Come smontare la violenza di Slavoj Zizek

Pochi intellettuali esemplificano le contraddizioni del capitalismo contemporaneo meglio di Slavoj Žižek, filosofo e teorico culturale sloveno. La crisi finanziaria ed economica ha dimostrato la fragilità del sistema del libero mercato che i suoi difensori credevano avesse trionfato nella guerra fredda; ma non c’è alcun segno di qualcosa che ricordi il progetto socialista che, in passato, era considerato da molti il successore del capitalismo. L’opera di Žižek, che riflette questa situazione paradossale in una serie di modi, lo ha reso uno dei più noti intellettuali pubblici al mondo

Nato e formatosi a Ljubljana, capitale della Repubblica popolare slovena nella ex federazione jugoslava fino a che lo Stato federale iniziò a cadere a pezzi e la Slovenia dichiarò la propria indipendenza nel 1990, Žižek ha ricoperto incarichi accademici nel Regno Unito, in America e nell’Europa occidentale come pure nella stessa Slovenia. La sua prodigiosa produzione (oltre sessanta volumi da quando il suo primo libro in inglese, The Sublime Object of Ideology, venne pubblicato nel 1989), innumerevoli articoli e interviste, oltre a film come Žižek! (2005) e The Pervert’s Guide to Cinema (2006), gli hanno dato una visibilità che si estende assai oltre l’accademia. Ben in sintonia con la cultura popolare, in particolare quella cinematografica, Žižek ha un seguito tra i giovani di molti paesi, compresi quelli dell’Europa post-comunista. Ha una rivista dedicata al suo lavoro – l’International Journal of Žižek Studies, fondato nel 2007— i cui lettori sono registrati via facebook e, nell’ottobre del 2011, si è rivolto ai membri del movimento Occupy allo Zuccotti Park di New York, un evento che è stato ampiamente raccontato ed è visibile su YouTube.

L’ampia influenza di Žižek non significa che il suo punto di vista filosofico e politico sia facile da definire. Membro del Partito comunista sloveno fino alle dimissioni nel 1988, Žižek intrattenne relazioni difficili con le autorità del partito per molti anni a causa del suo interesse per ciò che essi consideravano idee eterodosse. Nel 1990 si presentò come candidato alle presidenziali per la Democrazia Liberale di Slovenia, un partito di centrosinistra che sarebbe stato la forza politica dominante nel paese per il resto del decennio, ma le idee liberali, aldilà del servire come punti di riferimento per posizioni che egli respinge, non hanno mai plasmato il suo pensiero.

Žižek venne licenziato dal suo primo incarico di insegnante universitario nei primi anni ’70, quando le autorità slovene giudicarono “non-marxista” una sua tesi sullo strutturalismo francese – allora movimento influente in antropologia, linguistica, psicoanalisi e filosofia che sosteneva che il pensiero e il comportamento umani esemplificassero un sistema universale di principi interrelati. L’episodio era la dimostrazione della natura limitata della liberalizzazione intellettuale che veniva promossa all’epoca nel paese, ma il lavoro successivo di Žižek suggerisce che le autorità avevano ragione nel ritenere che il suo orientamento intellettuale non fosse marxista.

Attraverso l’enorme corpus dell’opera che costruito da Žižek fin da allora, Marx viene criticato per essere insufficientemente radicale nel rigettare le modalità esistenti di pensiero, mentre Hegel – che su Žižek esercita un’influenza assai maggiore – viene elogiato per la sua disponibilità ad accantonare la logica classica in favore dello sviluppo di un modo di ragionare più dialettico. Tuttavia, anche Hegel è oggetto di critiche per essere troppo attaccato a modalità tradizionali di pensiero e un tema centrale degli scritti di Žižek è la necessità di liberarsi dall’impegno di oggettività intellettuale che ha guidato gli intellettuali radicali in passato.

