Napolitano torna sulla storia del Pci
E ripropone il pluralismo di Berlin

Ripubblichiamo integralmente, dal sito ufficiale del Quirinale, l’intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, del 10 dicembre 2014, alla Accademia dei Lincei.

Nel dare avvio al ciclo 2009-2010 delle Conferenze a Classi riunite, il Presidente Maffei pose drammaticamente l’accento sul degrado dei comportamenti sociali, alla base del quale stanno – egli disse – “la noncuranza e il disprezzo della cultura e più in generale la perdita di valori tradizionali…”. La sua diagnosi fu quella di una vera e propria “degenerazione o atrofia culturale del tessuto sociale, che tende a espandersi come una pericolosa epidemia”. Di qui venne l’invito a illustri oratori a sviluppare, in una serie di Conferenze a Classi riunite, l’analisi di così pericolose patologie e a suggerire contributi per averne ragione, in nome dei valori che l’Accademia ha il dovere di difendere e di trasmettere alle nuove generazioni nella loro sempre viva essenzialità.

E in effetti seguirono Conferenze ricche di problematiche e di riflessioni dalle quali emergevano esperienze e sollecitazioni riferite ai valori da ciascuno pensati e vissuti.

L’affettuosa insistenza del Presidente Maffei per associarmi a quest’esercizio si spiega, credo, con l’importanza che egli attribuisce al campo della politica come epicentro – ormai da tempo – dei fenomeni degenerativi denunciati e in pari tempo luogo deputato a combatterli. È comunque questo, chiaramente, l’angolo visuale dal quale posso pormi, considerata la durata e le caratteristiche di un’esperienza politica che ha abbracciato la mia vita fin dalla prima giovinezza, passando attraverso molte tensioni proprie del tempo che ho attraversato.

Tra le voci che si sono levate ai Lincei illuminando le radici antiche della nostra riflessione di oggi, mi piace richiamare quella di un maestro come Paolo Rossi Monti:

“Nel primo Seicento” – egli disse nella Conferenza del 12 marzo 2010 – “tra le ragioni del rapido successo della scienza dei moderni, sta la piena e convinta assunzione, da parte dei sostenitori della nuova scienza, di quel mondo di valori che fanno riferimento all’appartenenza ad una comunità, ai doveri verso i cittadini, al bene comune”. Ebbene – lasciando nello sfondo l’analisi storica che a grandi linee Paolo Rossi poi evocò – penso che possiamo ancor oggi indicare in quei valori da lui citati la premessa essenziale di un qualsiasi riconoscimento delle ragioni della politica e quindi di ogni forma di partecipazione al suo esercizio complessivo.

Inutile dire che in periodi storici tra loro molto diversi e lontani, oscillanti e contradditorie sono state le sorti del processo di consolidamento di un’autentica identità e coscienza comunitaria, di una diffusa compenetrazione con le esigenze dei cittadini e con le istanze del bene comune. Nella prima metà del secolo scorso c’è stata in larga misura, nella nostra Europa, un’eclisse di quei valori, democratici e solidaristici, determinata dall’avvento e dal feroce dominio del nazifascismo. E ciò di cui discutiamo e ci preoccupiamo oggi – in questo inizio, ancora, degli anni 2000 – è, sia pure in ben altro contesto, di nuovo un oscuramento di parametri essenziali del comune vivere civile, tra i quali il rispetto della cultura e la cultura del rispetto: rispetto, innanzitutto, delle istituzioni e delle persone. Rischiamo, nella fase attuale, il logoramento e la perdita delle conquiste del periodo di riscatto e di avanzamento conosciuto dall’Europa nella seconda metà del Novecento.

Consentitemi qui almeno un breve richiamo alla stagione che vissi e di cui sono rimasto tra i sempre meno numerosi testimoni: la stagione della rinascita, in Italia, della politica come dimensione morale e ideale dell’essere persona e dell’essere cittadino. La politica sequestrata e stravolta dal fascismo in quanto regime liberticida e autoritario, in quanto monopolio del potere – repressivo di ogni confronto di idee e di posizioni – aveva visto staccarsi da essa, con disgusto e disprezzo, le nuove generazioni. La politica riapparve come qualcosa di nuovo e pulito attraverso i canali di un apprendistato giovanile anti-fascista nel pieno della guerra, e infine attraverso l’esperienza dirompente della Resistenza. Quel fenomeno venne analizzato da un giovane intellettuale straordinariamente dotato, che fu tra i primissimi caduti della nostra Resistenza, Giaime Pintor: e fu da lui identificato come “la corsa verso la politica” da parte dei migliori, simile “a quello che avvenne in Germania quando si esaurì l’ultima generazione romantica. Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo”.

E in effetti, durò degli anni in Italia, oltre la Liberazione del 1945, quell’afflusso di massa di nuove energie all’attività politica, quello slancio di partecipazione che si accompagnò innanzitutto al processo costituente, fondativo di un nuovo ordine democratico nel nostro paese, e si tradusse in robusta crescita dei partiti politici, e in vitale competizione tra essi su basi formative e programmatiche serie e degne.

Nella complessa esperienza di più decenni di vita dell’Italia repubblicana, si succederono e via via si intrecciarono straordinarie trasformazioni e manifestazioni di progresso in senso economico, sociale, civile, culturale, e in pari tempo contraddizioni, ambiguità, deviazioni che avrebbero finito per inquinare gravemente la vita pubblica, lo sviluppo della società e i corpi dello Stato, fino a esplodere all’inizio degli anni ’90.

Non sto quindi – sia chiaro – tratteggiando un’evoluzione lineare e indolore dell’Italia rinata, dopo il fascismo e con la Costituzione, alla politica democratica nella ricchezza delle sue ispirazioni e nel rigore delle sue regole. Non potrei tendere a idoleggiamenti del genere, essendo stato tanto partecipe, anche con responsabilità rilevanti come Presidente della Camera dei Deputati, di un momento cruciale di emersione dei lati più deboli e oscuri di una prassi pluridecennale di gestione dei rapporti politici e del potere di governo.

È però vero che è tipico degli anni più recenti il declinare se non il dissolversi di valori e di costumi che avevano retto a lungo, ad esempio nella vita parlamentare, in quella sfera importante della politica che è stata sempre costituita dai rapporti in Parlamento tra tutte le forze politiche che vi fossero rappresentate.

Pur essendosi registrati già in periodi precedenti casi gravi di strappi alle regole e al clima abituali nelle aule parlamentari, mai era accaduto quel che si è verificato nel biennio ormai alle nostre spalle, quando hanno fatto la loro comparsa in Parlamento metodi e atti concreti di intimidazione fisica, di minaccia, di rifiuto di ogni regola e autorità, e in sostanza tentativi sistematici ed esercizi continui di stravolgimento e impedimento dell’attività politica e legislativa di ambedue le Camere.

Di che cosa si è trattato (ed è difficile pensare che stia per cessare)? Quando si verifichi quel che abbiamo potuto tutti seguire, attraverso le cronache televisive, il colpire cioè, impunemente, il funzionamento degli istituti principali della democrazia rappresentativa, non solo si stracciano in un solo impeto una pluralità di valori tradizionali o comunque vitali, ma si configura la più grave delle patologie con cui siamo chiamati come paese civile a fare i conti: quella che penso possiamo chiamare la “patologia dell’anti-politica”.

Essa si è espressa e si esprime in molte altre forme, fuori dal Parlamento, costringendoci a fare più complessivamente il punto sul travaglio che l’Italia ha vissuto dal 1992 ad oggi. Un moto di accesa contestazione nei confronti della politica, e per essa dei partiti e delle istituzioni rappresentative, si era fatto sentire fin dalla fine degli anni ’80: reagendo ad abusi di potere, catene di corruzione, inquinamenti nella selezione dei candidati a incarichi pubblici e in generale nei meccanismi elettorali. Di qui lo stimolo e il sostegno all’opera della magistratura, simboleggiata dall’attività del pool Mani pulite. Far pulizia nel mondo della politica e riformare regole e istituzioni indubbiamente logoratesi o risultate inadeguate, apparvero i due imperativi della stagione 1992-94.

E risultati non certo irrilevanti si registrarono in ambedue i sensi: con un rimescolamento assai vasto dei gruppi dirigenti dei partiti, addirittura con la scomparsa o dispersione di alcuni di essi, e con la riforma delle leggi elettorali per il Parlamento e per i Comuni. E se si è detto molto su quel che allora mancò, si è stati molto restii a riconoscere gli sforzi che successivamente, nel corso di anni più o meno recenti, si sono fatti: impegni concreti e ulteriori passi sulla via del rinnovamento, inteso ad esempio come superamento di posizioni di privilegio nell’ambito pubblico.

Si possono deplorare i ritardi e le riluttanze con cui le istituzioni pubbliche abbiano effettivamente preso decisioni e operato su quel terreno, a salvaguardia del prestigio della politica o al fine di superarne la crisi. D’altronde, non deve mai apparire dubbia la volontà di prevenire e colpire infiltrazioni criminali e pratiche corruttive nella vita politica e amministrativa che si riproducono attraverso i più diversi canali come in questo momento è emerso dai clamorosi accertamenti della magistratura nella stessa capitale. Eppure, il dato saliente resta quello del dilagare, ormai da non pochi anni a questa parte, di rappresentazioni distruttive del mondo della politica. Sono dilagate analisi unilaterali, tendenziose, chiuse a ogni riconoscimento di correzioni e di scelte apprezzabili, per quanto parziali o non pienamente soddisfacenti.

Di ciò si sono fatti partecipi infiniti canali di comunicazione, a cominciare da giornali tradizionalmente paludati, opinion makers lanciatisi senza scrupoli a cavalcare l’onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo, e anche, per demagogia e opportunismo, soggetti politici pur provenienti dalle tradizioni del primo cinquantennio della vita repubblicana. Ma così la critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obbiettività, senso della misura, capacità di distinguere ed esprimere giudizi differenziati, è degenerata in anti-politica, cioè, lo ripeto, in patologia eversiva. E urgente si è fatta la necessità di reagirvi, denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni, impegnandoci in pari tempo su scala ben più ampia non solo nelle riforme istituzionali e politiche necessarie, ma anche in un’azione volta a riavvicinare i giovani alla politica valorizzando di questa, storicamente, i periodi migliori, più trasparenti e più creativi. Un tale impegno, volto a rovesciare la tendenza alla negazione del valore della politica, e anche del ruolo insostituibile dei partiti, richiede l’apporto finora largamente mancato della cultura, dell’informazione, della scuola.

Certo, so bene che fatale è stato, per mettere in crisi soprattutto l’avvicinamento dei giovani alla politica, l’impoverimento culturale degli attori e dei punti di riferimento essenziali, cioè dei politici e dei partiti. L’ho percepito e l’ho scritto quasi 10 anni fa, nella mia autobiografia politica, scritta anche in vista del commiato da pubbliche responsabilità. Insisto sul dato dell’impoverimento culturale, inteso come smarrimento di valori, verificatosi anche per effetto di uno spegnimento delle occasioni di formazione e di approfondimento offerte nel passato dai partiti in quanto soggetti collettivi dotati di strumenti specifici e qualificati. È stato questo un fattore decisivo anche di impoverimento morale. Perché la moralità di chi fa politica poggia sull’adesione profonda, non superficiale, a valori e fini alla cui affermazione concorrere col pensiero e con l’azione. Altrimenti l’esercizio di funzioni politiche può franare nella routine burocratica, nel carrierismo personale, nella ricerca di soluzioni spicciole per i problemi della comunità, se non nella più miserevole compravendita di favori, nella scia di veri e propri circoli di torbido affarismo e sistematica corruzione.

Cari amici, ho cercato di suggerire qualche elemento di risposta sui caratteri della crisi che ha segnato un grave decadimento della politica nel nostro paese, contribuendo in modo decisivo a un più generale degrado dei comportamenti sociali, a una più diffusa perdita di valori che nell’Italia repubblicana erano stati condivisi e risultati operanti per decenni, sull’onda della sconfitta del fascismo e sulla base dello straordinario disegno ed impulso venuto dall’Assemblea Costituente. Dare nuova vita e capacità diffusiva a quei valori richiede oggi e nel prossimo futuro una larga mobilitazione collettiva volta a demistificare e mettere in crisi le posizioni distruttive ed eversive dell’anti-politica, e insieme, s’intende, a sollecitare un’azione sistematica di riforma delle istituzioni e delle regole che definiscono il ruolo e il profilo della politica.

E questo sforzo deve coinvolgere tutte le componenti dello schieramento politico, perché valori come quelli del rispetto delle istituzioni, della valorizzazione del merito e della cultura, della consapevolezza del bene comune, rappresentano il sostrato e la garanzia di una fruttuosa convivenza politica, entro la quale ogni forza, ogni idealità, ogni competizione per la guida del paese, possa riconoscersi e giuocare il suo ruolo.

E qui mi si lasci fare un pur brevissimo accenno a come quel che sono venuto dicendo riguardi anche l’Europa e il nostro rapporto con l’ulteriore corso del progetto di integrazione europea. Svalutazioni sommarie, posizioni liquidatorie hanno sempre di più negli ultimi tempi messo in questione anche le istituzioni, le politiche, le rappresentanze europee. Gli ingredienti dell’anti-politica in ciascuno dei nostri paesi si sono confusi con gli ingredienti dell’anti-europeismo. A ciò hanno certamente contribuito miopie e ritardi delle istituzioni comunitarie insieme a calcoli opportunistici degli Stati membri. Ma si è così finito per far cadere in ombra lo straordinario contributo al mantenimento della pace, al benessere economico e alla tutela dei diritti che l’Unione Europea ha saputo via via garantire ai suoi cittadini: in particolare alle più giovani generazioni che hanno la fortuna di crescere in un continente per la prima volta senza frontiere e barriere interne.

Signor Presidente, Signori Soci, ho inteso che si attendesse da me qualche riflessione sul tema del deperire, nonché del possibile recupero e rilancio, di valori di fondo, etici e civili, cui si conformino i comportamenti individuali e collettivi in ogni ambito della vita sociale. Valori che non dovrebbero conoscere confini di parte, e la cui condivisione dovrebbe anzi facilitare il dialogo e le opportune intese tra forze diverse su questioni di interesse generale, in nome – non retoricamente – del bene comune.

Mi sono però posto il problema se non sbagliassi, interpretando l’ambito di una conferenza sui valori, a trascurare del tutto il discorso sui valori intesi piuttosto come tratti caratterizzanti della visione propria di uno schieramento politico o politico-culturale: visione, intendo, del presente e del futuro della società. Valori che facciano quindi tutt’uno con gli ideali e i programmi di forze politiche in competizione tra loro per la conquista della maggioranza dei consensi o dell’egemonia nel confronto ideale e culturale.

A proposito della crisi dei partiti in Italia, manifestatasi a partire dai primi anni ’90, si è da qualche parte indicato nel decadere della “forza degli ideali” una delle sue matrici principali.

Ma questo discorso, che ha certamente un suo senso, non può non partire da più lontano. Dev’essere adeguatamente storicizzato e non può, a mio avviso, che partire dalla metà del Novecento. E mi ci riferirò anche in termini di esperienza personale, ricordando quel che significò il duro impatto della guerra fredda, già a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 dello scorso secolo, su quella che si era profilata come possibile competizione virtuosa, in Italia, tra alcune grandi correnti ideali, emerse come le più ricche potenzialmente dall’esperienza dell’antifascismo e della Liberazione. Ogni disputa sugli ideali e sui valori venne drasticamente ideologizzata, poco dopo la conclusione del processo costituente che ne era uscito fortunatamente indenne. Gli ideali del socialismo da una parte, sotto l’egida della sinistra socialista e comunista, e quelli del popolarismo e solidarismo cristiano, dall’altra parte, sotto l’egida della Democrazia Cristiana, furono entrambe “sequestrati” dalla logica delle scelte di campo, della sfida tra Oriente e Occidente. Chi ne pagò maggiormente il prezzo fu la sinistra, dividendosi e cadendo in contraddizioni insuperabili.
L’area socialista della sinistra italiana si divise anche nel suo seno, né fu capace di esprimere una conseguente caratterizzazione riformista, sfidando e attraendo su quel terreno la forza comunista. Quest’ultima, benché portatrice di un’elaborazione originale, che recava l’impronta forte del pensiero di Gramsci e nonostante potesse, soprattutto, esibire una formidabile esperienza di lotta per la libertà contro il fascismo, non riuscì a liberarsi dalla matrice di partito rivoluzionario, fedele al retaggio dell’Internazionale comunista e al mito del socialismo realizzato in Unione Sovietica con la leadership di Stalin. Questo complessivo travaglio della sinistra condizionò pesantemente la politica italiana, praticamente impedendo l’affermarsi di alternative di governo alle coalizioni dominate dalla DC e di una evoluzione della politica italiana verso una operante democrazia dell’alternanza.

