La crisi al Corriere-Rcs e il caso Recoletos

Il vero “spettro” del Corriere e della crisi Rizzoli oggi? Capire se a breve il governo rifinanzierà o meno la legge 416 sull’editoria. In particolare, la parte che dà la possibilità di accedere allo “stato di crisi” alle aziende editoriali che in cattive acque si trovano per davvero, dopo anni in cui s’è proceduto in maniera disinvolta e tante aziende se ne sono approfittate scaricando sullo Stato gli oneri di risanamenti non sempre necessari o del tutto giustificati. O di cattive gestioni contabili. Così da poter attingere ai fondi per i prepensionamenti dei giornalisti, in particolar modo, e consentire l’alleggerimento degli organici redazionali (e non solo) e – dunque – anche il raddrizzamento dei bilanci societari a venire.

Allo stato attuale, infatti, la 416 ha esaurito i fondi disponibili. Perciò tutti i piani dell’azienda e del suo amministratore delegato, Pietro Scott Jovane, sugli esuberi sono al momento solo sulla carta. Ipotetici. Virtuali. Così come lo è da mesi, ad esempio, la vendita dei dieci periodici del gruppo che non riescono ancora a trovare un acquirente (l’ultima indisponibilità all’acquisizione è venuta dall’editore Urbano Cairo, nuovo proprietario de La7). Ciò che potrebbe, se messo tutto insieme, costringere la Rcs-Corriere della Sera a dover rivedere repentinamente le proprie prospettive con conseguenze ben più gravi.

Spetta ora al governo delle larghe intese Pd-Pdl-Scelta civica, retto da Enrico Letta, decidere un adeguato rifinanziamento della legge per l’editoria. Perché intanto la situazione generale del settore è andata aggravandosi, l’area delle necessità si è fatta più estesa e le emergenze impellenti. E tutto ciò rende le aziende editoriali e anche l’informazione in generale più debole, ricattabile, addomesticabile e dipendente dalle ubbie di governo, dinanzi a esigenze contabili e finanziarie urgenti. Vuoi che ti riconosca lo “stato di crisi”? Bada a quel che scrivi. E a come lo scrivi. Punto. Tanto più in un governo dove l’azionista di riferimento, cioè che tiene in mano le redini dell’esecutivo, è Silvio Berlusconi, il magnate dei media, l’uomo della comunicazione per eccellenza, attento alla propria immagine e ai modi in cui si parla di lui. Nonché il re del conflitto d’interessi. Insomma, i sassolini accumulatisi nelle sue scarpe e da togliersi quanto prima possibile sono parecchi.

Sedici azionisti, nessun editore

Intanto manca meno di un mese alla fatidica assemblea degli azionisti Rcs, fissata per il 30 maggio, e anche su questo fronte le acque sono piuttosto agitate. Il clima proprietario è rissoso. Tra indisponibilità dei soci a finanziare la ricapitalizzazione necessaria per coprire i buchi di bilancio (800 milioni), ritrosie varie, numerosi distinguo e diffidenze. Reciproche. Ataviche. Tra i sedici azionisti di riferimento, dentro e anche fuori da un “patto” societario che nelle ultime settimane s’è però venuto indebolendo. «Undici azionisti, nessun editore» aveva scritto in tempi non sospetti (giugno 2003) lo storico del giornalismo Paolo Murialdi, quando i legami societari tra loro erano certamente un po’ più solidi. L’aveva scritto sulla sua rivista, Problemi dell’informazione, esattamente dieci anni fa in occasione del cambio di direzione al Corriere (De Bortoli, osteggiato da Berlusconi, si dimetteva in favore di un avvicendamento interno alla prima poltrona di via Solferino, quello breve e assai poco fortunato di Stefano Folli, per appena undici mesi).

Ora gli azionisti sono da tempo cinque in più e anche caos e litigiosità sono aumentati. Anche perché si sono fatte più fragili le singole posizioni economiche e finanziarie di ciascuno degli azionisti di riferimento, alle prese anch’essi con la crisi economica nei rispettivi comparti e mercati d’interesse, e poi più frastagliate anche le loro posizioni politiche, nei confronti dei singoli partiti e di tutte le coalizioni, passate, presenti e future, di governo. «C’è un po’ di turbolenza. Finché sono rimasto in Rcs abbiamo fatto sì che ci fossero pochi azionisti. In pochi azionisti si governa meglio e nessuno di loro allora si era introdotto nei giornali. Oggi non è più cosi, allora facevamo diversamente» ha dichiarato nel febbraio 2011 Cesare Romiti, presidente onorario di Rcs MediaGroup. Da tempo, nei giornali, le ingerenze si sentono. E da ogni dove.

I soci della Rcs dovrebbero garantire ora una ricapitalizzazione fino a 600 milioni di euro, di cui almeno 400 devono entrare in cassa entro e non oltre il prossimo 31 luglio. Al Cda Rcs di domenica 28 aprile, Diego della Valle, in rappresentanza della Fi. Vi. Dorint Holding, e la famiglia Benetton al gran completo attraverso la Holding Edizione (insieme rappresentato il 13,8 del capitale Rcs), si sono resi indisponibili ad un’operazione di rifinanziamento così strutturata. E guidano la fronda di chi non vuol ricapitalizzare. “Mister Tod’s”, per altro, aveva anche paventato un’azione di responsabilità nei confronti dei vertici Rcs, tirando in ballo proprio la struttura di salvataggio della società messa a punto dall’amministratore delegato, in quanto prefigurerebbe – tanto per cambiare – un palese “conflitto di interessi”: più che allo sviluppo industriale ed economico dell’azienda, il piano – secondo Della Valle – mirerebbe piuttosto a rimborsare le banche alle quali sarebbe destinata oltre la metà dei 400 milioni della prima tranche di aumento di capitale (esattamente 225 milioni) a parziale rimborso del debito pregresso di 800 milioni e ricontrattato a 600 e che corrisponde all’importo tondo di sottoscrizione del capitale, necessario – come si legge nella Piattaforma stilata dal Comitato di redazione lo scorso 11 febbraio – «non solo per evitare la procedura concorsuale in tribunale, ma soprattutto per offrire al Corriere e alle altre testate del gruppo le potenzialità per il rilancio».

Le banche, Intesa Sanpaolo – attraverso Imi – e Mediobanca, sono infatti socie di riferimento della Rcs. Dunque non resta che attendere gli sviluppi.

Intanto c’è chi all’ultima riunione del Cda Rcs ha lasciato l’incontro (Tronchetti Provera), chi ha detto di non voler investire sulla società (Bolloré per conto di Mediobanca), chi altro ha dato le dimissioni a partire dalla prossima seduta (Merloni), chi non c’è andato per nulla (Bonomi, per conflitto d’interesse e successivamente dimessosi «per impegni professionali»). Mentre l’a.d. di Intesa Sanpaolo, Enrico Cucchiani, dice che «è da irresponsabili» una bocciatura in assemblea dell’aumento di capitale.

Azionisti in azione?

Il quadro però, al momento, è piuttosto fosco. Dal punto di vista societario e della ricapitalizzazione necessaria, le sorti del quotidiano di via Solferino 28 sembrerebbero però dipendere anche molto dal comportamento di Giuseppe Rotelli, il Re della sanità lombarda che in questi giorni si trova a dover fronteggiare un’altra situazione molto onerosa, derivante dalla gestione dell’ospedale San Raffaele di Milano, con tutti i problemi lasciati aperti da Don Verzé e dall’ex giunta regionale di Roberto Formigoni. Il suo voto alla ricapitalizzazione (Rotelli detiene il 16,55% del capitale della società editoriale Rcs-Corsera) appare determinante. Su di lui, imprenditore molto vicino al centrodestra e a Silvio Berlusconi, in particolare, con ampia disponibilità di liquidità, stanno lavorando con una forte azione diplomatica ai fianchi sia Fiat, sia Intesa Sanpaolo sia Mediobanca, le tre punte di diamante del salvataggio dell’editrice, nel tentativo di limitare il fronte dei dissenzienti all’interno del capitale sociale Rcs e per far sì che questo fronte non superi in nessun modo la quota dei due terzi, base necessaria per evitare la bocciatura dell’intera operazione con conseguenze che potrebbero essere drammatiche: come l’essere costretti a dover portare immediatamente i libri contabili in tribunale e avviare le pratiche di liquidazione fallimentare.

Come spesso accade, i guai però non vengono mai da soli. La situazione generale dei conti del gruppo editoriale milanese non accenna a migliorare. Dopo il Cda dello scorso 28 aprile la capogruppo Rcs ha annunciato di aver chiuso il primo trimestre 2013 con un “rosso” di 78 milioni di euro contro i 6,1 dello stesso periodo dell’anno precedente, mentre nello stesso periodo il patrimonio della società è sceso da 215,5 milioni a 138,8. Quel che è uscito dal Cda del 28 è l’idea di utilizzare riserve per 284,1 milioni, ridurre il capitale sociale da 762 a 139,3 milioni di euro e poi avviare la fase di ricapitalizzazione. Se l’operazione dovesse procedere senza scossoni e turbolenze all’interno di un “patto” azionario che possiede il 58% di Rcs, il 44% degli azionisti avrebbe già garantito l’impegno a sottoscrivere l’aumento di capitale: tra questi ultimi, Intesa Sanpaolo (20 milioni), Fiat (oltre 40 milioni), Mediobanca (55 milioni), Pirelli, Mittel ed Edison, Fondiaria Sai dell’ex famiglia Ligresti, ora passata saldamente nelle mani del Gruppo Unipol della Lega delle cooperative, che in un primo momento diffidente e disinteressato a far parte del giro dei “salotti buoni” del capitale economico-finanziario milanese, s’è poi ricreduto e detto disponibile a mettere il suo “cip” da una ventina di milioni. Mentre sia Fiat sia Intesa sembrerebbero intenzionate a partecipare versando, oltre alle proprie quote di spettanza, un’aggiunta di altri 11 e 10 milioni rispettivamente.

Tuttavia al momento la Borsa non sembra credere granché alle intenzioni, i buoni propositi e alle voci che circolano, e così il titolo Rcs continua a crollare e a deprezzarsi.

Chi paga tutto ciò? Per il momento a farne le spese è la “gallina dalle uova d’oro” dell’intero gruppo Rcs, e cioè il Corriere della Sera, i cui guadagni hanno abbondantemente sostenuto in tutti questi vent’anni – in particolare, dalla prima direzione Mieli nel 1992 passando per la seconda di De Bortoli fino ad oggi – i deficit di tutti gli altri. E ora il Corriere rischia di dover pagare il prezzo più grosso con il prepensionamento – anche se diluito in quattro anni – di 70 giornalisti entro il 2017 (37 nel biennio 2013-2015, altri 33 nel secondo biennio entro il 2017, mentre l’azienda in origine ne chiedeva 110 entro il 2015 su una pianta organica di 355, per un risparmio pari a 16,5 milioni, più tagli al contratto integrativo per tutti e alienazione di beni).

Questo, dunque, il quadro se verrà rifinanziata la legge 416 sull’editoria, in caso contrario e nella peggiore delle ipotesi, l’accordo sottoscritto tra il Cdr e l’azienda prevede che «si riaprano le trattative per trovare “soluzioni alternative di risparmio”». Ma è chiaro che a quel punto l’unica via restano i “contratti di solidarietà” o la “cassaintegrazione a rotazione”, che comporterebbero un “fermo” di 25 giorni per ciascun redattore nel primo biennio.

La “rosea”, ovvero la Gazzetta dello sport si trova sulla stessa linea del Corriere con una ventina di prepensionamenti da attuare a breve.

Indebitamento, parola-chiave: Recoletos

«L’azienda – scrive il Cdr nel documento del’11 febbraio – punta a ricostruire il margine operativo (Ebitda) dell’intera Rcs Media Group, caduto da quota 163 milioni del 2011 a quota 61 nel 2012. Un’operazione che i vertici aziendali considerano necessaria a stabilire una redditività sufficiente per ottenere il rifinanziamento del debito dalle banche. Ma vogliono scaricare il grosso dell’onere sul Corriere della Sera, il prodotto più sano e redditizio, con un effetto devastante sugli organici e sull’identità del giornale. (…) È fondamentale ricordare che il Corriere chiude il bilancio in utile anche nel 2012, ma con margini di guadagno assottigliati rispetto al 2011. Nel 2012 il margine lordo editoriale del Corriere (ovvero la differenza tra ricavi del giornale e costi legati alla redazione) ha chiuso a quota 35,7 milioni, contro i 44,3 del 2011 e i 47 del 2010. Dunque tra il 2010 e il 2012 il margine è diminuito di circa 12 milioni di euro. In altre parole, questa – una cifra intorno ai 12 milioni di euro – è l’unica “bolletta” che può essere messa a carico della redazione. Tutto il resto è un “carico Recoletos”, che non spetta ai giornalisti del Corriere ripianare» sottolinea la nota sindacale.