Il lavoro di Žižek si oppone a Marx su molti temi. Nonostante tutto ciò che deve alla metafisica hegeliana, Marx era anche un pensatore empirico che cercava di inquadrare le teorie sull’attuale corso dello sviluppo storico. Non era l’idea astratta di rivoluzione a catturare i suoi maggiori interessi, ma un progetto rivoluzionario che comprendeva cambiamenti specifici e radicali nelle istituzioni economiche e nei rapporti di potere.
Žižek mostra scarso interesse per questi aspetti del pensiero di Marx. Mirando “a ripetere la critica dell’economia politica” marxista senza la nozione utopistico-ideologica di comunismo come suo modello intrinseco”, egli è convinto che “il progetto comunista del ventesimo secolo fosse utopistico esattamente nella misura in cui non era sufficientemente radicale.” Nella sua visione, l’idea di comunismo di Marx era parzialmente responsabile del suo fallimento: “La nozione di società comunista di Marx è essa stessa l’intrinseca fantasia capitalista, ovvero, uno scenario fantomatico per risolvere gli antagonismi capitalisti che egli aveva così abilmente descritto.”

Mentre rifiuta il concetto di comunismo di Marx, Žižek non dedica neppure una delle oltre mille pagine di Less Than Nothing a indicare il sistema economico o le istituzioni di governo che comparirebbero in una società comunista del tipo che egli favorisce. In realtà, un compendio aggiornato dell’opera di Žižek, Less Than Nothing si dedica piuttosto a reinterpretare Marx attraverso Hegel— una delle sezioni del libro è intitolata “Marx as a Reader of Hegel, Hegel as a Reader of Marx” (Marx lettore di Hegel, Hegel lettore di Marx) — e a riformulare la filosofia hegeliana in riferimento al pensiero dello psicanalista francese Jacques Lacan.

Un “post-strutturalista” che rifiutava l’idea che la realtà potesse essere catturata nel linguaggio, Lacan respingeva anche l’interpretazione standard della nozione di Hegel dell’“astuzia della ragione”, secondo cui la storia del mondo è la realizzazione nella vita umana attraverso strumenti della ragione obliqui e indiretti. Per Lacan, così come Žižek lo sintetizza, “L’astuzia della ragione… non implica in alcun modo una fede in una mano-guida segreta che garantisca che tutta la apparente contingenza dell’irrazionale contribuisca in qualche modo all’armonia della totalità della ragione: semmai, essa implica una fiducia nella ‘ir-ragione’.” Su questa lettura lacaniana, il messaggio della filosofia di Hegel non è la progressiva rivelazione della razionalità nella storia ma piuttosto dell’impotenza della ragione.”

L’Hegel che emerge negli scritti di Žižek, quindi, poco ricorda il filosofo idealista che compare nelle comuni storie del pensiero. Hegel viene solitamente associato all’idea secondo cui la storia ha una logica intrinseca in cui le idee sono rappresentate nella pratica e poi lasciate indietro in un processo dialettico in cui vengono trascese attraverso i loro opposti.
Traendo spunto dal filosofo francese contemporaneo Alain Badiou, Žižek radicalizza questo concetto di dialettica a significare il rifiuto del principio logico di non contraddizione, così che anziché vedere la razionalità all’opera nella storia, Hegel respinge la ragione stessa così come intesa in passato. Implicito in Hegel (secondo Žižek) è un nuovo tipo di logica “paracoerente” in cui una proposizione “non è realmente soppressa dalla sua negazione”. Questa nuova logica, suggerisce Žižek, si adatta bene a comprendere il capitalismo oggi. “Non è il capitalismo ‘postmoderno’ un sistema sempre più ‘paracoerente’ – si chiede retoricamente – “in cui, in una varietà di modi, P è no-P: l’ordine è la sua stessa trasgressione, il capitalismo può fiorire sotto il dominio comunista, e così via?”

Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle grazie, 2011) viene presentato da Žižek come dedicato a questo argomento. Sintetizzando il tema centrale del libro, egli scrive: “La premessa sottintesa di questo libro è semplicemente una: il sistema capitalista globale si sta avvicinando a un apocalittico punto-zero. I suoi ‘quattro cavalieri dell’apocalisse’ sono rappresentati dalla crisi ecologica, dalle conseguenze della rivoluzione biogenetica, dalgli squilibri interni al sistema stesso (problemi con la proprietà intellettuale; prossime lotte per materie prime, cibo e acqua) e dalla crescita esplosiva delle divisioni e delle esclusioni sociali.”
Con le sue tesi inclusive e la retorica magniloquente, questo passaggio è assai tipico nell’opera di Žižek. Ciò che lui descrive come la premessa del libro è semplice solo perché tralascia fatti storici. Nel leggerlo, nessuno sospetterebbe che, aldilà dell’uccisione di molti milioni di persone per ragioni ideologiche, alcuni dei peggiori disastri ecologici dell’ultimo secolo – la distruzione della natura nell’ex Unione Sovietica e la devastazione delle campagne durante la rivoluzione culturale di Mao, ad esempio – avvennero in economie pianificate a livello centrale. La devastazione ecologica non è un risultato solo del sistema economico che esiste in gran parte del mondo attuale: mentre può essere vero che la versione prevalente di capitalismo sia insostenibile in termini ambientali, non vi è nulla nella storia del secolo scorso che suggerisca che l’ambiente sarebbe meglio protetto se si instaurasse un sistema socialista.

