A BASSA VOCE

Giuliano Amato

La cuoca di Lenin ha preso il dottorato
Lo “sperimentalismo” di Barca

Coloro che seguono questo mio blog e che per questo hanno letto quanto sono venuto scrivendo sui partiti, troveranno molte analogie fra le mie tesi sui partiti e lo sperimentalismo democratico di Barca. Pensiamo entrambi che la vita di una democrazia non è soltanto nelle primarie, nella partecipazione cioè dei cittadini alla scelta e quindi all’elezione dei leader politici. Essa deve continuare in vista degli indirizzi e delle scelte che i leader faranno propri e che dovrebbero formarsi non all’oscuro dei cittadini, ma in una perdurante interazione con loro. Non è forse questo ciò che la Costituzione si aspettava e si aspetta dai partiti, quando scrive, all’art.49, che attraverso di essi i cittadini “concorrono alla determinazione delle politiche  nazionali”? Concorrere alla determinazione delle politiche non è eleggere coloro che le verranno facendo, è interagire con loro quando le  maturano e poi le trasformano in decisioni operanti su tutti. Ed è stata proprio la carenza di questa interazione ciò che ha reso asfittica la nostra democrazia, ha fatto crescere risentimenti e malumori e ha alimentato, insieme alla protesta, la disistima e la ostilità nei confronti di “caste” impermeabili alla “società civile” e lontane dalle sue esigenze.

Lo sperimentalismo democratico di Barca si colloca in questo vuoto ed è quindi una rinnovata e vigorosa proposta di democrazia partecipativa, intendendo giustamente quest’ultima non come un’alternativa a quella rappresentativa, ma come una sua irrinunciabile componente. Nella proposta c’è tuttavia qualcosa di più di quanto si legge in quanto era stato scritto sino ad ora al riguardo e di sicuro  di più di quanto io stesso ho scritto. Ciò che Barca mette in luce, infatti, non è soltanto quella elementare esigenza del buon governo che è il far maturare le risposte ai bisogni dei cittadini attraverso un confronto diretto con le loro domande. No, c’è di più, perché in un tempo di conoscenze diffuse e di specialismi costruiti sull’esperienza sono molto spesso i cittadini a possedere il know how, o pezzi del know how, che serve a formulare le risposte. E quindi i governanti che si sottraggono allo sperimentalismo democratico e non si organizzano in modo da consentire ai cittadini di concorrere alla determinazione delle politiche nazionali, non solo possono avere una percezione inadeguata delle esigenze a cui rispondere, ma anche una conoscenza inadeguata degli elementi sui quali vanno costruite le loro risposte.

Ai tempi della fabbrica fordista –nota giustamente Barca- i capi pensavano all’organizzazione del lavoro e  gli operai stavano alla catena di montaggio , passando la giornata a  stringere in modo eguale viti tutte eguali, come faceva Charlot nel film “Tempi moderni”. Nella fabbrica post fordista,  dell’organizzazione sono diventati partecipi tutti, attraverso le funzioni non più manuali ma di controllo che ciascuno  esercita sul macchinario o il computer  con il quale lavora. Ecco, anche la democrazia è diventata post fordista e anche in essa le conoscenze diffuse diventano bagaglio essenziale di governo.

Sarebbe troppo dire che ciò riguarda davvero tutti quanti, che tutti noi abbiamo conoscenze essenziali a governare e che nessuno di noi ha solo e soltanto domande da porre a chi governa. Ma poco importa ai fini dello sperimentalismo democratico, che ha da essere eguale a se stesso in tutte le sue manifestazioni e che serve comunque a far vivere la democrazia, sia che raccolga le nostre domande, sia che ci permetta di offrire, quando li abbiamo, gli elementi conoscitivi per le risposte.

Un fatto è certo. La cuoca di Lenin, sia rimasta o meno in cucina, potrebbe avere ormai un dottorato. Nel qual caso c’è molto che anche Lenin potrebbe imparare da lei.

Dal blog di Giuliano Amato.

  1. da quando non ha più alte cariche politiche istituzionali, pur mantenendo, per diritto divino, molti incarichi e cariche di prestigio, Giuliano Amato è tornato a pontificare e concionare da super consigliere del principe e anche dei possibili futuri principi; va ricordato che nella repubblica è stato forse l’unico consigliere del principe a diventare per molto tempo lui stesso direttamente principe e durante il suo principato ha dato notevole sviluppo ad un liberismo senza regole e remore,che ha avviato il paese al disastro.

    • vitt fior dovrebbe provare a confrontarsi con le idee e magari portare argomenti di confutazione se non si condividono e non limitarsi a demolire chi le afferma per nascondere questa incapacità. cosa ne pensa vitt fior di quei contenuti? non è dato saperlo. temo che sia d’accordo ma si vergogni a dirlo perchè teme il suo nome pericolosamente accostato a quello di amato. il libero pensiero critico rifugge dal subordinarsi a etichette . c’è più libertà e dignità nel concordare con chi pensavamo lontano da noi che aderire senza condividere le schematizzazioni sommarie di chi riteniamo più vicino. auguri

  2. Barca raccoglie le sollecitazioni provenienti da diverse realtà, e le unifica sotto l’unica voce “organizzazioni”. Tutte le organizzazioni, siano esse industriali, finanziarie, politiche o civili manifestano la comune tendenza alla partecipazione diffusa, alla chiamata cioè di corresponsabilità – ai diversi livelli – per il raggiungimento di fini comuni. Perché questi siano raggiunti in modo efficace e sicuro occorre che ogni singolo individuo nelle organizzazioni consideri l’obiettivo come proprio, e nel riconoscere la propria incapacità di raggiungerlo senza il concorso degli altri, giunga a ritenerlo un obiettivo comune. Dall’osservazione di come questa tendenza al “post-fordismo” sia diffusa consegue necessariamente che essa emerge da una consapevolezza ormai propria alla nostra modalità di convivenza, cioè dalla nostra cultura attuale. Che la politica sia finalmente riuscita a comprenderlo è incoraggiante. Però mi sembra insufficiente. La partecipazione indicata da Barca, secondo cui la “base” esprime le sue esigenze e, con un processo di maturazione simile a quello dell’uva nel tino, giunge a condensarsi in modo da essere colta dal sistema politico ed in esso a venire elaborata dai vertici fino ad essere portata al parlamento, per quanto onestamente sottoposta alle critiche sino a divenire condivisa in una sua versione finale, mi sembra contenga un limite sensibile. Il segno dei tempi, mi sembra, non sta solo nella richiesta di “partecipazione” unilaterale dei cittadini alle scelte dei vertici politici, per quanto edulcorata dalla modalità sopra descritta di espressione dei bisogni “dal basso” (“l’operaio della Toyota conosce la macchina su cui lavora meglio del suo ingegnere”), ma nel riconoscimento che la partecipazione è “bilaterale”: l’eletto cioè ha un ruolo diverso da quello dell’elettore, ma come appartenente alla stessa comunità civile deve anch’egli, e non solo il cittadino elettore, modificare il significato del suo ruolo secondo i criteri della nuova cultura emergente. Occorre cioè, sempre con riferimento alla nostra Costituzione, riscrivere i ruoli rispettivi di eletto e di elettore, considerando che il concetto di “inclusione” non è un atto di generosità individuale, ma una necessità di una democrazia in continua maturazione.

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