LA GUERRA DEI TRENT'ANNI

Lo Sguardo

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Il peso delle parole (a partire dal caso Fiorito)

In questi giorni lo scandalo patetico degli sperperi in seno al Consiglio regionale del Lazio ci ha regalato perle del “miglior” trash degli anni Duemila: in particolare, le apparizioni televisive del “povero” Fiorito colpiscono nel vivo il comune senso del ridicolo, prima ancora del pudore. Vedere quest’uomo, incalzato dal tetro sguardo indagatore di Bruno Vespa, fare della sfacciataggine l’ultima, disperata difesa del comportamento da veri pascià in tempi di magra ha qualcosa di circense.

La cosa incredibile, è che – stando a sentir loro – queste appropriazioni rapaci di denari pubblici sarebbero di fatto consentite dai regolamenti regionali, che permetterebbero l’assurda prassi dell’auto-rendicontazione, ovviamente trasformatasi, nella più classica delle pratiche all’italiana maniera – in auto-appropriazione con conseguente mascheramento dell’“allungo mani”. Dove la cosa più indecente non è che questi individui abbiano “rubato” (come si esprime il volgo esasperato da certe pratiche, con ciò intendendo l’utilizzo di denaro pubblico a scopi che hanno ben poco dell’utilità pubblica), ma che il nostro sistema consenta di poter dire – fino all’ultimo, fino all’indecenza più sfacciata – che non è vero che questi soggetti, ingrassati all’ombra del cupolone riempito dei soldi di contribuenti in buona fede, abbiano per lo meno sperperato.

Vale a dire che lo scandalo non sta solo nel fatto in sé, ma nell’incredibile deformazione del concetto di verità: un concetto forte che pare non andare più di moda, sostituito dall’aleatorio concetto di “liceità”, il quale sembrerebbe trasformare tutto ciò che è lecito – magari grazie a cavilli o leggine che saranno pure “lecite”, ma di questi tempi non sono per nulla opportune – in qualcosa di vero. Stando al “povero” Fiorito, noi dovremmo credere che non è vero che egli ha quantomeno sperperato, male impiegato, dissipato denaro pubblico, poiché era lecito che si intestasse determinate somme di denaro e le auto-giustificasse. In questo ragionamento vengono confusi due piani: uno formale, che può anche essere (ed è nel caso specifico) astrattamente formale, legale, e uno sostanziale, che ha a che vedere con l’evidenza dei fatti e dei comportamenti assunti. E da un punto di vista sostanziale, che Fiorito potesse secondo liceità intestarsi certe somme e farci determinate cose, a noi che vorremmo dar voce e corpo a un cambiamento radicale di prassi e costumi che hanno ucciso le aspettative di intere generazioni, non ce ne può importare di meno. Perché è vero, sacrosantamente vero, che il denaro pubblico non si usa così – come, cioè, l’evidenza dei fatti (siano o no consentiti dai regolamenti) lascia intendere. E se la Polverini sapeva o non sapeva (per carità, volevamo tutti che si facesse da parte con la sua aria da caduta dal pero – uno sport, la “caduta dal pero”, in cui la nostra politica sta diventando primatista mondiale), anche di quello, francamente, ci interessa ormai poco.

Ci interessa, oltre alla immediata disattivazione dall’agone politico di questi soggetti privi se non altro di quella decenza sociale – non dico personale – che dovrebbe animare un onesto lavoratore per la cosa pubblica (come qualunque operatore pubblico), che si inizi a restituire alle parole il loro significato autentico, che si torni ad assegnare loro il giusto peso veritativo. Bisogna finirla di usare le parole, deformandole e ridicolizzandole, sino alla menzogna più plateale. Il primo lavoro, autenticamente filosofico, che una nuova classe politica dovrebbe (anche) perseguire, sarebbe proprio quello di scrostare le parole dal loro importo falsificante e mistificatorio, poiché da qui inizia la rifondazione di una sobria e autentica dignità sociale. Basta con la retorica (anzi, la sofistica) del “passo indietro” (si chiamano dimissioni), della “discesa in campo” (dopo vent’anni starebbe ancora sta scendendo in campo, quell’altro? Si sta ricandidando, semmai), basta con l’uso rovesciato di termini degnissimi come “liceità” “opportunità” “ragionevolezza” “merito” e chi più ne ha più ne metta. Preferiamo il silenzio a questo chiasso affabulatore, a questa continua favella deprimente, sfumata, codificata in cui di sostanziale – e di vero – non si dice più nulla. Volete essere dei validi politici? Imparate a usare le parole, potreste scoprire che la gente capisce molto di più di quanto immaginate. Ma forse il problema (e la paura) è proprio quella.

 

Federica Buongiorno

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