Tuttavia criticare Žižek per aver trascurato questi fatti vuol dire fraintendere il suo intento, perché a differenza di Marx il suo scopo non è fondare la sua teoria su una lettura della storia basata sui fatti. “L’attuale congiuntura storica non ci obbliga ad abbandonare la nozione di proletariato, o la posizione proletaria, al contrario, ci costringe a radicalizzarla a un livello esistenziale che va ben oltre persino l’immaginazione di Marx” – scrive Žižek. “Abbiamo bisogno di una nozione più radicale del soggetto proletario (ad esempio, l’essere umano pensante e in azione), un soggetto ridotto a un punto evanescente del cogito cartesiano, privato del suo contenuto sostanziale.” Nelle mani di Žižek, le idee marxiane – che nella visione materialista di Marx intendevano selezionare fatti sociali obiettivi – diventano espressioni soggettive dell’impegno rivoluzionario. Che queste idee corrispondano o meno a qualsiasi cosa nel mondo è irrilevante.

A questo punto, tuttavia, c’è un problema: perché chiunque dovrebbe adottare le idee di Žižek anziché quelle di altri? La risposta non può essere che quelle di Žižek sono vere in qualsiasi senso tradizionale. “La verità con cui abbiamo a che fare qui non è verità ‘oggettiva’ – scrive Žižek – “ma verità auto-referenziale sulla posizione soggettiva di ciascuno; come tale, è una verità impegnata, misurata non attraverso l’accuratezza fattuale, ma dal modo in cui influenza la posizione soggettiva dell’enunciazione.”
Se questo vuol dire qualcosa, è che la verità è determinata dal riferimento a come un’idea si accorda con i progetti a cui il parlante è devoto – nel caso di Žižek, un progetto di rivoluzione. Tuttavia anche soltanto questo pone il problema a un altro livello: perché qualcuno dovrebbe adottare il progetto di Žižek? Alla domanda non si può dare una risposta semplice, poiché non è affatto chiaro in cosa consista il piano rivoluzionario di Žižek. Egli non mostra alcun’ombra di dubbio sul fatto che una società in cui il comunismo si sia realizzato sia migliore di qualunque altra mai esistita.

D’altro canto, non è in grado di immaginare una qualsiasi circostanza in cui il comunismo si possa realizzare: “Il capitalismo non è solo un’epoca storica tra le altre… Francis Fukuyama aveva ragione: il capitalismo globale è ‘la fine della storia’.’” Il comunismo per Žižek non è – come per Marx – una condizione realizzabile, ma ciò che Badiou descrive come “un’ipotesi”, un concetto con poco contenuto positivo ma che rende possibile la resistenza radicale contro le istituzioni prevalenti. Žižek insiste sul fatto che questa resistenza debba comprendere l’uso del terrore: l’idea provocatrice di Badiou secondo cui oggi bisognerebbe reinventare il terrore emancipatore è una delle sue più profonde intuizioni… Basti ricordare la sua difesa esaltata del terrore nella rivoluzione francese, in cui cita la giustificazione alla ghigliottina che decapitò Lavoisier: “La Repubblica non ha bisogno di scienziati.”

Insieme a Badiou, Žižek celebra la rivoluzione culturale di Mao come “l’ultima grande esplosione veramente rivoluzionaria del ventesimo secolo.” Ma ritiene anche la rivoluzione culturale un fallimento, citando la conclusione di Badiou secondo cui essa “anche nel suo momento di maggiore impasse, testimonia l’impossibilità di affrancare veramente e globalmente la politica dal quadro dello Stato-partito.”

