THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

L’Europa al bivio tra irrilevanza e cambiamento

Gli inglesi, si sa, sono tradizionalmente i più scettici nei confronti dell’Europa. Tuttavia, è fuori discussione che la BBC rimane la televisione più globale del mondo. Ed è allora una notizia in sé la circostanza che, nel giorno che secondo molti media europei avrebbe potuto mettere a rischio la stessa sopravvivenza dell’Unione, le elezioni politiche europee non sono state neppure presenti tra le tre notizie più importanti del giorno nell’edizione world news dell’emittente britannica.

Il giudizio di sostanziale irrilevanza che viene della prima televisione del mondo èdel resto condiviso dagli stessi cittadini europei. L’unico dato definitivo al momento in cui scrivo, è quello che viene dai sette Paesi che hanno già votato e dice che il partito dell’astensione – già al 56% nel 2009 – si conferma maggioranza assoluta, con una crescitaforte in Italia dove cinque anni era fermo al 34% e oggi arriva al 44. Se sommiamo, poi, all’euroscetticismo passivo degli astenuti, quello attivo di chi vota partiti per i quali il parlamento europeo in questa forma neppure dovrebbe esistere e che in Francia, nel cuore dell’Europa, vincono le elezioni, scopriamo che le due “grandi famiglie politiche europee” – i due pilastri sui quali fu costruita l’Unione – stanno diventando davvero piccole: non più di un quarto degli elettori si è preso il fastidio di recarsi in un seggio per concedergli la propria fiducia.

In teoria un’alleanza che mettesse insieme proposte politiche diverse quanto lo sono quelle del Fronte Nazionale, del Movimento Cinque Stelle e della sinistra radicale potrebbe essere maggioranza relativa. Ma ciò appare impossibile e – in questa situazione – il paradosso è cheil Partito Socialista e quello Popolare europeo continueranno ad essere i due gruppi più grandi nel nuovo Parlamento e quasi certamente saranno costretti a varare anche in Europa una grande coalizione incapace di decidere. Rischiamo così di ottenere il risultato che tutti avrebbero voluto evitare: l’impossibilità del grande cambiamento di cui l’Europa ha bisogno e il rafforzamento di quella burocrazia che, nonostante tante critiche,continua ad essere l’unica forza capace di garantire il funzionamento delle istituzioni dell’Unione. La sfida vera è non farsi incantare dalla palude, capire che, davvero, vi possiamo sprofondare tutti – istituzioni comunitarie e nazionali, trovare leadership capaci di affrontare una crisi politica che è ancora più profonda della crisi economica.Sarà proprio il PD di Matteo Renzi – che potrebbe diventare in questo quadro il secondo più grande partito politico europeo ad un passo dalla CDU – a giocarsi nei prossimi mesi le carte più importanti.

La crisi che dobbiamo risolvere fu persino previstadal più importante dei Presidenti della storia della Commissione Europea. L’idea di Jaques Delors era geniale: visto che è impossibile costruire una vera Unione politica partendo dal basso, con un progetto che razionalmente comincia dal creare i presupposti per una democrazia continentale, proviamo a mettere – così ragionò il grande federalista francese – il “carro davanti ai buoi”, a forzare la mano creando l’unione monetaria, scommettendo che essa inevitabilmente metterà gli Stati con le spalle contro il muro e li costringerà a cedere ulteriori pezzi di sovranità senza i quali l’Euro non può esistere.

Era un’idea politica quella della moneta unica, e non certo – come farneticano oggi alcuni euroscettici all’amatriciana – una iniziativa delle banche. Era una “follia” secondo quasi tutti gli economisti, eppure la migliore generazione di leader che l’Europa abbia avuto, decise di provare l’azzardo con grande audacia.

Il nodo previsto da Delors è venuto al pettine. Con una drammaticità che neppure lui aveva anticipato, anche perché, ancora di meno, poteva prevedere che quella audacia sarebbe stata sostituita da una così diffusa mancanza di visione.

Il problema è, in fin dei conti, semplice. Se vogliamo continuare a stare nell’EURO (e quasi tutti tra gli euroscettici – da Alexis Tsipras a Grillo, passando per Berlusconi e Cameron, con l’eccezione della Le Pen – non hanno mai proposto di uscirne), non possiamo non avere un’unificazione di fatto delle politiche monetarie e fiscali. Unioneindispensabile per superare, peraltro, le insostenibili rigidità di patti di stabilità definiti in maniera ex ante e, dunque, astratta.  Tuttavia, se vogliamo che qualcuno a livello europeo, decida per noi – direttamente o indirettamente, in maniera trasparente o attraverso raccomandazioni – come spendere una quota crescente di risorse pubbliche e quanto tassare le persone, è indispensabile che costui sia riconosciuto dai contribuenti, che dai cittadini sia stato scelto e che ad essi risponda – assieme ai politici nazionali o locali – dei risultati.

A meno che non vogliamo violare la legge fondamentale della democrazia e che dai tempi di Thomas Jefferson è che “non c’è tassazione senza rappresentazione”, a meno di voler rischiare le conseguenze che le democrazie tradite possono riservare a chi ne dimentica i fondamentali.

Insomma siamo davvero ad un punto di svolta, anche se non sono queste elezioni a deciderne la direzione: o andiamo verso più Europa (e non necessariamente essa corrisponde alla formula degli Stati Uniti d’Europa che fa pensare alla creazione di un altro Stato che si sovrappone a quelli nazional). Oppure torniamo, inevitabilmente, alle monete nazionali. E, tuttavia, per muoverci nella prima direzione abbiamo bisogno non solo di un parlamento capace di indicare un capo della Commissione, ma di fare leggi; ma anche di partiti politici finalmente capaci (comehanno provato a fare Scelta Europea e Tsipras in Italia) di proporre candidati e soluzioni europee; di un bilancio della Commissione che sia finanziato in maniera autonoma da parte dei contribuenti; e di iniziative – come quella del servizio civile e del semestre obbligatorio di studio in un altro Paese europeo – che esplicitamente favoriscano l’emersione di un’opinione pubblica davvero transnazionale. È proprio l’Italia – nel semestre europeo che comincerà dopo l’insediamento del nuovo parlamento – a dover dimostrare di aver trovato un approccio nuovo.

Le elezioni di ieri sembranodire che gli europei diventano sempre più scettici, ma anche che l’Europa non ha alternative. Il rischio serio è anche per l’Europa valga ciò che è successo per l’Italia negli ultimi vent’anni: un lungo declino – nella coesione tra popoli e persone, ancor prima che economico – senza nessunaprospettiva. Costruire una democrazia europea, fare gli europei dopo aver cominciato – al contrario – con l’EURO. Una sfida interamente politica, come fu politica l’intuizione di Delors e che, disperatamente, ha bisogno di leader altrettanto pragmatici e visionari.

Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino del 26 Maggio

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