LA GUERRA DEI TRENT'ANNI

Lo Sguardo

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Se Fabio Volo e Renata Polverini danno ragione a Pier Paolo Pasolini

Nel famoso “articolo sulle lucciole”, noto anche con il titolo “Il vuoto di potere in Italia”, Pier Paolo Pasolini intravedeva, molti anni fa, una mutazione antropologica che lo spaventava, e di cui distingueva le forme, ma non ancora i contenuti.

In breve, PPP riconosceva che se il “fascismo fascista”, quello ufficiale, non aveva cambiato le coscienze degli italiani, ma le aveva solo piegate provvisoriamente tramite l’uso della forza, il “fascismo” della Democrazia Cristiana, unito ai media di massa, stava veramente erodendo “l’anima”, le coscienze degli italiani, allontanandoli dai costumi regionali, dalle identità locali, dal sostrato cattolico, che per centinaia di anni le avevano caratterizzate.

Quello che vedeva Pasolini era un potere che andava erodendo le proprie stesse fondamenta, senza accorgersene, creando una fluidità, o meglio un gorgo, privo di identità, la cui identità, anzi, era proprio quella di essere gorgo, buco, vuoto, qualcosa che risucchia e fa perdere i punti fissi, restando come struttura priva di contenuti.

Pasolini, angosciato, in quell’articolo svelava la struttura di questo vuoto di potere, ma confessava di non sapere da cosa quel vuoto sarebbe stato riempito.

Una morte impietosa gli fece almeno il favore di permettergli di non conoscere il nome e il cognome di chi l’avrebbe riempito, quel vuoto, nome oggi facile a dirsi: Silvio Berlusconi, nome-collettore di una realtà che caratterizza il nostro paese da più di un ventennio.

Anche oggi che Berlusconi non è più al potere, gli effetti del fenomeno antropologico che porta il suo nome sono evidenti.

Sono evidenti nella delegittimazione del ruolo dell’intellettuale e della cultura in generale (si vedano a questo proposito gli scatti della festa della presidente della commissione cultura del Lazio, Veronica Cappellaro), e nella delegittimazione stessa del lavoro, della costruzione della professionalità: appare evidente dai personaggi coinvolti nel recente Laziogate (Da Renata Polverini a “Batman”-Fioroni,  fino alla succitata Cappellaro), e dal lessico da essi utilizzato (si veda a tale proposito il bel post di Federica Buongiorno) che il potere e la capacità di rapportarsi con strumenti adeguati ad esso si sono sempre più disgiunti. E’ il legame con il sovrano che crea la capacità: inutile studiare, inutile lavorare, inutile pagare le tasse (a tal proposito lucidissima è l’analisi della escort-”filosofa” Terry de Nicolò, secondo cui è proprio una certa qual “idea morale”, curiosamente legata al “cattolicesimo” [sic.] ad essere quella che va spazzata via tramite il libero mercato della società capitalistico-berlusconiana).

E’ la luce riflessa del potere che crea il potere, nient’altro.

Allora le feste trimalcionesche (ma anche in stile Salò) che tanto scandalo hanno creato sono del tutto conseguenti: quando l’unico valore è quello d’esposizione la luce è accecante, pornografica, non lascia niente di sottinteso, niente di accennato, niente di dissimulato.

Porci e merda sono le effigi di questi potenti senza inconscio, la cui interiorità si esteriorizza totalmente, o meglio in cui non c’è interno (capacità, cultura, raffinatezza, anche una certa qual “arte della dissimulazione consapevole” che da sempre è stata il pane quotidiano della politica).

Cosa c’entra Fabio Volo in tutto questo?

Fabio Volo, e in particolare Fabio Volo ospite del festival di filosofia di Modena è l’esatta applicazione della medesima logica che ha portato agli scandali del Laziogate applicata però alla cultura, e alla filosofia in particolare.

Come si evince dalla sua biografia Fabio Volo non ha competenze specifiche: panettiere, scrittore, attore, cantante, dj, doppiatore.

Emblema dell’eclettismo, si potrebbe dire.

A parere di chi scrive è più adeguato parlare di elogio del trasformismo e dell’assenza di qualità.

Fabio Volo scrive esattamente quello che il mercato legge, canta quello che il mercato ascolta, inscena quello che il mercato vuole veder inscenato. È l’elogio del parlar comune che glorifica se stesso salendo su un palco. È il vuoto di potere che ha un volto e un nome.

Fabio Volo non è un attore, ma recita. Non è un cantante, ma canta. Non è uno scrittore, ma scrive.

Non è un comico, ma è simpatico. Non ha stile, ma arriva “diretto al cuore”.

Fabio Volo assomma negatività rendendole prodotto.

Fabio Volo, come prima di lui Fiorello, sono i risultati della totale deprofessionalizzazione delle professionalità di cui abbiamo finora parlato. Il vuoto di potere che prende il volto del nostro vicino di casa, che senza alcuna qualità specifica diventa ricco e famoso, regalandoci da un lato il sogno che tutti potremmo diventarlo, e dall’altro l’incubo  che solo un puro caso (o meglio, l’elezione dall’alto) e non qualcosa che è in nostro potere fare potrebbe renderci come lui (la cultura pop americana aveva già annunciato/denunciato alla fine degli anni ottanta questa logica in un film come Trading Places, noto in Italia con il nome Una poltrona per due).

Per questo Fabio Volo al Festival della Filosofia, per chi ha studiato filosofia come il sottoscritto, è un affronto personale, emblema di un sistema spettacolare che non capisce fino a che punto finisce per prendere in giro se stesso.

Eminenze grigie della filosofia accademica decidono, anni fa, di popolarizzare la filosofia  medesima (che non è fatta dalla laurea nella disciplina, sia ben chiaro), chiamando importanti filosofi a dialogare con il pubblico. Nasce così il Festival della Filosofia. Una scelta di qualità, premiata: la sfida era far capire che la filosofia non è una cosa astratta, incomprensibile, specialistica, ma che anzi ha a che vedere con tutti e che è alla portata di tutti: tutti possono comprenderla.

Ma questo non significa che tutti siano in grado di “insegnare” filosofia (non arriviamo a dire “essere filosofi”). Insegnare filosofia è un impegno personale, che comporta un affinamento delle proprie capacità critiche, dialettiche, discorsive, a cui contribuiscono lo studio degli autori classici e meno, delle lingue, l’uso di registri specifici o meno, a seconda dei referenti.

E’ un mestiere, e in quanto tale, richiede anni di pratica. Il fatto che sia costituito da un discorso non significa che sia più accessibile, o meno complesso di un mestiere che necessita dell’uso di strumenti materiali.

Il grande errore (forse anche fatto in ingenua buona fede al fine di chiamare a raccolta un grande pubblico, ma che comunque resta un errore, per i motivi che stiamo esponendo), che è (stata) la presenza di Fabio Volo al festival della filosofia consiste nell’aver fatto credere che “filosofia” è poter dire tutto su tutto, da parte di chiunque, in virtù del fatto di essere umani e parlanti. E questo, paradossalmente, con il placet di alcuni dei più eminenti studiosi della materia che l’Italia abbia partorito, anzi su loro stesso invito.

I Greci pensavano ci volesse una vita a diventare filosofi, a cambiare la propria vita radicalmente tramite la filosofia. Chi ha invitato Fabio Volo al festival della filosofia si è fatto, consapevolmente o meno, portavoce dell’idea opposta, continuando il processo di erosione della legittimità della cultura che troppo spesso, solo a parole, da chi fa cultura viene denunciato.

Antonio Lucci

  1. Sono molto felice dell’attenzione che il mio post ha suscitato.
    Ci tengo a rispondere punto per punto qui, visto che qui al dibattito che si è sviluppato sulla bacheca di Corrado Ocone. Vado per punti, in modo da gestire meglio le opinioni e le obiezioni a me fatte:
    1) Corrado Ocone: ti ringrazio per la stima che manifesti pubblicamente in apertura, sempre gradita, soprattutto quando si diverge in opinioni. Noto en passant che mai mi è capitato di essere definito con aggettivi quale “reazionario” e “moralista” (ma c’è una prima volta per tutto!), e che forse definire “errata” un’opinione solo perché da essa si diverge è forse un uso un po’ troppo “tranchant” dell’aggettivo. Al di là di questa notazione ci terrei a commentare il tuo intervento nel dettaglio. Tu sostieni che io esalto “il Pasolini reazionario e nostalgico della asfittica società contadina italiana (non il migliore Pasolini)”. Non mi sembra un’esaltazione la mia, i miei intenti sono più che altro quelli di utilizzare una struttura argomentativa (quella de “il vuoto di potere”) pasoliniana, applicandola ad alcune dinamiche odierne. Inoltre che quell’articolo di Pasolini sia nostalgico/reazionario è una critica che già Fortini prima e Didi-Hubermann recentemente, hanno fatto e che non mi trova d’accordo. Pasolini infatti, soprattutto qui, denuncia un vuoto e non fa una critica ai valori. Non sono neanche d’accordo con la tua caratterizzazione positiva della “modernizzazione all’italiana”: sono d’accordo invece con Pasolini, che diceva che lo sviluppo è diverso dal progresso. Trovo riduttiva una certa nouvelle vague (cfr. il già citato Hubermann) che interpreta Pasolini come un nostalgico antimoderno: credo che bisognerebbe capire il motivo delle critiche pasoliniane, e anche se non se ne condivide una certa passione per l’Italia pre-industriale, mantenere lucido uno sguardo sulla critica al modello di sviluppo (non progresso) attuato in Italia (che poi mi sembri anche condividere, quando parli di “modernizzazione alle vongole”). Inoltre prosegui sostenendo “Che la modernizzazione preveda la laicizzazione e secolarizzazione della figura del filosofo, anche questo per me è solo un bene”. Sottoscrivo pur non essendo crociano. Quello che secondo me nessuno ha colto (forse per mia carenza espositiva) è che il mio problema in quel punto non è tanto Fabio Volo, ma l’utilizzo di determinate figure come il personaggio in questione in determinati contesti. Quando un grande professore universitario di filosofia (o un gruppo di professori) organizza un evento come il festival di filosofia a partire dall’autorità di filosofi accademici che loro stessi incarnano, e poi invita(no) Fabio Volo, mi sembra evidente che il motivo non è la sua conoscenza della filosofia, ma solo un motivo di appeal pubblicitario. Ci tengo inoltre a sottolineare che non sostengo che Fabio Volo non possa essere filosofo (semplicemente perché non è questo il mio punctum), ma che è stato un errore metterlo lì, a fare il “professore” di filosofia. Metterlo in cattedra in un contesto del genere. Ecco per me l’errore. Da ultimo mi pronuncio sul tuo “Lascerei poi stare Berlusconi, che come Volo in piccolo, in questo frangente mi sembra solo una ossessione”. Non sono ossessionato da Berlusconi e non so quanta stampa lo sia di preciso adesso in Italia, vivendo io all’estero. Ma ritengo che il suo nome sia imprescindibile per la comprensione di dinamiche spettacolari complesse che nell’ultimo ventennio sono avvenute in Italia e di cui quella in questione è a mio parere figlia.
    2) Giovanni Schiava: capisco l’intento dell’uso reiterato del “caro”: non raccolgo. Mi permetto di dare nel mio primo post di commento all’articolo del “caro” a Tommaso Ariemma, perché abbiamo dei rapporti di stima e informali, lo stesso motivo per cui lui lo fa con me. Andando nello specifico: tu dici “ciò di cui ti stai lamentando è il “nocciolo essenziale” della filosofia odierna, è l’argomento attorno a cui ruota tutto il dibattito della filosofia degli ultimi cento anni”. A cosa ti riferisci? Non è chiaro. Io rilevo solo che l’operazione-Fabio Volo è semplicemente un’operazione commerciale-capitalistica fatta da un gruppo di persone estremamente inserite nel contesto accademico, e che mai hanno fatto del loro interesse primario la divulgazione. Le conseguenze di questo atto sono però forti, e molto, a livello di immagine pubblica della filosofia stessa, che diventa chiacchiera. Ricordo ancora una volta che stabilisco una differenza essenziale tra “parlare ex-cathedra” e parlare di filosofia in altri contesti. Comunque negli ultimi 100 anni si è parlato anche di altro, detto en passant. Tu sostieni inoltre che io “mi stia lamentando del postmoderno” perché non accetto che tutti dicano la verità senza autorizzazione del grande Altro. A dire la verità, chi conosce un minimo il mio orientamento di studio sa benissimo che sono perfettamente a mio agio nel postmoderno. Al di là dei biografismi trovo che la tua affermazione sia sostanzialmente infondata per questo motivo: non ho criticato tanto Fabio Volo, quanto il suo invito (accettato) da parte del Grande Altro a parlare nella posizione di “soggetto supposto sapere” . Qui siamo in piena autorizzazione del grande Altro: è questo che fa problema. Non mi sono lamentato dei libri di Fabio Volo, ma della sua chiamata in quel contesto esattamente dal grande Altro. E neanche mi lamento della mancata legittimazione dall’alto del filosofo: il filosofo, mia modestissima opinione, mutuata dagli scritti di Foucault e Hadot, che su questo punto condivido, si manifesta da sé, attraverso i propri atti. Fabio Volo al festival di filosofia è invece la riprova concreta che basta la “chiamata del grande Altro” a fare il filosofo: nessun merito, solo elezione. Inoltre, bada bene, ho cercato sempre di distinguere il “filosofo” dall’insegnante di filosofia, come lo è chi arringa la folla in quel contesto, da una posizione di preminenza giustificata da un’Autorità. Insomma, se il filosofo si giustifica da sé, il professore di filosofia lo giustifica chi gli da una cattedra. Dunque per me, lo ripeto ancora una volta, non è tanto Fabio Volo il problema, quanto la sua chiamata in quel contesto. Inoltre non mi lamento (grazie del pietoso “forse”) che Fabio Volo non sia stato arrestato. Ma dai Grandi Venerabili è stato giudicato eccome: giudicato idoneo al ruolo di filosofo. E’ proprio questo il problema: un cortocircuito tra una struttura di Grandi Venerabili il cui potere e sapere è del tutto esoterico e il loro invitare Fabio Volo. Ci terrei a sottolineare che, in ogni caso, il fatto che il signor Lyotard abbia dato inizio a una serie di speculazioni che hanno preso il nome di post-moderno, non ci dice assolutamente che questa “condizione postmoderna” sia legge, che sia impossibile dire altro e che ciò dia il via libera ad ogni tipo di relativismo. Da ultimo, permettimi una boutade, che in spirito postmoderno sono certo accoglierai: io con te e Fabio Volo, potendo, (e posso) non ci ballo!
    3) Tommaso Ariemma: Tommaso, ti do ragione su una cosa: la distinzione tra lectio magistralis e non nel nostro contesto è importante. Non l’ho considerata ed è stato un errore. Resta il fatto che il problema, come dice Federica Buongiorno (di cui condivido e sottoscrivo gli interventi, in particolare il primo, postato sul blog) venendomi in aiuto, è poco Fabio Volo, tanto la delegittimazione di determinate competenze, di cui l’episodio-Volo è un caso specifico. Bada bene, la domanda non è “tutti possono essere filosofi?”, ma “tutti possono insegnare filosofia?”. Sono convinto che, se anche (ipotizzo) tu fossi per rispondere di si alla prima domanda, non saresti così certo del si alla seconda (ma magari mi smentirai). Sono d’accordo invece, paradossalmente, con la replica di Corrado Ocone, che vede di buon occhio la chiusura delle facoltà di filosofia, coerentemente con la sua opinione. Viene però a questo punto da chiedersi quali facoltà dovrebbero rimanere aperte: solo quelle il cui obiettivo è creare una competenza ultraspecifica, quantificabile, e magari quelle storiche? Mi fa quasi più paura delle facoltà di filosofia italiane, che pure me ne fanno tanta.

    Antonio Lucci

    • Gentile Antonio Lucci, l’uso del “caro” voleva essere un’evidente forma retorica (forse troppo confidenziale) che spogliasse il mio intervento di ogni aurea di verità, anche per mezzo di un linguaggio familiare e asciutto. Mi scuso se sono apparso irrispettoso.
      Sul caso Fabio Volo non mi intrattengo oltre, poiché ritengo, in accordo con Tommaso Ariemma, che l’autore sia stato invitato come ospite esterno (come tanti altri) allo scopo di avvicinare al festival un pubblico più vasto; appunto, come tu osservi, è stata un’operazione commerciale-capitalistica (io dire smplicemente di markeing), come per ogni iniziativa bisognosa di soldi per poter essere realizzata, sostenuta e, se c’è l’interesse, trasformata in redditizia (ma questo è un altro capitolo).
      Per quel che riguarda la “condizione postmoderna”, la mia osservazione voleva essere una spicciola analisi del tuo articolo che io ho indicato essere metafora del postmoderno: un mondo, quello attuale, in cui ci si lamenta della caduta dei grandi valori, un mondo dove non si distingue più colui che sa da colui che deve imparare; un mondo, come dice Nietzsche, uscito fuori dai cardini.
      Se poi tu scegli di ballare per i fatti tuoi, ben venga, ma siamo sicuri che non sia solo un’illusione?

  2. Concordo con quanto replicato da Tommaso Auriemma. Aggiungerei quanto segue. Caro Antonio Lucci, ciò di cui ti stai lamentando è il “nocciolo essenziale” della filosofia odierna, è l’argomento attorno a cui ruota tutto il dibattito della filosofia degli ultimi cento anni; caro Antonio Lucci, tu ti stai lamentando del postmoderno. Ti stai lamentando del fatto che tutti possono raccontare la verità, la loro verità, senza il beneplacito di un’Autorità. Ti lamenti del fatto che non c’è più un capo e una coda nello stabilire chi ha ragione e chi no, chi è filosofo e chi no lo è. E, forse, ti lamenti che Fabio Volo non sia stato arrestato e non sia stato sottoposto al giudizio degli Eterni Venerabili. Caro Antonio, stiamo ballando tutti lo stesso ballo, tu, io e Fabio Volo.

  3. Io trovo molto pericoloso abbandonare l’argomento della “professionalità”, de-preofessionalizzando di fatto la figura del filosofo! Anche io sono colpita dai criteri che hanno mosso la scelta di Volo al Festival, più che dalla sua presenza in quanto “Fabio Volo”. Proprio perché il “vero filosofo” non è, a parer mio, un soggetto “senza competenze specifiche, in mille rami”, che però non passa “inosservato”. Quella del “filosofo” è una professione che nel 2013 non può certo essere ciò che era nell’antica Grecia, ma che deve aprirsi all’integrazione con altri saperi e – spesso – con la didattica (universitaria o anche scolastica), mettendosi al servizio della società in modo da fornire analisi, critiche, proposte concrete negli ambiti di pertinenza (che sia la politica o l’economia o la formazione o il marketing e così via). Oggi più che mai il filosofo non è la figura mitica del parlante decontestualizzato e “etereo” : i nomi forti e famosi della filosofia contemporanea coincidono con persone che, le si condividano o no, hanno compreso l’importanza dell’apertura agli altri saperi e alla realtà concreta delle cose e lavorano spesso in programmi di ricerca ampi e interconnessi (vedi Sloterdijk, vedi Esposito, vedi anche Thomas Macho del quale il nostro Antonio è un collaboratore).
    In questo senso, Fabio Volo non è un semplice effetto collaterale: è uno che, su scelta tanto facilona quanto contestabile degli organizzatori del Festival di Filosofia, scientemente sfrutta esattamente quel discredito che sulla nostra “professione” non potrà che continuare a calare finché si farà passare l’idea che un pensante alla Fabio Volo possa essere qualcosa di assimilabile a un filosofo. E finché si sarà bloccati dalla polarizzazione tra un Fabio Volo spacciato per filosofo del senso comune, nel quale tutti possono identificarsi per “filosofizzare” la propria esistenza, da un lato, e il filosofo “accademico” vecchia maniera, arroccato alla sua cattedra e alle annesse logiche accademiche, che non lavora in connessione ad altri e finisce per allontanarsi dalla realtà che l’ha partorito, dall’altro. La filosofia vera starebbe nel mezzo, dove dovremmo essere anche noi.

  4. Caro Antonio, capisco il senso dell’articolo, ma non concordo su diversi punti. In primo luogo sull’elogio della professionalità, argomento scivoloso proprio per chi si occupa di filosofia. Il tuo discorso presta il fianco a retoriche del tipo: che professione sarebbe quella del filosofo? Non è uno scrittore, ma scrive; non è un sapiente, ma sa; non è mai chi dice di essere (vedi l’anatema che scatta spesso appena uno si dichiara filosofo). Mi dispiace doverlo dire, ma ha ragione la Minetti, e siamo in questa situazione proprio per la (cattiva) professionalizzazione della politica (leggi: separazione in una sfera autonoma). Tuttavia, proprio la Minetti dimostra che non tutti attualmente possono fare politica, ma solo quelli “preparati” (per ciò che la politica è diventata: malaffare, escorteria varia, plutocrazia). In Parlamento e nelle giunte dovrebbero entrare persone sorteggiate, come nella Grecia antica. Verrebbero meno i partiti, la propaganda, ovvero il fascismo puro. Ci sarebbe magari un precario della scuola a votare contro i ddl che l’hanno distrutta. Anche su Fabio Volo, mi dispiace, ma non credo che sia quello il problema. Volo non è presentato mai come filosofo, ma come evento collaterale, come lo sono stati negli anni Gene Gnocchi, Bergonzoni, Ascanio Celestini. A dirla proprio tutta, non conosco Volo come scrittore, ma i suoi programmi non mi sono mai dispiaciuti. Ha suscitato scandalo perché è la figura che più si avvicina a quella di un vero filosofo: senza competenze specifiche, in mille rami, e tuttavia senza passare inosservato. Alla fine me la prenderei con i veri intrusi e impostori: quei baroni che vengono spacciati per filosofi, quelli che sappiamo bene essere il cancro delle facoltà di filosofia italiane e non solo. Quelli che fanno i veri danni. Ps: è ovvio che non concordo nemmeno sul richiamo al “valore d’esposizione” come male etc., ma entrerei in altre questioni meno urgenti.

    • Caro Tommaso Ariemma, grazie per l’occasione di argomentare il mio intervento. Provo ad andare per punti:
      1) Professionalità del filosofo e possibili critiche: come forse troppo brevemente dicevo nell’articolo, non è tanto al “filosofo di professione” (che probabilmente è un ossimoro, come noti, e che in ogni caso è una definizione quanto meno criticabile) a cui mi rifaccio, ma alla professionalità di chi parla in pubblico di filosofia, a chi assurge al ruolo di cattedratico. Insomma, il mio parere è che se anche tutti possono capire la filosofia, e persino tutti possano (lo dico estremizzando) paradossalmente “diventare filosofi”, ritengo che non tutti possano assurgere a “insegnanti di filosofia”. Il porsi (o meglio, l’invitare qualcuno a farlo, perché è sull’invito a Fabio Volo più che sulla sua persona che mi piacerebbe soffermarmi) o l’essere posti su una cattedra a parlare di filosofia è questione differente: si entra in una struttura, con dei codici, e la totale arbitrarietà dei codici per me fa scandalo.

      • Caro Antonio, Fabio Volo non è stato invitato a parlare di filosofia, a me questo sembra il punto centrale. In quanto manifestazione festivaliera, il Festival della Filosofia prevede dei momenti “non filosofici” in senso stretto (altrimenti sai che palle:) ) e che contribuiscono alla pubblicità e al momento anche ludico della manifestazione. Sono stati invitati negli anni scorsi anche diversi scrittori, come Daniele del Giudice o, se non erro, come Baricco. Quest’anno c’era anche un comico come Giobbe Covatta e un designer come Giugiaro( che non mi risulta siano filosofi). Perché allora tanto scandalo per Volo, mi chiedo io, e non – come sarebbe per me più giusto – per altre figure che sono il vero male e che – attenzione – si spacciano, queste sì, per filosofi? Io penso che l’irritazione per Volo sia dovuta al suo successo trasversale e che nell’epoca della professionalizzazione ad minchiam (vedi quella della politica) non tolleriamo. Occhio, che i prossimi bersagli saranno proprio gli stessi filosofi.

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