Mao, nell’incoraggiare la Rivoluzione culturale, doveva aver evidentemente trovato un modo per rompere il potere dello Stato-partito. A ancora: Žižek elogia i Khmer rossi per aver tentato una rottura totale con il passato. Il tentativo implicò omicidi di massa e torture su scala colossale; ma, nella sua visione, non è questa la ragione del suo fallimento: “I Khmer rossi non furono, in un certo senso, sufficientemente radicali: mentre portarono la negazione astratta del passato al limite, non inventarono alcuna nuova forma di collettività.” Una rivoluzione genuina può essere impossibile nelle attuali circostanze, o in qualsiasi situazione si possa al momento immaginare. Anche così, la violenza rivoluzionaria dovrebbe essere celebrata come “redentiva”, persino “divina”.

Mentre Žižek si è descritto come un leninista, non ci può essere alcun dubbio sul fatto che questa posizione sarebbe risuonata come una bestemmia alle orecchie del leader bolscevico. Lenin non ebbe alcuna incertezza nell’utilizzare il terrore per promuovere la causa del comunismo (per lui, un obiettivo in pratica raggiungibile). Dispiegata sempre come parte di una strategia politica, la violenza era strumentale in natura. Al contrario, sebbene accetti che la violenza abbia fallito nel raggiungere gli obiettivi comunisti e non abbia alcuna prospettiva di farlo in futuro, Žižek insiste che la violenza rivoluzionaria ha un valore intrinseco come espressione simbolica di ribellione, una posizione che non trova paralleli né in Marx né in Lenin. Un precedente si può rinvenire nell’opera dello psichiatra francese Frantz Fanon, che difendeva l’uso della violenza contro il colonialismo come affermazione dell’identità di coloro che erano assoggettati alle potenze coloniali; ma Fanon considerava questa violenza parte di una lotta per l’indipendenza nazionale, un obiettivo che, in effetti, venne raggiunto.

Un precedente più chiaro si può rinvenire nell’opera del teorico francese del sindacalismo di inizio ventesimo secolo Georges Sorel. In Riflessioni sulla violenza (1908), Sorel sosteneva che il comunismo era un mito utopistico, ma un mito che aveva valore nell’ispirare una rivolta moralmente rigenerativa contro la corruzione della società borghese. Le similitudini tra questa visione e la descrizione della “violenza redentiva” di Žižek ispirata dall’“ipotesi comunista” sono notevoli.

Una celebrazione della violenza è uno dei filoni più importanti nell’opera di Žižek. Egli trova che Marx abbia commesso un errore nel pensare che la violenza possa essere giustificata come parte del conflitto tra classi sociali oggettivamente definite. La guerra di classe non deve essere intesa come “un conflitto tra agenti particolari all’interno della realtà sociale: non è una differenza tra agenti (che può essere descritta attraverso un’analisi sociale dettagliata) ma un antagonismo (‘lotta’) che costituisce quegli agenti.” Applicando questa visione nel discutere della repressione di Stalin contro i contadini, Žižek spiega come la distinzione tra i kulaki (i contadini ricchi) e gli altri divenne “sfumata e inutilizzabile: in una situazione di povertà generalizzata, non si potevano più applicare criteri chiari e le altre due classi di contadini spesso si univano ai kulaki nella loro resistenza alla collettivizzazione forzata.” In risposta a questa situazione, le autorità sovietiche introdussero una nuova categoria, i sotto-kulaki, un contadino troppo povero per essere classificato come kulak ma che ne condivideva i valori: di conseguenza, l’arte di identificare un kulak non era più una questione di analisi sociale oggettiva; divenne una sorta di complessa “ermeneutica del sospetto”, di identificazione delle “vere attitudini politiche” di un individuo nascoste dietro le sue ingannevoli dichiarazioni pubbliche.

Descrivere lo sterminio di massa in questo modo, come un esercizio di ermeneutica, è ripugnante e grottesco; è anche caratteristico dell’opera di Žižek. Egli critica la politica di collettivizzazione di Stalin, ma non per via dei milioni di vite umane che vennero stroncate con violenza o distrutte nel suo corso. Quello che Žižek contesta è il costante attaccamento di Stalin (seppure incoerente e ipocrita) ai “termini marxisti scientifici”. Fare affidamento sull’“analisi sociale oggettiva” per ottenere una guida nelle situazioni rivoluzionarie è un errore: “a un certo punto, il processo deve essere abbreviato con un intervento massiccio e brutale della soggettività: l’appartenenza di classe non è mai un fatto puramente oggettivo, ma è sempre anche il risultato di lotta e impegno sociale.” Anziché il costante ricorso a torture e forza letale da parte di Stalin, Žižek condanna il fatto che egli abbia cercato di giustificare l’uso sistematico della violenza con il riferimento alla teoria di Marx.

Il rifiuto di Žižek per qualunque cosa possa essere descritta come fatto sociale viene insieme alla sua ammirazione della violenza nella sua interpretazione del nazismo. Commentando il coinvolgimento molto discusso del filosofo tedesco Martin Heidegger con il regime nazista, Žižek scrive: “Il suo coinvolgimento con i nazisti non fu un semplice errore, quanto piuttosto ‘un giusto passo nella direzione sbagliata’”. Contrariamente a molte interpretazioni, Heidegger non era un reazionario radicale. “Leggendo Heidegger controcorrente, si scopre un intellettuale che era, in alcuni punti, stranamente vicino al comunismo” – in effetti, durante la metà degli anni ’30, Heidegger potrebbe essere descritto come “un futuro comunista”.

Se Heidegger scelse erroneamente di sostenere Hitler, lo sbaglio non fu nel sottostimare la violenza che Hitler avrebbe dispiegato. Il problema di Hitler era che non era “sufficientemente violento”, la sua violenza non era abbastanza “essenziale”. Hitler non agì veramente, tutte le sue azioni furono fondamentalmente delle reazioni, perché operò in modo che nulla cambiasse veramente, mettendo in scena un gigantesco spettacolo di pseudo-rivoluzione così che l’ordine capitalista sopravvivesse … Il vero problema del nazismo non è che “si spinse oltre” nella sua hubris soggettivista-nichilista di esercizio del potere totale, ma che non si spinse abbastanza lontano, che la sua violenza fu un’impotente messa in scena che, alla fine, rimase al servizio di quello stesso ordine che disprezzava.
Sembra che ciò l’errore del nazismo, come del più recente esperimento di rivoluzione totale dei Khmer rossi, sia stato quello di non riuscire a creare un qualunque tipo di nuova vita collettiva.

Žižek dice poco riguardo alla natura della forma di vita collettiva che sarebbe potuta nascere se la Germania fosse stata governata da un regime meno reattivo e potente di quanto sia stato quello hitleriano nel suo giudizio. Egli chiarisce che in questa nuova vita non ci sarebbe stato spazio per una forma particolare di identità umana: il fantomatico status dell’anti-semitismo è chiaramente rivelato da un’affermazione attribuita a Hitler: “Dobbiamo uccidere gli ebrei tra noi.” … L’affermazione di Hitler dice più di quanto non voglia: contro le sue intenzioni, essa conferma che i gentili hanno bisogno della figura anti-semita dell’“ebreo” per mantenere la propria identità. Quindi non è soltanto che “gli ebrei sono tra noi” – quello che Hitler dimenticò significativamente di aggiungere è che anche lui, l’anti-semita, è tra gli ebrei. Cosa implica questo intreccio paradossale per il destino dell’anti-semitismo?
Žižek è esplicito nel censurare “certi elementi della Sinistra radicale” per il “loro disagio nel condannare senza ambiguità l’anti-semitismo”. Ma è difficile comprendere la tesi secondo cui le identità degli anti-semiti e del popolo ebraico, in qualche maniera, si rafforzino reciprocamente – cosa che viene ripetuta, parola per parola, in Less Than Nothing— salvo suggerire che il solo mondo in cui l’anti-semitismo può smettere di esistere è quello in cui non ci sono più ebrei.

Interpretare Žižek su questo o su qualsiasi altro argomento non è compito privo di difficoltà. C’è una prolissità smoderata nel flusso dei testi che nessuno potrebbe leggere nella sua interezza, se non altro perché il torrente non cessa mai di scorrere. C’è il suo uso di gergo accademico caratterizzato da riferimenti allusivi ad altri intellettuali, che ha l’effetto di consentirgli un impiego del linguaggio abile ed ermetico. Come Žižek stesso riconosce, egli prende in prestito il termine “violenza divina” dalla “Critique of Violence” (1921) di Walter Benjamin. E’ discutibile se Benjamin, intellettuale che ebbe affinità importanti con il marxismo umanista della Scuola di Francoforte, avrebbe descritto la frenesia distruttiva della Rivoluzione culturale di Mao o dei Khmer Rossi come divina. Ma ciò va aldilà del nostro punto, perché utilizzando la costruzione di Benjamin, Žižek è in grado di elogiare la violenza e, allo stesso tempo, sostenere che sta parlando della violenza in un senso speciale, recondito, un senso in cui Gandhi può essere descritto come più violento di Hitler. E c’è il ricorso regolare da parte di Žižek a un laborioso gioco di parole clownesco.

La… virtualizzazione del capitalismo è, in definitiva, la stessa di quella dell’elettrone nella fisica delle particelle. La massa di ogni particella elementare si compone della propria massa a riposo più il surplus offerto dall’accelerazione del suo movimento; tuttavia, la massa di un elettrone a riposo è zero, essa consiste solo del surplus generato dall’accelerazione, come se stessimo trattando con un nulla che acquisisce una certa sostanza artificioso solo mulinando magicamente su se stesso in un eccesso di sé. E’ impossibile leggere questo passaggio senza ricordare il caso di Alain Sokal, il professore di fisica che scrisse un finto articolo intitolato “Transgressing the Boundaries: Towards a Transformative Hermeneutics of Quantum Gravity” in una rivista di studi culturali postmoderni. Allo stesso modo, è difficile leggere questo e molti altri passaggi simili di Žižek senza sospettare che egli sia impegnato – consapevolmente o no – in una sorta di auto-parodia.

Ci possono essere alcune persone tentate di condannare Žižek come un filosofo dell’irrazionalismo il cui elogio della violenza ricorda di più l’estrema destra che la sinistra radicale. I suoi scritti sono spesso offensivi e, a volte (come quando scrive di Hitler presente “tra gli ebrei”), osceni. C’è una frivolezza beffarda nei peana di Žižek per il terrore che richiama più il futurismo e l’ultranazionalismo di Gabriele D’Annunzio e il suo sodale viaggiatore fascista (poi maoista) Curzio Malaparte che qualsiasi intellettuale della tradizione marxiana. Ma c’è un’altra lettura di Žižek, epigono della destra più di quanto non sia discepolo di Marx o Lenin.

Indipendentemente dal fatto che la visione del comunismo di Marx sia o meno “la fantasia capitalista inerente”, la visione di Žižek – che oltre a rifiutare le idee precedenti manca di ogni contenuto definito – si adatta bene a un’economia basata sulla produzione continua di nuovi beni ed esperienze, ciascuna diversa da tutte le precedenti. Con l’ordine capitalista dominante, consapevole di essere in difficoltà ma incapace di concepire alternative praticabili, il radicalismo senza forma di Žižek si adatta idealmente a una cultura penetrata dallo spettacolo della propria fragilità. Che ci debba essere questo isomorfismo tra il pensiero di Žižek e il capitalismo contemporaneo non è sorprendente. Dopotutto, solo un’economia come quella esistente oggi poteva produrre un pensatore come Žižek. Il ruolo di intellettuale pubblico globale in cui Žižek si esibisce è emerso insieme a un apparato mediatico e a una cultura della celebrità che sono parte integrante dell’attuale modello di espansione capitalista.

In una stupenda impresa di sovrapproduzione intellettuale Žižek ha creato una critica fantomatica dell’ordine presente, una critica che asserisce di ripudiare praticamente tutto quanto esiste attualmente e che, in un certo senso, lo fa per davvero, ma che contemporaneamente riproduce il dinamismo compulsivo e senza scopo che Žižek percepisce nelle operazioni del capitalismo. Raggiungere una sostanza apparente ripetendo ininterrottamente una visione essenzialmente vuota: l’opera di Žižek – che illustra piacevolmente i principi della logica paracoerente – alla fine equivale a less than nothing, meno di niente.

(Traduzione di Martina Toti)

  1. Sono passati più di quattro anni dall’ultimo commento. E oggi certe cose sono ancora più evidenti, come ad esempio la violenza del potere capitalistico verso gli oppressi. Almeno Zizek dice: “La verità è rivoluzionaria”. Non può quindi essere considerato un filosofo postmoderno. E oggi possiamo riparlare di comunismo, senza essere rimandati alla storia antica dell’Unione Sovietica e della Cina. Queste sono vecchie scuse apologetiche per il mantenimento dello status quo. Chi le usa è un rinnegato.

  2. Commentare Zizek è perdersi nell’erudizione centrifugata come nell’ultimo libro sulla rivendicazione di modernità di Hegel quando la critica storiografica ne ha decretato la marginalità. Per es. ritenere la dialettica hegeliana chiave privilegiata per la comprensione della contingenza significa avallare il più enfatico gioco di parole di tutta la filosofia occidenate: identificare positivo e negativo,come se dire non-uomo ed uomo avesse lo stesso significato: chiedere a Primo Levi. Detto questo ognuno può continuare a fare affari con l’editoria.

    • la tua è la solita critica idiota e moralista a hegel che non ha nessuna fondatezza teorica. tanto per iniziare uomo e non-uomo non è una contraddizione dialettica. io non so se hai letto il libro di zizek (o se hai mai letto 5 minuti di hegel che non sia su un manuale) ma se lo hai fatto sai benissimo che due concetti per essere in rapporto dialettico devono essere generati l’uno dall’altro, mostrare il principio di determinazione oppositiva e di negazione determinata. quindi questa solita critica politicamente corretta fondata non sulla filosofia ma sull’incapacità di metabolizzare l’orrore che la storia ci mostra ha veramente stancato. hegel e deleuze sono due poli in correlazione essenziale: è la tragedia che ci mette di fronte all’ironia (in senso socratico ma non solo), alla necessità di persistere nel volere, nel insistere a essere soggetto che, aldilà delle non risposte di nietzsche, heidegger e il postmoderno, rimane l’unica resistenza al dominio della tecnica.

  3. No niente, solo che l’elettrone ha massa a riposo di mezzo MeV. È il fotone che non ha massa ( ma non esistono fotoni a riposo) insomma, discutete di quel che sapete, non di quel che non conoscete!

  4. Il Lacan degli anni ’70 si impegna nella distinzione tra sapere e verità. Gray non ha capito niente del post marxismo di Zizek, che non deduce la rivoluzione dalla storia, ma la induce come desiderio isterico di verità.

  5. Di Zizek ho visto i film, ascoltato qualche conferenza e letto qualche articolo. Insomma, non molto, soprattutto rispetto al totale. Ma leggere che Zizek non condanna il socialismo reale per i suoi crimini, ma per la sua essenza sostanzialmente non comunista, che Zizek da buon post-strutturalista non usa un concetto tarskiano di verità ma lo applica ai conflitti sociali, che per Zizek Heidegger era un nazista non abbastanza nazista e che forse perfino Hitler non era abbastanza nazista, in quanto il nazismo ha realizzato un compormesso storico con il capitalismo di notevole portata, che per Zizek ebrei e persecutori degli ebrei sono gruppi antropologicamente inestricabili, che Zizek è il D’Annunzio della sinistra contemporanea, tutto questo non solo non lo trovo osceno ma perfino sensato, ma non mi allontana affatto, anzi mi attira come giovane, come persona interessata di politica e come filosofo. Se si nota, l”unica argomentazione esplicita dell’articolo, a parte il sotteso bacchettonismo teso a scandalizzare il lettore, è che Zizek è tutta (post)fuffa, come la società (post)capitalista che analizza. Non è un atteggiamento (post)fuffesco anch’esso? Inoltre mi sembra riduttivo il ruolo del lacanismo in questa interpretazione dell’opera di Zizek. Ovviamente Lacan non ha nulla a che vedere con ciò che viene scritto nell’articolo, essendo invece una teoria psicoanalitica (discutibilissima) che risulta centrale nell’opera di Zizek, soprattutto nella sua struttura profonda di analisi della relazione tra sintomo, malattia, desiderio e soddisfazione. L’analisi che Zizek fa della politica attraverso la lente psicoanalitica non implica un fine pratico di tipo politico, ma di tipo psicoanalitico. Tralasciare questo fatto significa criticare Zizek su un piano del tutto diverso rispetto a quello del testo. Fine certamente nobile e persino utile, ma inequivocabilmente poststrutturalista. Non si critichi quindi il poststrutturalismo in quanto tale, se si è poststrutturalisti in modo implicito. Altrimenti si dovrà procedere a una decostruzione poststrutturalista del testo anti-poststrutturalista che ne dimostra il poststrutturalismo occulto.

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