di metri cubi di gas. Un viaggio che ha avuto il sapore di uno schiaffo in faccia alla politica europea di questi mesi, volta a sganciarsi dalla dipendenza energetica russa. Di fatto il ministro ungherese è stato il primo diplomatico europeo di alto livello a visitare la Russia dall’inizio della guerra. L’unica eccezione finora era stata quella del cancelliere austriaco Karl Nehammer ad aprile, ma si era trattato di una missione d’altro tipo.

A confermare il suo ruolo di spina nel fianco, sempre in questi giorni l’Ungheria è stato l’unico Paese a opporsi al piano di riduzione del 15% del consumo di gas presentato dalla Commissione europea. In un intervento Orbán ha esplicitato la sua posizione: «Non vedo come sia possibile che venga applicata questa strategia – ha dichiarato – inoltre se non produce l’effetto desiderato e qualcuno non avrà abbastanza gas, verrà sottratto a chi ce l’ha». Nel mirino del suo attacco, come spesso accade, c’è la Germania. «La Commissione non sta chiedendo ai tedeschi di chiudere le loro ultime due o tre centrali nucleari che consentono di produrre energia a basso costo. Se esauriranno l’energia, prenderanno il gas da noi».

 

Ambiguità internazionale

Il niet ungherese è solo l’ultimo di una serie di veti che sono stati scanditi negli ultimi mesi e che hanno messo in seria difficoltà le politiche europee nei confronti della Russia. Tra le altre cose Budapest era stato il principale ostacolo alla firma del sesto pacchetto di sanzioni, che prevedeva l’embargo al petrolio russo, da cui è fortemente dipendente. Dopo lunghe ed estenuanti trattative l’Ungheria aveva ottenuto che il bando riguardasse solo il petrolio importato via mare, escludendo quindi quello proveniente via terra attraverso l’oleodotto Druzhba.

La posizione ufficiale dell’Ungheria è stata sempre quella di essere al fianco del popolo ucraino, ma nei fatti le sue azioni hanno spesso provocato l’irritazione di Kiev e degli alleati occidentali. «La nostra priorità è difendere l’Ungheria», è stato il mantra più volte ripetuto da Orbán in questi mesi, un’affermazione che gli ha permesso di giustificare prese di posizione scomode, come quella di vietare il transito delle armi dirette in Ucraina e di incassare consenso in chiave elettorale. Orbán si è sempre dichiarato contrario alle sanzioni, che secondo lui hanno provocato finora più danni all’Europa che alla Russia. «L’Europa si è sparata nei polmoni da sola e ora fatica a respirare», ha dichiarato recentemente.

 

Gli attriti con Bruxelles

Certamente i motivi di attrito con Bruxelles sono molteplici. Non ultimo il perdurante blocco dei 15 mld di euro del Recovery Fund a causa del mancato rispetto dello stato di diritto. La Commissione ritiene che non si siano ancora risolti i problemi legati alla corruzione e ha espresso le sue preoccupazioni nella relazione dettagliata presentata lo scorso mese. Qualcosa pare comunque essersi mosso nelle ultime settimane. Budapest ha presentato una proposta che prevede la riduzione delle gare di appalto pubbliche a cui partecipa un solo offerente al 15% del totale. Ha inoltre proposto delle modifiche in materia giudiziaria e ha promesso di rendere più trasparente e inclusivo il processo legislativo. Le parti sono ancora lontane, ma la Commissione ha deciso di concedere ancora un mese all’Ungheria per rispondere alle osservazioni fatte e presentare eventuali misure correttive.

Al di fuori della questione legata al Recovery Fund, ma non meno importante, quella legate alla cosiddetta Legge sulla protezione dei bambini, approvata un anno fa, che vieta ai minori di 18 anni di avere accesso a contenuti che trattino temi come l’omosessualità e l’identità di genere. Una legge che la Commissione europea ritiene liberticida e lesiva dello stato di diritto, e per la quale Budapest aveva già subito l’avvio di una procedura d’infrazione. La Commissione ha deciso ora di deferire l’Ungheria alla Corte di Giustizia europea. Budapest dovrà anche rispondere della chiusura di Klubrádió, una delle ultime radio indipendenti del Paese, che ha dovuto interrompere le sue trasmissioni l’anno scorso.

Un ultimo capitolo, tuttora aperto, è quello della Global Minimum Tax sulle multinazionali. Anche in questo caso l’Ungheria è l’unico Paese a essersi detto contrario, dopo aver dato inizialmente il via libera. Ufficialmente la posizione del governo è che l’aumento del carico fiscale sui produttori europei sarebbe rischioso in un momento di crisi economica, ma c’è la fondata sensazione che si tratti per Budapest di una leva da utilizzare per sbloccare la partita del Recovery Fund. Ma il discorso di Băile Tușnad ricorda per l’ennesima volta all’Ue il vero volto del leader con cui si trova costretta a negoziare.

 

Foto: Viktor Orban insieme a ricevuto a Vienna dal Cancelliere Karl Nehammer – 28 luglio 2022 (Askin Kiyagan / Anadolu Agency).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *