Pd, per ripartire governo e partito ben separati

L’autore, oggi semplice iscritto al Pd, è stato segretario confederale della Cgil, presidente dell’Inps, commissario all’Antitrust.

Per fare uscire il Pd dalla crisi, per rivitalizzare la sua missione ed i suoi valori, c’è bisogno di tanta novità e verità. Processi di profondo cambiamento ed esercizi rigorosi e sinceri di verità sulle ragioni vere di questo immenso smarrimento che si è diffuso in tutti noi, evitando di perderci nella ricerca o peggio nell’enfatizzazione dei tanti passaggi che hanno contrassegnato il voto per il Quirinale.

Su questi episodi tutti hanno da contestare tutti, ma senza costrutto. La crisi dei nostri gruppi dirigenti ha avuto però l’effetto benefico di provocare nel popolo di sinistra una più alta ed esigente domanda di cambiamento che va saputa raccogliere, non solo per evitare nuovi e più gravi abbandoni ma per riprendere con nuove elaborazioni e più forza il nostro impegno per una Italia migliore, ridando al Partito democratico una credibilità oggi gravemente compromessa.

Partiamo da una constatazione: l’alleanza con il Pdl ha sconcertato il nostro elettorato. In molti, forse tutti a sinistra, sentiamo che il Governo che si è formato non è il governo dei cambiamento di cui avevamo bisogno; esso non sarà in grado di darsi ambizioni e visioni di lungo respiro per fare uscire il paese dalla tragedia della disoccupazione e della morte delle imprese e dalla peste della illegalità. Potrà, se guidato bene, fare cose necessarie ed utili per lenire l’emergenza, ma appare inadatto a costruire il futuro.

Perché si è diffuso e risulta largamente vincente questo sentimento critico, malgrado esistono argomenti forti a sostegno della inevitabilità di questo Governo? E’ difficile infatti negare la necessità ed il dovere dell’unità nazionale di fronte alla drammatica crisi economica e sociale, ed è altrettanto impossibile ignorare il fatto della indisponibilità di Grillo ad alleanze diverse. Tuttavia il consenso alle larghe intese non convince e non prevale.
Le ragioni sono tante, serve per il momento riassumerle ricordando che il Pd questa alleanza l’ha subita dopo il noto lungo travaglio, mentre il Pdl tenacemente l’ha proposta e voluta ma su una base irresponsabile ed irricevibile (la soppressione e restituzione dell’Imu, cioè il mantenimento dell’iniquo sistema fiscale italiano basato solo sul reddito e non sul patrimonio; e l’attacco violento alla Magistratura, cioè il rifiuto tenace della legalità), per di più venduta come pacificazione naziuonale.

Ma è proprio qui, di fronte all’evidenza di questi fatti, che dobbiamo prendere il coraggio per cercare le cause remote dei recenti eventi e trovare un nuovi linguaggi, nuovi pensieri e e nuove relazioni con il nostro elettorato e con tutto il paese. Diciamo subito che è fondata la tesi di chi afferma che non c’erano pronte alternative all’alleanza di governo con il Pdl; la strategia sfascista di Grillo la rendeva obbligatoria.
Ma è anche vero che abbiamo fatto una pessima campagna elettorale in cui pur parlando di alleanza tra progressisti e moderati, sostanzialmente pensavamo di poter vincere come coalizione da soli. In più, contradditoriamente, pensavamo di raggiungere questo risultato annacquando la nostra identità riformista.

Annebbiati da questi calcoli sbagliati, non abbiamo saputo lavorare sul conflitto che era esploso tra le due destre; anzi attaccandole indifferentemente e debolmente entrambe, abbiamo sin da allora posto le condizioni perchè non avessero altra prospettiva che il loro ricongiungimento. Né, come è noto, abbiamo saputo valutare bene e contrastare a tempo il sommovimento radicale rappresentato dal fenomeno grillino.
Abbiamo lasciato a loro praterie immense parlando ed intervenendo poco e male sulla grave crisi economica e sociale, fino a permettere a Grillo di sceglierci come il principale bersaglio polemico del suo populismo irresponsabile. Errori gravi; dopo il 25 febbraio non avevamo cosi né una nostra maggioranza parlamentare né alleanze possibili per dare al Paese un governo del cambiamento.

Cosa ci ha portato a questi esiti disastrosi? Cosa dobbiamo fare, oggi, per recuperare credibilità e forza? Decisivi naturalmente saranno gli atti di Governo. Ripetiamo, l’alleanza che si è creata non è una coalizione per l’innovazione, ma sarebbe del tutto inaccettabile che si caratterizzasse come una coalizione priva di equità e moralità nell’affrontare i mali del poaese.
Ma, insieme ed oltre, l’attenzione nostra va centrata su come far rinascere in Italia un centrosinistra capace di leggere le grandi trasformazioni in corso nell’economia e nella società e di cercare, sulla mancanza di lavoro e sul progressivo impoverimento dei livelli di civiltà, benessere e democrazia, risposte che le classi dirigenti conservatrici europee non sanno ed in molti casi non vogliono dare.

