Al Corriere pensano al futuro o a salvarsi?

Seconda puntata dell’inchiesta sul quotidiano di via Solferino. La prima qui.

Non c’è solo l’affaire spagnolo di nome Recoletos a menar scandalo nella vicenda del “profondo rosso” della Rcs-Corriere della Sera. Indice, quantomeno, a voler essere buoni, di pessima gestione amministrativa e di imperizia e superficialità imprenditoriale. C’è pure il “caso buonuscite”. Cioè liquidazioni o bonus, previsti per i manager che lasciano il gruppo editoriale anzitempo. Indipendentemente dalla durata o dalla conclusione del contratto. Ma anche di “buonentrate”, a dir la verità. Ovvero, incentivi per accettare di diventare un manager Rcs. Un bonus d’ingresso. Come una fiche.

È il caso di Antonello Perricone, per altro titolare, sponsor e certificatore dell’affaire Recoletos, che avrebbe incassato un superincentivo di un milione di euro solo per mettere piede in Rcs, prima ancora di doversi occupare dei suoi problemi e organizzazione. E dopo che, era già sfumata la sua nomina come direttore generale della Rai. E poi altri 3,4 milioni quando ha lasciato l’azienda, e proprio mentre si stavano creando le condizioni o i presupposti per avviare quel piano di ristrutturazione della Rcs che oggi prevede il taglio di 800 dipendenti tra Italia e Spagna e un netto ridimensionamento del “perimetro industriale” dell’azienda editoriale. E con già un primo “stato di crisi” aperto e anche consumato.

Nel 2007, per altro, c’era chi scriveva che via Solferino aveva speso negli ultimi quattro anni di riferimento – 2002-2006 – «quasi 30 milioni fra buonuscite e buonentrate per oliare il frenetico turn over dei suoi manager». Ma quello di Perricone, tuttavia, non è l’unico caso. Vittorio Colao, l’amministratore delegato durato in carica sì e no 24 mesi, se n’è uscito con 7,8 milioni di liquidazione (metà dei quali versati in beneficienza) come ben racconta una nota del Cdr dal titolo Buonuscite e posti di lavoro. Ma almeno lui al “piano Recoletos” s’era opposto strenuamente. E chissà se è proprio per questo contrasto all’operazione in sé che si è anche giocato il posto…

Ma non è finita: un altro ex Dg come Gaetano Mele ha ricevuto 9,6 milioni, un nonnulla dinanzi alla buonuscita ottenuta da Maurizio Romiti, figlio di Cesare, già a. d. Fiat: per lui 17 milioni dopo solo un paio d’anni al timone del gruppo. «Con 17 milioni – chiosa la nota del Comitato di redazione del Corsera – si sarebbero pagati per un anno 40 dipendenti della Rcs Quotidiani, molti dei quali venivano invece mandati in prepensionamento». Ci si giustifica: tutto era dovuto per contratto. Certo, ma chi ha fatto il contratto?

Intanto dinanzi alla gravità della situazione, il direttore del Corriere, Ferruccio De Bortoli, in una “lettera aperta“ alla redazione di riflessione sui problemi del momento, ha fatto sapere d’aver deciso il taglio unilaterale del proprio stipendio di un 20% mentre l’a.d. Pietro Scott Jovane ha optato solo per il 10. Per questo secondo beau geste, il Cdr ha però voluto sottolineare che sarebbe bello che in generale fosse «accompagnato dall’applicazione di un criterio per la corresponsione dei vari bonus e della parte variabile dello stipendio, nonché dell’eventuale buonuscita di tutti i manager del gruppo, adeguato alla gravità del momento: stabilire quelle somme in rapporto non al numero dei posti di lavoro tagliati, ma di quelli salvati». Perché, di fatto, certi tipi di remunerazione «sono giustificabili solo in presenza di risultati estremamente positivi» aveva chiosato, in occasione della liquidazione di Maurizio Romiti, Guido Roberto Vitale, l’allora presidente Rcs, anch’egli in uscita dal gruppo in quel frangente. E forse quello di Romiti jr. non era proprio quello il caso. Ma i vizi sono duri a morire. Perché pochi giorni fa i giornalisti del Corsera sono venuti a sapere, grazie ad una rivelazione de Il Fatto, che l’attuale a.d. Pietro Scott Jovane, ha guadagnato 1 milione e sessantaseimila euro in appena se mesi di lavoro. Ovvero duemilionicentoventiduemila euro l’anno.

Come va letto questo importo? Come un incentivo a ottenere un risultato nel risanamento complessivo del gruppo, magari attraverso la politica dei tagli? Di personale e rami secchi? Lo stipendio di Scott Jovane comprenderebbe anch’esso un bonus, ma di appena 675mila euro, dei quali 300mila a titolo di ingresso «in funzione della opportunità di riduzione dei tempi di entrata in carica presso la Società», come spiega la relazione sulla remunerazione della società.

