Ridurre e controllare i soldi dei partiti si può. Ecco come

Come risolvere la questione sempre più urgente del finanziamento dei partiti. Ne parliamo con Eugenio Pizzimenti, ricercatore all’università di Pisa e studioso dell’organizzazione dei partiti e del loro finanziamento in un quadro internazionale.
Nel panorama internazionale, e in particolare in Europa, esistono modelli di un metodo efficace sia nel distribuire le risorse ai partiti, sia nel controllare che non avvengano degenerazioni? Per esempio il modello tedesco?

La questione non riguarda i modelli dei singoli paesi. Infatti, così come per i sistemi elettorali, non sempre la trasposizione di modelli in contesti differenti produce risultati apprezzabili. Bisogna analizzare, piuttosto, gli elementi di contatto che esistono tra i vari modelli del continente europeo. Quasi tutti prevedono sia un finanziamento privato che uno pubblico, quest’ultimo in genere distinto tra finanziamento diretto e indiretto. Il primo è finalizzato al sostegno dell’attività ordinaria degli apparati dei partiti e dei gruppi parlamentari, mentre il secondo, nelle sue forme più diffuse, consiste in servizi di natura non monetaria, per esempio agevolazioni, fornitura di materiale elettorale, accesso ai mass media, contributi vincolati – questi tipici del sistema tedesco – ossia trasferimenti di denaro aventi specifiche finalità. In Italia questo vale per il supporto alla stampa di partito, mentre in Germania per il supporto alle associazioni collaterali e alle fondazioni. Esistono poi gli incentivi che consistono, generalmente, in previsioni normative in materia di deducibilità fiscale, detrazione fiscale e credito. In Italia i partiti sono particolarmente fortunati perché godono della quasi intera gamma delle forme di finanziamento diretto e indiretto. In Europa esistono modelli misti e quindi orientati al supporto tanto delle attività extraparlamentari quanto di quelle relative alle spese elettorali dei partiti. La pratica più interessante che sarebbe possibile trasporre nel nostro paese deriva dal modello tedesco, e in parte anche da quello francese, e riguarda i matching funds che collegano il contributo pubblico alla capacità di autoproduzione autonoma dei partiti.

In un sistema democratico il finanziamento privato è espressione della libertà associativa, quello pubblico rappresenta il riconoscimento di una funzione dei partiti come strumento insostituibile della rappresentanza democratica e, insieme, tende a garantire l’autonomia della vita politica dalle pressioni economiche e a consentirvi l’accesso ai non abbienti.

I finanziamenti privati non vanno direttamente al singolo, anzi la maggior parte delle volte vanno ai partiti. Quello che accade in Europa, a differenza ad esempio che negli Stati Uniti, è che non esiste una regolamentazione eccessivamente rigida del finanziamento privato, vista la natura privatistica e volontaria delle stesse organizzazioni di partito. Il più delle volte si tratta di leggi che fissano tetti massimi alle contribuzioni; o specifici divieti, come per le donazioni anonime, oppure si tratta di leggi che obbligano la pubblicità dei nominativi dei contribuenti. Ovviamente i finanziamenti privati sono ben diversi dai contributi che i partiti ricevono dallo Stato.

Cosa rappresenta allora, secondo lei, il finanziamento pubblico dei partiti? Si tratta di un supplementare adempimento dello Stato per garantire la vita di organismi che hanno rilievo costituzionale?

In Italia il finanziamento pubblico è configurato come aggiuntivo rispetto al finanziamento privato. In realtà, se guardiamo i dati dei bilanci dei principali partiti nell’arco degli ultimi diciotto anni, vediamo che la quota del finanziamento pubblico pesa sulle entrate – seppur in percentuali diverse – intorno ai 2/3 delle entrate complessive ed è più che aggiuntiva rispetto alla quota del finanziamento privato, diventando, per i partiti, la risorsa prevalente. La questione è spinosa. E’ vero infatti che i partiti sono soggetti che la Costituzione cita al fine di promuovere la vita politica nel nostro paese, ma è anche vero che essi hanno sempre rifiutato di avere una regolamentazione anche costituzionale da parte dello Stato e questo ha posto una serie di problemi, soprattutto dal punto di vista dei controlli effettuati sull’erogazione dei finanziamenti pubblici. Si tratta di un nodo cruciale: sono gli uffici di presidenza della Camera e del Senato a operare i controlli e così i controllati diventano anche i controllori, mentre la Corte dei Conti, qui, applica solo una verifica di legittimità e regolarità, senza entrare nel merito. Una delle direzioni in cui sarebbe opportuno andare sarebbe quella della regolamentazione pubblica delle attività dei partiti, per aumentarne la democraticità interna e i livelli di accountability verso i cittadini.

Quali sono le cause fondamentali della degenerazione del modello italiano? Il Presidente della Repubblica ha definito i finanziamenti fuori misura e fuori controllo. E’ questo il nodo, ridurre la misura, introdurre controlli efficaci?

La definizione ‘fuori misura’ è indiscutibile. Poiché il contributo pubblico si configura come ‘rimborso elettorale’, ma i partiti ricevono assai di più rispetto a quanto spendono per le campagne elettorali, è evidente che si tratta di una vera e propria ‘sovvenzione’ e non di un ‘rimborso’: quindi in netto contrasto con gli esiti del referendum del 1993. La definizione ‘fuori controllo’ va legata invece al rapporto tra partiti e Stato: se i partiti rifiutano una regolamentazione da parte dello Stato è chiaro che applicare un controllo sulle loro attività diventa difficile. Da questo punto di vista un modello che potrebbe essere utile seguire è quello che la Commissione Europea ha fornito a livello comunitario, con lo Statuto dei partiti europei N°2003/2004, e che potrebbe fungere da riferimento anche per il caso italiano. Esistono, infatti, alcuni vincoli che i partiti europei devono rispettare per poter accedere al finanziamento pubblico e che consistono non solo in criteri legali, parlamentari ed elettorali ma anche di tipo programmatico, ossia i partiti devono rispettare i principi fondamentali sui quali si basa l’Unione. La definizione di uno Statuto dei partiti italiani potrebbe essere una strategia giusta per creare un punto di riferimento per gli statuti delle diverse formazioni che dovrebbero poi essere sottoposti a un controllo di costituzionalità.

Rispetto all’esito del referendum del 1993 è accettabile che questi finanziamenti vengano chiamati “rimborsi”?

Si tratta, appunto, di un tipico escamotage all’italiana. Esiste ancora molta confusione in merito al referendum del 1993. Esso aboliva una parte della normativa precedente riferita ai finanziamenti e ai contributi all’attività ordinaria dei gruppi parlamentari, lasciando in piedi però la normativa sui rimborsi elettorali. Lo scandalo è rappresentato dal fatto che i cosiddetti rimborsi elettorali siano diventati poi dei veri e propri finanziamenti.

Per rientrare in quel vincolo di legge non bisognerebbe accentuarne il carattere di fondi erogati a fronte di spese sostenute e documentate?

Un’alternativa sarebbe il cambiamento totale della normativa sul finanziamento pubblico, con una riconfigurazione che segua nuove linee guida. Questo è un discorso, però, che dovrebbero fare gli stessi partiti.

Per il futuro, quindi, bisognerà stabilire una nuova misura, in proporzione con i finanziamenti privati e in parallelo con nuovi controlli per i rimborsi.

Il modello francese e quello tedesco potrebbero essere una via percorribile. Ma sicuramente dovrebbe diminuire l’ammontare di risorse di cui dispongono oggi i partiti. O quantomeno dovrebbe essere proporzionale alle spese sostenute, e queste, a loro volta, dovrebbero essere sottoposte al controllo non più degli uffici di presidenza delle Camere, ma da parte di un organo terzo.

Anche il volume delle spese rappresenta un fattore importante per l’equilibrio dei paesi democratici. Negli Stati Uniti si è tentato di introdurre dei limiti alle spese elettorali, per evitare la degenerazione del processo politico democratico.

Questo discorso riguarda però anche la cultura della legalità. E questa non può essere promossa con una legge.

Rawls sosteneva che il limitare le spese elettorali concerne l’equilibrio costituzionale.

Bisogna introdurre alcuni correttivi per non rischiare di dare ai partiti più risorse di quante vengano spese effettivamente, visto che dal 1994 al 2008 i dati forniti dalla Corte dei Conti relativi ai contributi pubblici ricevuti dai partiti ammonta a 2 miliardi e 253.000 euro a fronte di una spesa pari a 579 milioni di euro.

Come si è arrivati a questo punto?

Abbiamo lasciato ai controllati il potere di fare anche i controllori.

Il peccato d’origine è stato aver stabilito la proporzione di cinque euro per ogni elettore?

Il problema è anche il modo in cui viene calcolato il fondo complessivo che si ottiene moltiplicando questa cifra per il numero degli iscritti alle liste elettorali della Camera. Ed è un numero elevato rispetto agli elettori che davvero si recano alle urne. Prima della legge del 1999 il calcolo della somma da erogare ai partiti era effettuato in riferimento al numero di residenti in Italia rispetto all’ultimo censimento, ed era ancora più eccessivo.

La via maestra per risolvere il nodo dei controlli consisterebbe nell’affidarli alla Corte dei Conti, dando a essa un potere ispettivo sui bilanci?

Sicuramente bisognerebbe levarne la responsabilità agli uffici di presidenza. Affidare tutto alla Corte dei Conti potrebbe essere una soluzione, visto che già oggi essa effettua alcuni controlli. Infatti consultando i referti dei consuntivi delle Camere sulle spese dei partiti si possono notare alcuni suggerimenti forniti dalla Corte dei Conti perché si indaghi meglio su alcune spese che appaiono fuori misura. Ma fino a quando essa esercita un semplice potere consultivo, il suo controllo sortisce un effetto quasi nullo. Il problema a monte è che non esiste una legge o architettura istituzionale che garantisca la soluzione di questi problemi evitando pratiche illecite.

La Corte dei Conti poteva valutare i bilanci della Lega?

In quel caso poteva operare un controllo di conformità rispetto ai documenti che riceveva. Ma essi, anche se palesemente falsi, potevano essere giudicati solo in base ai criteri formali che la legge prevede. Quindi erano sottoposti, appunto, a un mero controllo di conformità.

E qui cosa bisogna cambiare?

Il controllo di conformità fa parte di una mentalità molto italiana. La questione del finanziamento ai partiti è stata affrontata, purtroppo, attraverso il paradigma dominante della pubblica amministrazione, che non si occupa di quello che accade in realtà, ma si limita a verificare che gli atti siano formalmente corretti.

Ma come è possibile che denaro erogato per precise finalità venga poi usato per altri scopi?

I bilanci dei partiti sono formulati in maniera strana. E’ possibile verificare in che modo vengono usate le risorse, ma si ha a che fare con nient’altro che ‘pezzi di carta’. Una volta che il collegio dei revisori ha approvato il bilancio e una volta che l’assemblea congressuale del partito – spesso pleonasticamente – lo ha approvato a sua volta, la Corte dei Conti non può far altro che verificare che tutto sia stato fatto secondo le regole e che l’esercizio sia stato chiuso nei tempi previsti.

Questo non fornisce garanzie sufficienti per l’erogazione dei fondi statali, del denaro dei contribuenti.

Occorre sicuramente rivedere il contratto tra Stato e partiti. Se i partiti vogliono continuare a percepire finanziamenti pubblici, bisogna che configurino il loro ruolo come quello di peculiari public utilities, produttori di beni pubblici sotto forma di decisioni collettive, il che darebbe luogo alla possibilità di accedere a un finanziamento pubblico, ma consentirebbe anche a un controllo efficace.

Non è necessaria una norma che vieti di usare i finanziamenti per la compravendita di titoli finanziari? Non bisognerebbe specificare una lista di finalità compatibili?

Dal momento che lo Stato mi fornisce i finanziamenti oggi io posso, senza vincoli, differenziare gli investimenti, come è accaduto nel caso della Lega. Quell’episodio non concerne solo la normativa – che sicuramente va rivista – ma tocca la questione della cultura della legalità, tasto dolente del nostro Paese.

I partiti sono organismi democratici che dovrebbero essere democraticamente aperti alla contesa per la loro guida, con una periodicità congressuale, che consenta alle minoranze di sfidare la maggioranza. Che cosa si può fare in merito al controllo dei fondi che i partiti ricevono e che, nelle mani dei leader, diventano un mezzo per ostruire la competizione e rendere inamovibili i segretari? Negli Stati Uniti la raccolta dei fondi la fanno i candidati durante le primarie, non i segretari.

Le primarie non sono la panacea per tutti i problemi. La realtà è che l’accresciuta dipendenza dal finanziamento pubblico si è accompagnata al processo di accentramento organizzativo nelle mani di un entourage ristretto di persone. E questo ha condizionato in primis la divisione interna delle risorse, favorendo gli apparati centrali e le rappresentanze istituzionali dei partiti a discapito degli iscritti e delle organizzazioni territoriali, e influendo così anche sulla distribuzione del potere tra le diverse facce dell’organizzazione. Far riferimento allo Statuto dei partiti europei potrebbe essere utile per regolamentare anche le modalità in cui, nei nostri partiti, viene organizzata la vita interna, garantendo una effettiva partecipazione democratica e accrescendone la trasparenza. Si ritorna, quindi, alla necessità di una legge sui partiti – che non passa necessariamente per le primarie – che ne regoli la democraticità interna e preveda controlli esterni molto rigidi.

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