Questo è il nodo da affrontare per superare la devastante fragilità mostrata dal Pd. Nella recente Assemblea nazionale che ha portato all’elezione di Epifani a segretario del partito, molti finalmente hanno ammesso che un partito per esistere ha bisogno di chiarezza sulla propria identità e missione. Ma anche questa importante, seppur tardiva ammissione, che comporta revisioni profonde delle culture e strutture fondative del Partito democratico ed una loro partecipata evoluzione – mi auguro – verso gli ideali del liberalsocialismo, rischia di essere vanificata o rimandata a tempi indefiniti se non affronta da subito la questione della base sociale di riferimento, della costituency di un rinnovato partito riformista italiano.

Da tempo, a sinistra, la storia del ceto politico italiano non si è più incontrata con quella del popolo italiano. Abbondano dati ed evidenze di questa decadenza. Di volta in volta essa è stata definita come riformismo dall’alto, sinistra senza popolo, assenza di un serio pensiero critico sulla crisi del capitalismo, afasia, impotenza, autoreferenzialità etc. Nei suoi aspetti essenziali può essere raccontata come difficoltà della sinistra a prendere atto della fine della classe operaia come perno e motore della battaglia progressista.

Naturalmente la classe operaia esiste ancora e continua ad assicurare esempi alti di tenuta e consapevolezza civile e democratica; ma la lunga e tenace offensiva neoliberista l’ha fortemente indebolita e costretta su posizioni difensive, a volte di pura sopravvivenza. La fonte principale della produzione dei profitti sta ormai nella conoscenza, non più nel duro sfruttamento della forza lavoro. A sinistra ci si divide e ferocemente si litiga senza ragionare e posizionarsi sul fatto che da tempo viviamo nell’epoca perigliosa della “distruzione creatrice”.

Sapendo capire e usare l’innovazione tecnologica e la globalizzazione, il neoliberismo ha aperto il fuoco non solo sui posti di lavoro creati dalla vecchia base manifatturiera, ma sullo stesso diritto al lavoro, oltre che sul ruolo dell’intervento pubblico, sullo stato sociale e sull’esistenza del sindacato. Il fenomeno, come sappiamo, non è solo italiano, ma da noi ha la peculiare caratteristica che nessuno soprattutto a sinistra vuole seriamente discuterne. A sinistra si parla di declino industriale, che certamente esiste, senza interrogarsi però sui rapporti che esso ha con la “grande trasformazione” che pur essendo in corso da anni, continua ad essere da noi incredibilmente sottovalutata.

Per la classe operaia si chiede cosi il solo rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, non anche nuova formazione e nuovo modello di sviluppo. Se sapessimo definire quest’ultimo come forte innovazione tecnologica del manifatturiero e spinta agli investimenti in capitale umano, potremmo avere un obiettivo unificante tra classe operaia e giovani spesso laureati ma senza lavoro; tra domanda interna ed esigenze della competizione internazionale; tra mondo del lavoro e mondo del capitale innovativo.

Ma questa svolta – che è in primo luogo cognitiva – non riusciamo ancora a concepirla e organizzarla. Ci ritroviamo cosi senza una forte classe operaia e senza i nuovi lavoratori della conoscenza dipendenti o autonomi, che non ci raggiungono perché da noi da tempo ignorati, sebbene siano sempre più numerosi, con poco reddito, con diritti negati, assai frammentati ed alla ricerca di varie forme di rappresentanza.

Senza una visione del futuro e senza basi sociali di riferimento, le tentazioni delle classi dirigenti della sinistra, inutilmente divise tra politicismo e movimentismo, sono state tante ma spesso inconcludenti, lontane da esiti positivi. Tra esse vanno segnalate quella di cercare una rielaborazione delle culture fondative del Pd senza dar vita a una Fondazione culturale comune e quella ancora più sorprendente di cercare soprattutto nella legge elettorale – che è certo regola costitutiva della convivenza civile – le risposte maggiori per controllare il pericoloso divorzio in atto tra capitalismo e democrazia.

Ma anche su questi nodi vitali, il contesto che si è ora delineato dopo le recenti elezioni politiche è cambiato e incoraggia, malgrado tante apparenze contrarie, nuove speranze. Oggi, per fare solo qualche esempio, nessuno potrebbe, a sinistra, permettersi in Parlamento finte opposizioni o finte proposte sul conflitto di interessi. Oppure mi sembra del tutto incredibile che la rinascita del Pd possa essere proposta sulle basi delle vecchie correnti, senza cercare un rinnovamento culturale e forme nuove di confronto e decisione (rompendo, si è detto recentemente, case matte e filiere). La credibilità dell’agire politico è precipitato cosi in basso da suscitare spinte opposte e contrarie che dobbiamo essere capaci di raccogliere ed indirizzare.

Inoltre è cresciuta la consapevolezza, non solo nel nostro mondo ma dell’intero paese, sul fatto che va contrastata e battuta la linea dell’austerità impostaci dai conservatori europei; legato a ciò è cresciuto il bisogno di nuove politiche di sviluppo e di una vera unità europea. Nelle prossime elezioni del Parlamento abbiamo una occasione storica di prima grandezza a cui prepararci da subito.

Infine, la domanda di buona politica che si è sviluppata nel paese come risposta alla formazione del Governo di coalizione con una destra attraversata da pulsioni eversive, spingerà, penso, il nuovo gruppo dirigente del Pd a distinguere le vicende del Governo di cui abbiamo già parlato da quelle della ricostruzione su basi nuove del Partito e ad utilizzare per quest’ultimo la campagna congressuale al fine di sperimentare da subito il dovere e l’utilità di dare a se stesso e al paese una nuova visione del presente e dell’avvenire dell’Italia.

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