Su queste premesse e notizie, vecchie e nuove, è circolata e circola tuttora una gran brutta aria al Corriere. E un po’ anche in tutte le altre testate del gruppo, non appena i vertici aziendali Rcs hanno comunicato che il quotidiano di via Solferino doveva sacrificare 110 giornalisti per rimediare ad una crisi non propria e mettere nel conto anche di dover lasciare e vendere la storica sede nel cuore di Milano. E che poi dieci testate potevano esser chiuse o messe sul mercato per far cassa. Una crisi non voluta, non certo provocata dai giornalisti, come del resto ha messo nero su bianco lo stesso direttore nella lettera alla redazione del 6 aprile: il quotidiano «è al centro della vertenza aperta dalla crisi spagnola di Rcs MediaGroup. Pur non meritandolo. Il giornale è sano, lo è sempre stato, non ha mai perso nella sua storia, conserva la sua leadership. (…) Crea cassa, non la distrugge. Non gode di alcun contributo pubblico. (…) Il Corriere è l’unica parte, quella dei quotidiani, che guadagna» ha scritto De Bortoli.

Così il direttore, nell’appello lungo e articolato, invita tutti «a fare dei sacrifici, subito, in forma equa e solidale, per garantire l’occupazione e l’inserimento dei giovani, oltre che la stabilizzazione di alcuni contratti a tempo determinato». Propone perciò un contenimento di costi pari a 12 milioni di euro, spezza una lancia nei confronti di un contratto di solidarietà tra redattori che non incida sui conti economici dell’istituto di previdenza, l’Inpgi, suggerisce modalità per contenere la dinamica espansiva del costo del lavoro, indica tagli ai benefit aziendali, spingendosi persino nel sostenere al tempo stesso l‘idea di un «prestito infruttifero all’azienda» (idea che però è stata subito rigettata), un gesto «che dimostrerebbe l’attaccamento dei giornalisti alla testata e verrebbe restituito al raggiungimento di un certo livello di Ebitda o di un certo rapporto fra Ebitda e indebitamento netto. O, in alternativa, a fine contratto individuale». Perché, dice De Bortoli, «noi crediamo alla bontà del piano di ristrutturazione e investiamo nella nostra azienda. Senza pretendere interessi, ma nell’interesse generale del giornale e del gruppo. Speriamo che anche gli azionisti e le banche facciano altrettanto. Sono sicuro che il senso di responsabilità prevarrà e che usciremo, a testa alta tutti insieme, da questa crisi spagnola della Rcs MediaGroup, salvaguardando l’occupazione, le speranze dei giovani, ma soprattutto la qualità dell’informazione offerta ai lettori».

Trentadue milioni di tagli li chiede l’azienda, che tenta disperatamente di ricostruire un margine di guadagno che tra il 2011 e il 2012 è caduto verticalmente da quota 163 a quota 61 milioni. Un’operazione che si rende necessaria al fine di ristabilire una redditività aziendale sufficiente a ottenere il rifinanziamento del debito da parte delle banche. Il direttore indica la via per raschiarne altri 12 – e fa così 44 -, altri 12 ne propone in vario modo anche il Cdr – e fa in tutto 56. E non è certo poco, anche se pure gli azionisti dovrebbero fare il loro gioco, ma qui il campo – come visto – è minato.

Dodici milioni, fa i conti il Cdr, «è l’unica bolletta» che può essere imputata a noi del Corriere, perché è la somma che si può ricavare dalla differenza tra i ricavi del giornale e i costi legati alla redazione, mentre tutto il resto che manca è colpa dell’”operazione Recoletos”, «non spetta a noi ripianare», se ne occupino i vertici aziendali che di quell’operazione sono in qualche modo corresponsabili con chi l’ha gestita in prima persona. Anche il direttore è piuttosto duro con gli azionisti: «Si registra in alcuni soci e creditori un atteggiamento di durezza incomprensibile che stride con il comportamento, assai diverso, che i medesimi soggetti tennero in circostanze analoghe quando di tratto, per esempio, di rifinanziare una compagnia aerea o un gruppo assicurativo. E la sorpresa è ancora maggiore se si tiene conto che i rappresentanti ad alto livello delle stesse istituzioni non erano né assenti né irresponsabili quando si trattò di approvare le operazioni a debito che sono all’origine della crisi del gruppo».

Da dove partire, allora, per ricavare i 12 milioni indicati dal Cdr? Intanto incrementando i ricavi digitali, mettendo dei prodotti a pagamento sul modello Financial Time oppure New York Times o anche semplicemente su quello del Sole 24 Ore, che per altro è il giornale in assoluto sul piano nazionale più avanti di tutti. Insomma, «basta con internet tutto gratuito», anche se il sito www.corriere.it nella parte generalista lo dovrà restare. Quindi ridurre la spesa per i collaboratori portandola dai 12,6 milioni di fine 2012 a 10,7 nel 2013, cercando di arrivare nel triennio (entro il 2015) non oltre i 6 milioni.

Il vero nodo è quello dei ricavi pubblicitari, per altro scesi nel primo trimestre di quest’anno del 20% rispetto allo stesso periodo di un anno fa e crollati progressivamente – per avere un’idea generale del crollo nel corso del tempo – dai 221,9 milioni del 2007 ai 152,5 del 2012 e, nella previsione aziendale, non superiori ai 138/142 per l’anno 2013. Così nello stesso periodo i ricavi aziendali sono passati da 121,5 milioni a 116,5 e per il 2013 dovrebbero attestarsi tra i 112 e i 114 milioni (di cui 7/7,5 dal digitale).

Altra voce fortissimamente ridimensionata nel corso del tempo è quella dei “collaterali” – libri, cd, dvd e altri prodotti allegati al quotidiano – che passa dagli 83 milioni del 2007 ai 42 del 2010 fino ai 34 milioni del 2012, più che dimezzata dunque. E per il 2013 non si prevede che possa fruttare oltre i 34/35 milioni. Così anche la dinamica dei ricavi vede passare il volume dai 426,9 milioni del 2007 ai 302 del 2012, con previsioni per il 2013 che potrebbero oscillare tra 285/290 milioni.

Opponendo un fermo rifiuto al piano aziendale di 32 milioni di euro di risparmi proposto dall’azienda, in quanto scaricherebbero «sui giornalisti una quota del disastro Recoletos», il Cdr del offre il suo piano che ha come base due principi: contrarietà a «sfigurare l’organico» del Corriere e «indisponibilità» ad avallare il prepensionamento «di colleghi che abbiano maturato una dotazione esigua di contributi».

Riassumendo: la Rcs potrebbe «aprire uno stato di crisi in modo unilaterale» al ministero del Lavoro sulla base dei requisiti della legge 416 sull’editoria che prevede l’uscita di 78 giornalisti tra il 2014 e il 2015 e che abbiano 58 anni d’età e almeno 18 di contributi. Però al momento non si sa ancora se la 416 verrà rifinanziata e se ci saranno i soldi per garantire i prepensionamenti. Allo stato attuale, di certo, c’è solo una lunga lista d’attesa di testate o gruppi che richiedono di accedere allo “stato di crisi” non appena il Parlamento dovesse riassegnare i fondi.

Dunque, cosa propone il Cdr? Una volta avviato lo “stato di crisi”, in applicazione dell’articolo 33 del contratto, l’azienda può avviare il pensionamento di coloro i quali abbiano maturato 35 anni di contributi e compiuto i 62 anni a partire dal 2014. In tutto si tratta di 20 giornalisti nel biennio, vicini al massimo delle tutele previdenziali (90 sono però quelli che rischiano il posto nei dieci periodici del gruppo, da vendere o chiudere in mancanza di offerte d’acquisto, e 20 i prepensionati alla Gazzetta dello Sport).

Mentre per l’intero 2013 il Cdr avvia intanto una fase di raccolta di disponibilità di quanti sono gli interessati al piano su base volontaria e incentivata. Sulla base di quest’elenco verrebbe favorita nel biennio l’uscita di altri 45-50 elementi «per un controvalore che può arrivare fino a 8,5 milioni di euro» tra gli anni ‘14-’15. «Non ci saranno esodati» garantisce il Cdr. Di pari passo l’intenzione è di avviare un piano di “smaltimento ferie” accumulate, pregresse, «che pesano per 20 milioni di euro» complessivi (valore biennale 1,5 milioni di euro) e facendo in contemporanea anche alcuni seri interventi su altre voci della retribuzione, come sospendere gli stage di aggiornamento per il 2013-2014 (valore di risparmio: 1,5 milioni) «negoziando interventi temporanei su corso di lingua e buoni libro» (risparmio 1 milione di euro). Ed ecco così raggiunto il tetto dei 12,5 milioni di risparmi complessivi.

Però su tutto aleggia sempre un dubbio, il solito: ma davvero l’azienda sta pensando e preparando il futuro, la trasformazione tecnologica, la dimensione digitale e, dunque, anche l’uscita dalla crisi e con essa il rilancio del Corriere della Sera e delle testate collegate, oppure si sta solo procedendo al taglio di un po’ di teste considerate solamente come zavorra sul semplice dato anagrafico?

Il tarlo scava perché già ai tempi del primo biennio di “stato di crisi” – 2009-2011 – vennero pensionati e prepensionati 44 giornalisti, ma nel biennio successivo (2011-2012) ne vennero assunti altrettanti per lanciare l’inserto culturale della domenica, la Lettura, unitamente alle redazioni di Bergamo e Brescia. Cioè si manda a casa personale “anziano”, che costa, per riassumerne altro, giovane, che costa meno, più flessibile e senza benefit. «Un’operazione di sostituzione a costo zero» o comunque sottocosto.
Potrebbe essere anche questa volta così?

2. continua

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