Cambiamenti importanti si fecero gradualmente strada – tra tensioni e dissensi – all’interno del PCI, e non è questa la sede perché io dica autobiograficamente come ci muovessimo, ma non riuscendovi, a caratterizzare fino in fondo una svolta in senso riformista e socialdemocratico del PCI, prima del crollo del muro di Berlino e con esso del sistema e dell’impero sovietico. Interessa, nell’ambito della riflessione di questa sera, piuttosto mettere in evidenza come “la forza degli ideali” che animò la straordinaria ascesa dei partiti antifascisti in Italia, risultò corrosa dai condizionamenti della guerra fredda e compromessa dall’inadeguatezza delle forze dirigenti di quei partiti a rinnovare profondamente le loro culture originarie – rappresentative, ciascuna, di un mondo di valori e di ideali – in cui si erano nonostante tutto, e per un periodo non breve, riconosciute larghe masse di militanti e di elettori. Non si fu capaci, a questo proposito, di attingere abbastanza a contributi di pensiero liberi, aperti, innovativi, venuti già nell’ultima parte del secolo scorso, da studiosi di diverse provenienze, non condizionati dagli schemi dottrinari e dalle contrapposizioni ideologiche a lungo imperanti. A quel tipo di contributi – sui grandi temi della libertà, della giustizia, delle riforme, dello sviluppo – avrebbero dovuto con ben maggiore coraggio e disponibilità intellettuale rivolgersi soprattutto quelle forze di sinistra che sbarazzandosi degli ideologismi avrebbero così potuto non impoverirsi o svuotarsi culturalmente.

E desidero citare qui ad esempio l’apporto di un grande studioso di storia delle idee, Isaiah Berlin. In particolare, nella sua splendida orazione per il Premio Agnelli ricevuto a Torino nel 1988 – “La ricerca dell’ideale” (The Pursuit of the Ideal”) – egli mise in evidenza un punto cruciale, in un modo che risultò illuminante anche per me:

Quello che è chiaro – sono le sue parole – è che i valori possono scontrarsi tra loro. (…) L’incompatibilità dei valori può essere tra culture diverse, tra gruppi della stessa cultura o fra te e me. (…) Può benissimo accadere che vi sia un conflitto di valori nell’animo di uno stesso individuo; e non è detto che per questo alcuni debbano essere veri e altri falsi. (…) La giustizia, una giustizia rigorosa, è per alcuni un valore assoluto, ma non sempre è compatibile nelle vicende reali, con la pietà, con la misericordia, cioè con valori che possono essere altrettanto assoluti agli occhi di quelle stesse persone. (…) Libertà e uguaglianza sono tra gli scopi primari perseguiti dagli esseri umani per secoli ; ma una totale libertà dei potenti, dei capaci, non è compatibile col diritto che anche i deboli e i meno capaci hanno a una vita decente. (…) Senza un minimo di libertà ogni scelta è esclusa e perciò non c’è possibilità di restare umani nel senso che attribuiamo a questa parola ; ma può essere necessario mettere limiti alla libertà per fare spazio al benessere sociale (…) per non ostacolare la giustizia e l’equità.

E in quello stesso testo di Isaiah Berlin, si trovano anche argomenti essenziali sul tema delle utopie:

Le utopie hanno il loro valore – non c’è nulla che allarghi così meravigliosamente gli orizzonti immaginativi delle potenzialità umane – ma come guide al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali. La mia conclusione è che l’idea stessa di una soluzione finale non è soltanto impraticabile ma è anche incoerente. (…) Infatti se veramente si crede che una tale soluzione sia possibile, è chiaro che nessun prezzo sarebbe troppo alto, pur di ottenerla: arrivare a una umanità giusta, felice, creativa e armoniosa, arrivarvi una volta per tutte, per sempre – quale costo potrebbe essere troppo alto di fronte a questo traguardo? (…) Potranno essere giustificati i sacrifici per fini a breve scadenza (…) Ma gli olocausti in nome di fini remoti, no: è solo una crudele irrisione di tutto ciò che gli uomini hanno caro, ora e in qualsiasi tempo.

Sappiamo a quali, terribili vicende storiche del Novecento, a quali “utopie” e “soluzioni finali” Berlin si riferiva.

E se oggi è facile dire che nella sinistra, in Italia o in Europa, non si professano più utopie e ricette rivoluzionarie né si invocano politiche coercitive in loro nome, il monito di Berlin non perde la sua validità. Perché esistono – magari al di fuori di ogni etichettatura di sinistra o di destra – gruppi politici o movimenti poco propensi a comportamenti pienamente pacifici, nel perseguire confuse ipotesi di lotta per una “società altra” o per una “alternativa di sistema”. Virus di questo genere circolano ancora in certi spezzoni di sinistra estremista o pseudo-rivoluzionaria, e concorrono ad alimentare la degenerazione del ricorso alla violenza, mascherato da qualsiasi fuorviante motivazione. Esiste un rischio nel nostro paese, di focolai di violenza destabilizzante, eversiva, che non possiamo sottovalutare, evitando allo stesso tempo l’errore di assimilare a quel rischio tutte le pulsioni di malessere sociale, di senso dell’ingiustizia, di rivolta morale, di ansia di cambiamento con cui le forze politiche e di governo in Italia debbono fare seriamente i conti.

Alcuni anni fa, Paolo Rossi, al quale ho piacere di rendere rinnovato omaggio, toccò da par suo il tasto delle posizioni presenti tra gli intellettuali e nel dibattito pubblico, che concorrono a diffondere esasperazioni distruttive dei giudizi critici sulla situazione dell’Italia, dell’Europa, del mondo, spingendo nella stessa direzione agitatoria inconcludente e dannosa, o destabilizzante dell’ordine democratico, nello stesso senso che prima indicavo in rapporto a fenomeni di diversa matrice.

Nella sua operetta “Speranze”, Rossi stroncò magistralmente e con coraggio l’influenza fuorviante che esercitano i “senza speranze”: la “letteratura apocalittica, le previsioni catastrofiche dubbie o fallite, il rifiuto dell’incertezza” e così via.

E in termini egualmente impietosi, egli analizzò i portatori di “smisurate speranze”, non insensibili al “fascino delle rivoluzioni”. Indicò infine, con grande sapienza storica, la strada maestra delle “ragionevoli speranze”, da coltivare “con perseveranza” e con “ogni sobrietà, giorno per giorno”. Mi auguro siano risultate tali quelle ricavabili dalle mie considerazioni sulla politica, tenendoci ben lontani sia dai “senza speranze” sia dai banditori di “smisurate speranze”.

In questo inaspettato prolungamento del mio mandato istituzionale ho avuto la fortuna di incontrare molti giovani all’inizio della loro esperienza parlamentare e di governo, cui sono giunti spesso senza alcun ben determinato retroterra. A ciascuno di loro ho cercato di ricordare quanto sia importante impegnarsi a fondo e con umiltà nell’attività politica, con spirito di servizio e scrupolo nell’approfondimento di merito delle principali questioni che coinvolgono la nostra comunità. Sono convinto che questa sia la strada migliore per porre i loro talenti al servizio del Parlamento e del paese, impedendo l’avvitarsi di cieche spirali di contrapposizione faziosa e talora persino violenta, e invece alimentando, appunto, “ragionevoli speranze” per il futuro dell’Italia e dell’Europa.

Ho concluso. Grazie per la pazienza e per l’attenzione. E lasciatemi cogliere questa occasione per ringraziarvi molto più in generale: per come mi avete accolto, in tutti questi anni, qui ai Lincei. È stato qualcosa – ne ha detto stasera qui, con bellissime, generose parole, il Presidente Maffei – che mi ha profondamente toccato, sorretto, arricchito.

 

Foto di Andreas Solaro/Afp.

  1. Ringrazio la rivista Reset per aver ripubblicato queste alte riflessioni di un grande Presidente della nostra Repubblica nell’occasione della sua uscita di scena, che mi danno occasione per un commosso omaggio.
    Le sue riflessioni e i suoi richiami alle parole di un grande teorico liberale sui valori in politica, sui loro scontri reali o apparenti e sul significato delle utopie ci tolgono ogni malinconia di circostanza perché, come nella chiusura di un grande cerchio, ci appare evidente come nella biografia di Giorgio Napolitano i migliori frutti dell’epopea comunista in Italia si dimostrano diretta eredità del grande pensiero democratico borghese di ascendenze risorgimentali e oggi vanno a costituire seme sotto traccia di quanto di meglio il futuro saprà portare.
    Da Giorgio Amendola a Giorgio Napolitano, che il patrimonio delle idee di milioni di donne e di uomini che si sono battuti per un’Italia migliore non muoia mai nella nostra coscienza collettiva.

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