Ungheria, Orbán pronto per il quinto mandato. Ma è già più debole e isolato

Domenica il voto a Budapest: il contendente Márki-Zay cancellato dai media di stato

Quello appena trascorso è stato probabilmente il mese più difficile della carriera politica di Viktor Orbán. L’invasione russa dell’Ucraina è coincisa con l’approssimarsi delle elezioni parlamentari, in programma il 3 aprile, dove il premier ungherese cercherà di ottenere il quarto mandato consecutivo, il quinto in assoluto. Lo scoppio della guerra ha stravolto i piani della campagna elettorale e ha rischiato di far saltare il banco, considerando il rapporto privilegiato che da anni intercorre tra il premier ungherese e Vladimir Putin. Orbán ha dovuto sfoderare le sue migliori doti da equilibrista per tenere saldo il suo elettorato, non scontentare troppo il Cremlino, e allo stesso tempo non discostarsi troppo dagli alleati occidentali. A pochi giorni dall’appuntamento elettorale, la missione sembra essere almeno parzialmente riuscita.

 

Pronto all’incasso

Secondo un sondaggio condotto dall’Istituto Republikon, Fidesz, il partito di Viktor Orbán, conserva un leggero margine di vantaggio su “Uniti per l’Ungheria”, il cartello di sei partiti guidato dallo sfidante Péter Márki-Zay. A votare per Fidesz sarebbe il 41% contro il 39% che sceglierebbe l’opposizione. Un margine apparentemente non insormontabile che però dev’essere letto nel quadro del sistema elettorale ungherese, che è di tipo misto, proporzionale e maggioritario, con un maggior peso per quest’ultimo. Dei 199 deputati che compongono l’Assemblea nazionale, 106 vengono eletti in collegi uninominali secchi, ridisegnati in un modo che secondo i critici favorisce nettamente Fidesz. Secondo una proiezione del quotidiano indipendente Hvg basata sui recenti sondaggi, a Fidesz dovrebbero andare 78 seggi, e solo 28 all’opposizione.

Per avere la maggioranza in parlamento Márki-Zay dovrebbe dunque sperare in un vero e proprio exploit, ottenendo almeno il 4% dei voti in più di Orbán. Lo scenario che si profila più probabile è dunque una riconferma di Fidesz alla guida del governo, ma per la prima volta dal 2010 potrebbe venire a mancare la super-maggioranza dei due terzi dei parlamentari. Una novità non da poco, se si considera che è stato questo vantaggio che ha permesso all’attuale premier di governare incontrastato negli ultimi 12 anni, stravolgendo l’architettura istituzionale del paese e portandola completamente sotto il proprio controllo. Per cercare di massimizzare il suo vantaggio Orbán dovrà cercare di mobilitare alle urne più persone possibili. Non è un caso che lo stesso giorno delle elezioni parlamentari si terrà anche il referendum sulla cosiddetta “Legge per la protezione per i bambini”, detta altrimenti “Legge contro la propaganda LGBT”. Si tratta di un insieme di norme entrate in vigore lo scorso giugno, sul quale si è consumato un aspro scontro con l’Unione europea, che le ritiene fortemente discriminatorie. Tra le altre cose viene vietata la diffusione ai minori di 18 anni di contenuti che tocchino i temi dell’omosessualità e il cambio di genere.

 

I timori sulla regolarità delle elezioni

In Ungheria è già presente da alcune settimane una squadra OSCE/ODIHR (Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani) per monitorare lo svolgimento delle elezioni. La missione prevede l’impiego di 218 osservatori, 200 a breve termine, 18 a lungo termine. Già da alcuni anni l’Ungheria è sotto osservazione. Il primo campanello d’allarme è suonato nel 2014 quando la tornata elettorale è stata valutata come “libera ma non regolare”. Le preoccupazioni sono cresciute dal 2018 in poi, da quando è stato osservato come i soldi pubblici vengono utilizzati per finanziare la campagna elettorale di Fidesz.

Il regolare svolgimento della competizione è minato inoltre dallo stato della libertà di stampa. Orbán può contare sul quasi totale allineamento degli organi di informazione nazionale, e soprattutto sull’appoggio della Tv di stato M1. Per fornire un esempio recente, a Márki-Zay è stato concesso di presentarsi per la prima volta davanti alle telecamere della rete ammiraglia il 16 marzo, per un totale di cinque minuti, alle otto del mattino. Questo è stato il massimo del tempo concesso a lui e agli altri esponenti dell’opposizione. Il giorno precedente, complice il fatto che si festeggiava la Festa Nazionale ungherese, Orbán era apparso sullo stesso canale ben nove volte.

Il ruolo della televisione si è rivelato fondamentale nell’ultimo mese e mezzo nell’aiutare il premier ungherese a uscire dal pericoloso vicolo cieco in cui la guerra in Ucraina rischiava di indirizzarlo.

 

Un difficile equilibrio

La politica estera ungherese degli ultimi anni si è contraddistinta per un marcato multilateralismo, attraverso il quale Budapest ha sviluppato relazioni più che amichevoli con Cina e Russia, a scapito di un rapporto sempre più conflittuale con Bruxelles. È comprensibile come l’approssimarsi della crisi in Ucraina abbia messo in allarme Orbán già a fine gennaio. La minaccia di un intervento russo lo avrebbe costretto a dover giustificare la sua amicizia con Putin e a ridisegnare la propria posizione sia internamente che coi partner euro-atlantici. Per questo motivo il premier ungherese è stato uno dei primi leader europei a recarsi di persona a Mosca al fine di scongiurare lo scoppio del conflitto, un tentativo rilevatosi purtroppo vano.

L’invasione dell’Ucraina non ha lasciato inizialmente molto spazio a Orbán, che si è dovuto allineare ai paesi occidentali nell’applicazione dei primi pacchetti di sanzioni, e ha acconsentito al transito e al posizionamento di truppe NATO sul suolo ungherese.
Ha mantenuto però una linea inflessibile riguardo agli armamenti rifiutandosi non solo di fornire supporto militare diretto all’Ucraina, ma anche di far transitare i rifornimenti provenienti da altri Paesi. Già il 24 febbraio dettava la linea: «L’Ungheria deve stare fuori dalla guerra perché la sicurezza degli ungheresi è la priorità del governo». Pace e sicurezza sono stati due concetti ripetuti come un mantra nell’ultimo mese e mezzo. Il messaggio che è passato, grazie anche alla grancassa dei mezzi di informazione, è che Fidesz è il partito della pace perché tiene gli ungheresi al di fuori del conflitto. Questo ha permesso di tenere serrate le fila sul fronte interno, ma ha portato qualche turbolenza in politica estera.

Il tiepido atlantismo di Orbán per il momento sembra essere sufficiente per Francia, Germania e Italia, ma comincia a risultare indigesto agli alleati regionali. In particolar modo la “relazione speciale” con la Polonia sembra essersi messa su un pericoloso piano inclinato. La postura di Varsavia, volta a un supporto incondizionato e per certi versi molto audace nei confronti dell’Ucraina, è stata da subito diametralmente opposta a quella di Budapest. La situazione è peggiorata da quando Orbán ha cominciato a tirare il freno sulle sanzioni riguardanti il comparto energetico. Una posizione definita di difficile comprensione da parte del presidente polacco Duda. Il clima di tensione è salito a tal punto da fare saltare il vertice Visegrád sulla Difesa previsto per il 28 marzo a Budapest, a causa delle defezioni annunciate in partenza dal ministro polacco Błaszczak e dalla ministra ceca Jana Černochová. È stata proprio quest’ultima a fare l’affondo più pesante: «Ho sempre supportato il V4 e mi dispiace molto che per l’Ungheria il petrolio russo a buon mercato sia più importante che il sangue degli ucraini».

Oltre alla freddezza degli alleati Orbán ha dovuto subire anche lo schiaffo morale affibbiatogli dal presidente ucraino Zelensky, che rivolgendosi direttamente a lui in un video messaggio gli ha chiesto di decidere da quale parte stare. Un richiamo che il premier magiaro non ha digerito bene e a cui ha risposto in modo piccato, sottolineando come dopo tutto Zelensky sia un attore, a differenza sua, che di formazione è un giurista.

 

Opposizione appannata

In un panorama dominato dalla guerra e dal protagonismo di Orbán, l’opposizione non è stata in grado di riuscire a costruire una campagna elettorale convincente. Il cavallo di battaglia avrebbe dovuto essere quello della lotta alla corruzione, ma l’agenda internazionale ha imposto un cambio di direzione. Nei suoi interventi Márki-Zay ha cercato di trasformare le elezioni in un referendum tra l’Europa e Putin: un argomento apparentemente convincente, ma che finora non sembra aver toccato il cuore degli elettori.

La sensazione è che l’entusiasmo generato dalle primarie non sia stato seguito da un compattamento delle sei anime che compongono l’opposizione. Un’operazione che sarebbe stata necessaria considerando che questa comprende entità molto distanti tra loro, come i socialisti di MSZP e la destra di Jobbik. Lo stesso Márki-Zay sembra aver perso un po’ dello smalto che lo aveva contraddistinto qualche mese fa.

Nonostante tutti i problemi va tuttavia annotato che la partita di domenica non è ancora completamente chiusa. Il fatto che la forbice che separa l’opposizione da Fidesz sia così ridotta consente allo sfidante di nutrire ancora qualche speranza. Sebbene una vittoria sembri improbabile, anche una sconfitta di misura potrebbe far emergere un Orbán indebolito, sul fronte interno oltre che su quello internazionale, cambiando lo scenario della politica ungherese.

 

Foto: John Thys / AFP.

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