COSE DELL'ALTRO MONDO

Riccardo Cristiano

Giornalista e scrittore

La lezione turca porta a Damasco

Lui si chiama Ekrem Imamoglou, lo hanno votato in tantissimi a Istanbul, ma fino a domenica sera il suo nome era quasi impronunciabile. Gli stessi militanti del suo partito preferivano ripetere lo slogan elettorale piuttosto che pronunciare il suo nome. Per paura. Paura di essere sentiti dalla onnipresente vigilanza erdoganiana, potendo finire così nei guai. Così non è esagerato pensare che la vittoria di Ekrem Imagoglou ha salvato la Turchia, ma non solo la Turchia. Ha salvato l’Islam turco, importantissimo come tutti gli Islam mediterranei, quelli che a differenza dei vecchi Islam del deserto conoscono l’altro. L’Islam mediterraneo, cosmopolita, ha bisogno dei sufi, delle confraternite che costituiscono la radice dell’Islam turco. Ed evitare che la suola di ferro del raiss schiacci la matrice mediterranea di un pezzo cruciale dell’Islam mediterraneo è vitale. E’ vitale non solo per la Turchia, che dal varo del presidenzialismo assoluto erdoganiano vive l’incubo di una trasformazione politica e culturale. 

Dopo aver sposato il progetto “europeo”, vistosi respinto Erdogan ha sposato il progetto “asiatico”. Ha voltato le spalle al sogno mediterraneo e ha riabbracciato le steppe, la visione asiatica del potere lo ha portato tra le braccia di quell’Islam politico che con i soldi dell’emiro del Qatar pensava di guidare. Ora per chi crede nel dialogo si può dire che il peggio è passato, la risposta di Istanbul, la città di Erdogan, è stata un colpo al modello faraonico che non ha pari. Ma la strada da fare per arrivare al bivio che conduce dalla parte opposta è ancora molto lunga, e se si guarda bene nei canestri dei diversi oppositori degli opposti sovranismi, degli opposti populismi, delle opposte visioni che usano la religione come una clava contro l’altro, si capirà perché. 

Nella Turchia odierna ci sono circa 4 milioni di profughi siriani, e in alcune zone anatoliche il loro numero è addirittura superiore a quello della popolazione locale. Erdogan, in cambio dei soldi europei e in nome del suo panislamismo con cui pensava di conquistare la leadership islamica, ha aperto loro le porte della Turchia anni fa, ma le difficoltà economiche del paese hanno aggravato il quadro delle compatibilità, la crisi della lira turca ha portato i prezzi alle stelle, difficili essere “solidali” in queste condizioni. e poi milioni di siriani che vivono in Turchia da anni vogliono dire 400mila bambini siriani nati in Turchia. Bambini che dovranno pur avere qualche diritto, qualche assistenza. Ekrem Imamoglou, in campagna elettorale, ha espresso il malessere popolare. L’idea di rimandarli a casa ha fatto braccia nei suoi comizi, come poi in quelli del candidato di Erdogan, che dopo aver parlato per anni di “braccia aperte verso i nostri fratelli”, ora per salvarsi non ha esitato a parlare di “via del ritorno aperta”. 

Questo aspetto della campagna elettorale turca è molto importante perché ci ricorda da vicino la chiave di vittoria della signora Mette Frederiksen, alle elezioni danesi. I suoi socialdemocratici hanno vinto contro i partiti xenofobi, ma assumendo una ferma posizione anti-migranti. L’idea era semplice, chiudiamo le porte per rifare il nostro “welfare state”. Bellissimo, ma con chi pensa di rifarlo, la signora Frederiksen, se la popolazione attiva del suo Paese e dell’Europa è destinata a dimezzarsi, secondo tutte le statistiche, nel giro di un decennio o due? 

La qualità politica, però, non si compra al mercato. Si costruisce nel consolidato dei paesi, e dei continenti. E così il punto di non ritorno per la debole socialdemocrazia turca, ancora intrisa del nazionalismo di Ataturk, la debole socialdemocrazia europea, ancora intrisa di cultura novecentesca e di apparati noventeschi, è e rimane la questione siriana. La questione siriana è la questione di un regime che per vincere ha deciso di espellere dal proprio Paese un intero popolo, almeno 6 milioni di persone all’estero  e altri 5 milioni di siriani come rifugiati interni. E’ ben più della metà della popolazione complessiva della vecchia Siria. Per loro, tutti, tornare vorrebbe dire andare al patibolo. Torneranno? 

Quando il regime di Assad, per sopravvivere a sé stesso, ha destabilizzato l’intero continente europeo con un’overdose di profughi, e con la creazione di un opposto estremismo più brutto di sé stesso per convincerci di essere il male minore (e il flusso di jihadisti verso la Siria e di lì in Iraq subito dopo il 2003 lo dimostra) , ha avvelenato i pozzi politici e culturali di tutto il continente. Lo scontro di civiltà da teoria è divenuto una ideologia alla quale bisogna adeguarsi perché il regime siriano, e chi lo ha salvato, non ha altro scampo. L’incendio causato da Assad è divampato anche altrove, con mille complicità. E i regimi del Golfo hanno voluto uccidere la rivoluzione siriana, impossessandone con altre milizie, per paura del contagio. Il risultato è che avvelenando i pozzi democratici del nostro continente con milioni di profughi e con il rafforzamento del jihadismo più fanatico, ovunque stanno riemergendo vecchie pulsioni, in tutti i campi religiosi crescono le tendenze a fare delle religioni dei baluardi contro l’altro. 

Nessuna cultura politica è in grado da sola di sovvertire questo andamento se non si creeranno le condizioni perché i profughi siriani possano davvero tornare nel Paese, avviandone la ricostruzione con il contributo della comunità internazionale. Che è possibile solo se il genocida Assad verrà allontanato da Damasco. 

Intanto però prendiamoci l’elezione di sindaco ad Istanbul che dicendo di no alla deriva di Erdogan ha detto di no al seppellimento del tragitto democratico e dell’esperienza mediterranea dell’Islam turco. 

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