ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

Pace e guerra. Il realismo cristiano di Mounier e l’ottosettembrismo italico

La guerra ucraina alle porte dell’Europa rende visibili sangue e barbarie nelle nostre case. E, come la lama inesorabile di un rasoio, taglia concezioni, ideologie solide, relazioni culturali ed amicali. Non era mai è accaduto in questa forma così dura negli ultimi vent’anni: né per l’Iraq né per l’Isis, né per l’Afghanistan né per la Siria né per lo Yemen né per il Mali… Anche l’universo dei cristiani ne è attraversato. Dalla guerra è stato sorpreso, in primo luogo, papa Francesco. Dal 24 febbraio il messaggio papale si è assestato progressivamente lungo due livelli. Il primo è quello di un pacifismo radicale, che persegue l’utopia di un’espulsione definitiva della guerra dalla storia umana prima che la guerra espella gli uomini dalla storia. Donde, nell’immediato, una presa di posizione contro l’aumento della spesa in armamenti – una pazzia! – previsto in Europa e in Italia fino al 2% del PIL. Un pensiero utopico, certamente. Perché si tratta di eliminare le conseguenze del peccato originale, di domare “le potenze che emergono dalle caverne della vita e dagli abissi del peccato”, secondo la drammatica espressione di E. Mounier. Impresa non facile…

E, infatti, compare nel messaggio di papa Francesco un secondo livello: quello del giudizio storico-politico sull’aggressione russa, quello della bandiera ucraina da lui sventolata in Piazza San Pietro, quello della legittimità della Resistenza armata, ricordata come “amara necessità” dal Card. Parolin. E’ il livello dell’iniziativa diplomatica ed ecumenica. Quest’ultima particolarmente ardua, considerato che a Kiev competono in modo poco fraterno ben quattro Chiese cristiane: quella uniate, cattolica, e tre ortodosse: una autocefala ucraina, una che fa riferimento a Costantinopoli, una che obbedisce al Patriarcato di Mosca. Se scendiamo dal Vaticano verso il popolo delle parrocchie, i due livelli del messaggio pontificio, che stanno in precario equilibrio, tendono a divaricarsi e a radicalizzarsi. Una parte dei credenti propone un fondamentalismo pacifista, in forza del quale sparisce ogni distinzione tra aggressore e aggredito, così che fornire armi alla Resistenza ucraina significa schierarsi dalla parte della guerra e rendersi responsabili di un numero sempre maggiore di morti civili. Una parte, invece, tiene un equilibrio di “pacifismo realista”, più attento alle ragioni della Resistenza. Queste posizioni sono però accusate di bellicismo dal pacifismo fondamentalista. Si ripropone il dilemma tra “resistenza” e “resa” che Dietrich Bonhoeffer ha risolto, scegliendo la prima e pagandone tutto il prezzo nel lager di Flossenburg. Parecchi credenti, qui e ora, consigliano – ancorché non richiesti – la seconda agli Ucraini.

Questa tensione tra cristiani “pacifisti”, che accusano altri cristiani – compreso il Card. Parolin? – di essere “bellicisti”, non è nuova. Emmanuel Mounier scrive nel 1939, a pochi mesi dall’inizio della Seconda guerra mondiale sulla Rivista Esprit, da lui fondata nell’ottobre del 1932, un articolo intitolato Les Chrétiens devant le problème de la paix, che sarà poi ripubblicato sotto forma di volumetto nel 1940 da “Les Editions du Cerf”, con il titolo: “Pacifistes” ou “bellicistes”? Les Chrétiens devant le problème de la paix.
Ripubblicato in Italia nel 2008 – ma la prima edizione/traduzione italiana è del 1958 – dall’Editore Castelvecchi con un’introduzione sulla filosofia personalista di Mounier di Giancarlo Galeazzi, viene oggi riedito con una prefazione di Stefano Ceccanti, che rilegge il testo in relazione alla crisi ucraina e al dibattito sull’art. 11 della Costituzione italiana – quello all’interno dell’Assemblea costituente e quello di questi giorni.