Ma cos’è Recoletos? È il nome di una società editoriale spagnola e, al tempo stesso, anche un’operazione economica-finanziaria-industriale oltre ad esser diventato un “caso” vero e proprio che, a partire dal 2006, ha portato improvvisamente l’indebitamento della Rcs –MediaGroup a circa 880 milioni di euro dopo anni di bilanci floridi. Fino a quella data il gruppo Rcs era una società in attivo con un utile netto di 219 milioni e un indebitamento praticamente pari a zero. Poi, però, «prende forma il progetto di acquisire Recoletos, che controllava tra l’altro il quotidiano economico Expansion e la testata sportiva Marca». In quel momento la società spagnola è però controllata dagli inglesi di Pearson, la casa editrice del Financial Times, e che già a partire dal 2004 sono in cerca di compratori. L’obiettivo? «Rilevare un’azienda con 272 milioni di euro di debiti, rifarle il make up e rivenderla a qualche gruppo in salute realizzando una grossa plusvalenza» ricostruisce un accurato documento che fa la cronistoria apparsa in tre puntate anche sulle pagine del Corriere diverse settimane fa.

Bene in prima battuta Recoletos viene acquisita dalla finanziaria Retos Cartera, ma un Raporto della European Equity Research del gruppo Santander, datato 15 dicembre 2004, segnalava che il prezzo pagato da Retos Cartera – 941 milioni di euro – già implicava un rialzo ingiustificabile del 19% rispetto ai valori di mercato precedenti. 941 milioni di euro per una società definita, per altro, «potenzialmente illiquida». Perché acquistarla, allora? Forse si pensa di rivenderla e guadagnarci sopra una plusvalenza. Retos Cartera compra a fine 2004 per 743 milioni di euro il 79% di Recoletos, quindi la maggioranza del gruppo spagnolo (il valore presunto del 100% è di 941 milioni) ma tre anni più tardi, nel 2007, Rcs acquisisce il 100% per 1,1 miliardi senza però la testata free press Que! Quando per il controllo basterebbe avere solo il 51% per un esborso di denaro di gran lunga minore. Perché proprio il 100%?, si chiede il documento redatto dal Cdr sulla base di un lavoro di investigazione economico-finanziaria degli stessi giornalisti del Corsera, e per una cifra che oggi è la vera pietra al collo del gruppo Rcs, la causa fondamentale del suo indebitamento. L’intreccio non manca. Tra presidenze di società, azionariati intrecciati, presenze promiscue in Cda, amicizie personali tra finanzieri e industriali. Tant’è.

Il punto vero è che «ufficialmente il dossier Recoletos arrivo sul tavolo del Cda Rcs «nel 2006». L’allora amministratore Vittorio Colao, approdato alla Rizzoli MediaGroup direttamente da Vodafone Europe, giudicò l’operazione troppo rischiosa, non la avallò e nell’estate del 2006 «lasciò il posto», repentinamente sostituito da Antonello Perricone, ex ad de La Stampa di Torino. E senza che la rimozione abbia mai avuto una giustificazione ufficiale. «Da quel momento – scirve il Cdr – l’interesse di Rcs per Recoletos diventò altissimo. Perricone era appoggiato da alcuni azionisti del patto di sindacato, gli altri seguirono». La transazione è stata conclusa nel 2007, «1,1 miliardi di euro versati (…) nonostante Recoletos avesse un fatturato 2006 pari a soli 304 milioni».

Non è mancato neppure l’intervento della Consob, che nel 2008 ha multato Rcs per 200 mila euro a causa della «mancata trasparenza nell’affare Recoletos». Contestando ai diversi manager intervenuti nella vicenda «di aver avuto contatti con la controparte». All’epoca dell’affare, Deutsche Bank rivelava, per altro, che Rcs aveva una «credit facility» per 700 milioni, «soldi che sono stati bruciati per comprare una società, come quella spagnola, con un patrimonio netto di 35 milioni e debiti per 272.». Morale? L’ha tirata lo scorso 12 febbraio l’ex presidente di Rcs MediaGroup, Guido Roberto Vitale, che in una dichiarazione alla Adnkrnos così ha commentato: «Sicuramente i soci Rcs MediaGroup hanno delle responsabilità per la situazione che si è determinata nella società, che sta per varare un piano industriale che prevede 800 esuberi (640 in Italia, 160 in Spagna, ndr), la cessione o la chiusura di dieci periodici e la vendita della sede di via Solferino, a Milano».

(1. continua)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *