L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Identità e repubblica

Giuro che me ne vergogno, o forse no.
Negli ultimi giorni ho letto pagine e pagine sul concetto di tradizione, che mai avrei pensato di leggere. In un’altra vita, con gran parte della mia generazione, disprezzammo la tradizione, i tradizionalisti, i conservatori, quelli che guardavano indietro ed eravamo convinti che, come Orfeo, sarebbero stati puniti per questo. Oggi però mi tornano in mente versi di Pierpaolo Pasolini del 1964, che non mi piacevano e non sono neppure sicuro che mi piacciano ora: Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli.
Mi tornano in mente perché l’esasperato parlare di identità – nazionale, culturale, politica, religiosa – degli ultimi tempi costringe a ripensare alla tradizione, ai valori che si sono assimilati senza neppure rendersene conto, alle abitudini, ai gesti che sembrano così normali ma ci identificano e ci differenziano da quanti usano gesti diversi, ai borghi abbandonati non solo sugli Appennini o le Prealpi, ma nelle campagne, nelle periferie, dove quasi inevitabilmente di tanto in tanto si torna con quel senso di soffoco che ricorda le radici e quella voglia di andarsene immediatamente. Eppure là forse sentiamo la presenza di quelli che Pasolini chiama i fratelli e che nel passato hanno costruito qualcosa di indefinibile che possiamo pensare come tradizione.
Appena si cerca di riempirla di contenuti, ci si accorge che la si sta inventando, perchè in nessun tempo e in nessun luogo sono esistiti quella società, quella cultura, quei fratelli, ma qualcosa è pur esistito se ne sentiamo il peso.
Giuro che me ne vergogno ma questi pensieri mi sono venuti stamattina guardando la parata ai fori imperiali per la festa della repubblica. Mi hanno infastidito le armi che sfilavano, gli infiniti reparti militari accompagnati dalle parole vuote e prevedibili dei cronisti televisivi, persino i visi troppo consapevoli delle alte autorità dello stato italiano. E però a un certo punto si cominciano a sentire quelle note inconfondibili, si vedono gli spettatori sorridere, si sentono i battimani ritmati e compaiono, correndo naturalmente, i bersaglieri. Sono improbabili con i loro cappelli piumati e la loro corsa, con la loro fanfara che probabilmente dal 1836 suona la stessa musica e tuttavia pongono domande a cui non so rispondere. Non so perché i nomi di Cadorna, Diaz, Badoglio suonano come semplici nomi di generali che può essere interessante studiare, ma che non destano alcun sentimento particolare; La Marmora invece ha un suono amico, familiare. Mi pare di rivedere la battaglia di Goito, la repubblica romana e Luciano Manara, la breccia di porta Pia, un risorgimento forse un po’ da operetta ma amichevole, credibile.
Lo so che questa impressione non ha alcun fondamento, che ci sono stati bersaglieri anche nella repressione di moti popolari o nella Repubblica sociale italiana, ma non so che farci. Le frecce tricolori che volano sul Colosseo fanno un po’ esagerazione, ma quei giovani che avanzano da lontano, correndo, agitando ritmicamente le loro trombe e facendo svolazzare le piume sui loro cappelli, sono una cosa diversa e non riesco assolutamente a spiegarmelo. Giuro che me ne vergogno, che vorrei fare risalire quella lacrima che cerca di farsi strada, che vorrei pentirmi, che vorrei vergognarmi davvero. O forse no.

  1. Ci furono anche i bersaglieri ammutinati di Ancona, nel 1920. La patria è rossa e nera, progressiva e regressiva, madre e matrigna.
    La patria, di tutti alla bisogna, di norma è la somma della proprietà privata di pochi.
    Ma dà sussulti di dignità, anche nella miseria più nera.
    Poi, però c’è la nazione. Il grado zero dell’ontologia sociale. Senza lavoro, senza casa, con uno stato civile che attesta l’ultimo fallimento, l’unica voce in positivo che recita la carta d’identità è la nazionalità: italiana.
    E a quella ti aggrappi. Prima gli Italiani.

  2. Come la memoria individuale ricostruisce il passato, così anche la collettiva – termine forse sbagliato, anzi certamente sbagliato, ma non ne trovo altro -. Naturalmente c’è molto di costruito volutamente, così viene fuori il buon Augusto che L. Canfora paragona non del tutto impropriamente a Stalin.

  3. Personalmente ho sempre pensato che nella Tradizione ci fosse del buono da salvaguardare ma è vero: negli anni di gioventù facevo fatica ad esprimere questo pensiero. Quanta ignoranza! ora sono propensa a pensare che fossero solo vizi ideologici quelli che mi/ci impedivano di esprimere questo che al momento reputo un valore.

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