Sono passati più di ottant’anni, ma la voce di E. Mounier resta fresca come non mai. Fa notare Stefano Ceccanti che la dottrina sociale della Chiesa, fissata nel punto n. 500, n. 501 e n. 506 del Compendio ufficiale rispecchia le quattro condizioni già proposte da E. Mounier per ritenere “giusta” una guerra: che sia dichiarata da un’autorità legittima; per una causa giusta intesa come riparazione di una grave ingiustizia e con proporzionalità dei mezzi rispetto ai mali arrecati; con retta intenzione ossia allo scopo di una pace giusta; necessità del mezzo bellico come unico per riparare l’ingiustizia.

Anche se il titolo del 1940 propone il dilemma “pacifisti/bellicisti”, in realtà, quando scrive E. Mounier, dopo il fallimento della Conferenza di Monaco del 29-30 settembre del 1938, pochi vogliono vedere che si sta scivolando verso la guerra. D’altronde, i ricordi del macello della Prima guerra mondiale sono ancora sanguinanti nelle famiglie europee. Daladier e Chamberlain sono i portavoce popolari di questo pacifismo cieco, che rifiuta di fare i conti con la dichiarata strategia di Hitler e dell’Asse. Perciò il testo si diffonde in una critica serrata del pacifismo, con espressioni drammatiche e appassionate, in nome dell’ “ottimismo tragico” tipico del “realismo cristiano” che si oppone “tanto all’ottimismo ingenuo della borghesia in fase ascendente quanto all’irrazionalismo scettico della borghesia decadente”.

Basterà, qui, tra le tante possibili, una sola citazione. “Questo pacifismo, nel settembre del 1938, non aveva a cuore la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi, né quella dei Trattati, né quella delle loro vittime, né l’ingiustizia della guerra, ma aveva una sola ossessione: che non si interrompessero i suoi sogni di pensionato… Volevano preservare la loro pace dalla guerra come ogni giorno la preservano dalla miseria degli altri, dall’avventura, dagli incontri, dagli avvenimenti, dall’amore. Protestano: la loro bocca non si riempie forse di turbamento all’evocazione della guerra, dei suoi orrori, dei suoi massacri? Ma si tratta di una pietà generica per le brutalità della guerra che, di nuovo, è soltanto un modo di compiangere una tranquillità minacciata e di confessare un’insensibilità cronica… La pace é compromessa non solo dai guerrafondai ma anche dagli imbelli… Troppi cristiani, in effetti, emigrano all’interno del proprio mondo. Vi sono troppe tende alle finestre delle loro case e a quelle della loro vita, troppe palpebre abbassate su sguardi che non sanno sopportare il peso delle cose. È forse questo il comportamento che si addice ai fedeli di una religione la cui pietra angolare é costituita da un Dio fattosi uomo sulla terra?”.

Mounier cita Peguy, morto nel 1914 nella prima battaglia della Marna, che irrideva alle “piattezze calcolate, affinché il destino vi passi sopra”. Perciò, ammonisce Mounier, occorre che “si serva la forza della giustizia; altrimenti la forza con la giustizia”. Forza e diritto: due facce della società umana. Sullo sfondo stanno le categorie teologiche e filosofiche del personalismo comunitario: incarnazione, vocazione, comunione, incorporazione, comunicazione, conversione e impegno.

Occorre prendere atto che si tratta di un messaggio ben lontano dalla pancia di questa Italia 2022, percorsa da sempre da un sotterraneo “otto/settembrismo”, di cui oggi si fanno interpreti Berlusconi, Conte, Salvini, l’ANPI, Landini, Sinistra italiana, Rifondazione comunista. Si tratta del “pacifismo dei tranquilli”, di ricerca di “un’assicurazione contro ogni rischio”, di “un’utopia da sedentari”. Programma fondamentale? “Tutti a casa”: é “l’albertosordismo”, senza il ri/scatto redentore finale proposto nel film di Comencini. Oggi si ripresenta sulla scena come farsa di politicanti mediocri alla ricerca di qualche voto in più alle prossime elezioni amministrative e politiche.

 

Quest’articolo è stato pubblicato originariamente sulla rivista Sant’Alessandro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *