LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Col cuore “in subbuglie”. A Venezia l’Italia di “Amarcord”

Oggi  alla Mostra di Venezia sarà presentato in anteprima il restauro di “Amarcord” di Federico Fellini (1973), che vinse il premio Oscar per il miglior film straniero nel 1975. Il restauro del film è promosso da yoox.com e realizzato dalla Cineteca di Bologna nel laboratorio dell’Immagine Ritrovata, con i contributi di Warner Bros,  Cristaldi Film e Comune di Rimini. La “sorpresa” festivaliera è l’appendice – una decina di minuti – di alcune scene tagliate o mai montate tra le moltissime «ritrovate» sia da Zeudy Araya, vedova del produttore Franco Cristaldi, sia dalla Cineteca di Bologna, custodi entrambe di centinaia di scatole con materiale inedito del film. La trama. Nella Rimini degli anni Trenta l’adolescente Titta cresce fra educazione cattolica e retorica fascista. Suo padre, Aurelio, è un capomastro anarchico e antifascista: sulle sue spalle oltre i due figli, la moglie e l’anziano padre, piuttosto arzillo, vive anche il cognato sbruffone e perdigiorno, lo zio “Pataca”. Suo zio Teo è invece chiuso in manicomio. La cittadina è popolata da personaggi singolari, come Volpina la ninfomane, Giudizio il matto, Biscein il fanfarone, l’avvocato dalla retorica facile, il motociclista esibizionista, il cieco che suona la fisarmonica. Titta frequenta il liceo cittadino, dove le interrogazioni si alternano agli scherzi a insegnanti e compagni. La sua vita erotico-sentimentale si divide fra l’inarrivabile Gradisca, i grossi seni della tabaccaia e i balli d’estate al Grand Hotel spiati da dietro le siepi. Con il borgo condivide il trascorrere delle stagioni, con i fuochi per festeggiare l’arrivo della primavera, e gli eventi, il passaggio della Mille Miglia e quello del transatlantico Rex, la visita del gerarca fascista e “il nevone”. La morte della madre e il matrimonio di Gradisca segnano la fine della sua adolescenza.

Proponiamo qui un’analisi della sequenza del Rex tratta dal nostro libro “L’infanzia e il sogno. Il cinema di Fellini” (Fondazione Ente dello Spettacolo ed., 2009) 

PDVD_034Comincia in pieno giorno una delle sequenze più celebri dell’intera filmografia felliniana, quella del passaggio notturno del Rex al largo di Rimini in Amarcord, nonostante sia evidentemente girata non nell’Adriatico, dove il sole non tramonta nel mare, ma nel Tirreno che consente la suggestione occidentale[1]. In una strada del Borgo, un uomo con la paglietta si rivolge a qualcuno fuori campo, dandogli appuntamento “tra le undici e mezzanotte” e accennando a una barca. L’uomo ha il capo leggermente rialzato, come se il suo invisibile interlocutore fosse affacciato a una finestra: quindi, non guarda “in macchina”, ma è come se lo facesse in virtù del fugace monologare. Accade non di rado nel cinema di Fellini e vieppiù in questa medesima sequenza, a ulteriore dimostrazione sia di un lascito neorealistico mai del tutto sopito sia di una disarticolazione del canone classico che, com’è noto, “vieta” o almeno sconsiglia di appellarsi inopinatamente allo spettatore, includendolo nell’azione. Regole che le Nouvelles Vagues degli anni Cinquanta/Sessanta infrangono con la scanzonata anarchia del Free Cinema britannico o con la malcelata saccenteria del “cinema saggistico” dei Rouch e Godard, e che Fellini invece semplicemente elude, con la leggerezza che gli è propria coniugata con la versatilità poetica dello sceneggiatore Tonino Guerra, coetaneo di Federico e romagnolo di Santarcangelo, il quale “proviene” pur sempre dal sodalizio con Antonioni, qui alla prima delle quattro scritture felliniane[2].

“Trenta piani, ha undici fumaioli” – dice un ragazzo. Una piccola serie di inquadrature festose – c’è persino un aquilone svolazzante – da vari punti di vista laterali o posteriori, sul lungomare o nei pressi della casa della famiglia di Titta, con attacchi sul movimento/incamminamento delle persone, enfatizzati dal brioso crescendo musicale di Nino Rota, abbozzano l’eccezionalità di una situazione imminente. Siamo ora sulla spiaggia estiva, dove la Gradisca (Magali Noël), scarpe in mano per camminare più agevolmente sulla sabbia, oltrepassa un ombrellone aperto e, fra altra gente, si dirige verso il mare, nel quale un pattino e un paio di barche già salpano. Un gruppo di ragazzi la riconosce, se l’additano a vicenda – “la Gradisca, la Gradisca!” – e le indirizzano un applauso che lei accoglie compiaciuta, mentre un bellimbusto le porge il braccio per farla salire su un altro moscone. “E’ qua il nostro piroscafo”. Ora, di nuovo sul molo, un popolano si rivolge direttamente alla macchina da presa che lo pedina (“a spalla”) e s’interroga in un italiano fortemente gergale: “ma dovo va tutta questa gente? Dovo va col cuore in subbuglie?”. Una inquadratura isola un bagnino che aiuta una signora a salire su un peschereccio e di lì parte una carrellata “portuale” che mostra un altro barcone stracarico di passeggeri nel momento in cui si distacca da terra. E’ un movimento della macchina da presa che termina sul primo piano dell’uomo che continua a chiedersi, retoricamente perché lo sa benissimo (lui, non lo spettatore), dove stiano andando tutti quanti. E un altro uomo, sempre guardando dritto nell’obiettivo, aggiunge: “Oggi è una giornata molto importante per il nostro paese”.

Le barche prendono il largo. Stacco. Sui bianchi terrazzamenti del Grand Hotel[3], sorta di bastioni sui quali per l’occasione sventolano bandiere gialle e bianche, gonfaloni mondani ad onta dei colori vaticani, qualcuno ha istallato un cannocchiale che s’accinge a usare, mentre una coppia fa cenno al manicomio di Bisceglie! La Volpina sopraggiunge fra i massi frangiflutti di un altro molo, osservando in prospettiva le barche ormai lontane. Uno slargo del Borgo in cui campeggia l’insegna di un negozio è deserto, c’è soltanto un cane. Su uno scafo i passeggeri si domandano “quanto peserà” (il Rex, che nessuno ha ancora nominato), concludendo che sarà “due volte e mezzo il Grand Hotel”. Ma non manca la glossa che ambisce all’iperbole, tipica della provincia: “Due volte e mezzo il Grand Hotel, più l’Arco di Augusto”. Su un altro natante il bagnino grasso e rauco intona/stona “Sul mare luccica…”, primi versi della canzone Santa Lucia di Nisa e Calzia (1948). Un erudito invece declama i versi “tu passi, – e il tuo fato / io seguo nel flutto guardando la scia luccicare”, dalle Odi navali di Gabriele D’Annunzio e in particolare da “A una torpediniera nell’Adriatico” (1892). Era una nave ammirata dal vate nel porto di Ancona nel 1887 in occasione della prima sfilata della rinata squadra navale italiana dopo la sconfitta di Lissa[4]. In una pagina memorialistica D’Annunzio ne parla con i consueti toni magniloquenti, sebbene stemperati dall’affacciarsi di un’insolita “tenerezza”. Un ricordo dannunziano che Fellini a nostro avviso aveva letto: “Io non dimenticherò mai nella vita il fremito che corse la moltitudine quando tonò il primo colpo di cannone. Per alcuni giorni fu uno spettacolo quasi direi, nuziale. Giovini e vecchi, donne e fanciulli, i poveri ed i ricchi tutti movevano alle navi, salivano sui ponti, scendevano sotto coperta, ammiravano minutamente tutti i congegni, ascoltavano religiosamente le parole dei marinai, respiravano con delizia l’aria chiusa delle macchine, toccavano le armi. Sul tramonto, la gente veniva su i moli per intendere la salve che salutava le bandiere calanti. Pareva che il popolo, in un trasporto di tenerezza, volesse inghirlandare di fiori il naviglio rinnovellato”.

Il “pataca” zio di Titta (Ferdinandino/Nando Orfei: più circo di così…) viene issato a bordo. Con la cuffia da nuotatore e la pancetta del buongustaio, ha raggiunto la barca dalla riva a forza di bracciate “stile libero”. Un’impresa che, confessa mentre si accascia stremato sul ponte esponendosi al sarcasmo di un altro passeggero intento mangiare e sputare qualcosa, gli ha fatto diventare “le palle come due fagioli sfritti”. L’inquadratura successiva, in campo lungo, è una cartolina rannuvolata del tramonto, attraversata dal volo di un gabbiano, con le barche ondeggianti nell’attesa: un’immagine arcadica, pacificatrice, uno iato o una sospensione tra il febbricitante abbrivio della folla e quanto deve accadere. Il “pataca”, in accappatoio, adesso canta strofe malinconiche: “voglio balare con te, tutta la notte così”. C’è chi fuma. Una coppia balla. Un omino strampalato, mangiando una fetta d’anguria, racconta che una volta un delfino si è sporto sulla sua barca e lo ha chiamato “mamma”. Il crepuscolo intanto, nella luce governata da Peppino Rotunno, si è fatto aureo e purpureo epi oinopa ponton, “sul mare color del vino” caro ad Omero. Un campo più stretto, e ormai notturno, restituisce un dialogo tra la madre e il padre di Titta: Aurelio il capomastro (Armando Brancia) almanacca intorno alle stelle che si reggono senza mattoni né calcestruzzo e poi si offre di coprire con la sua giacca la moglie Miranda (Pupella Maggio), stanca dell’attesa: “Dobbiam star qui ancora molto? E’ l’una!”. E lui: “E che ne so, avevan detto verso mezzanotte… E poi anche se tarda un po’ , sta venendo dall’America, oh”.

Ecco il cieco di Cantarel (Domenico Pertica) che, imbracciando la sua fisarmonica, si esibisce un due sputi simmetrici prima di intonare una nenia dolce e amara. E’ il preludio per la confessione della Gradisca, col suo abito niveo da marinaia con i bordi e le stelline in rosso, e una maglietta da gondoliere impreziosita da una lunga collana di perle. Al suo fianco ha un’amica più giovane, una brunetta esile e allegra, a mo’ di contrappunto alla malinconia cui la Gradisca per la prima volta sembra voler concedere cittadinanza. Ella è cullata dal rollio del pattino e confessa di cominciare a sentirsi matura, a trent’anni, per una relazione stabile: “Ogni volta mi sono illusa e invece finiva tutto subito… Vorrei avere una famiglia, dei bambini, un marito, qualcuno con cui scambiare due parole alla sera, magari bevendo il caffellatte. E poi ogni tanto fare anche l’amore, perché quando ci vuole, vuole. Ma più che l’amore, contano i sentimenti. E io ne ho tanto di sentimento dentro di me, ma a chi lo do? Chi è che lo vuole?”. Si commuove la Gradisca, piange, consolata dall’amica.

notte rexStacco. Ora dormono tutti nella nebbia, in mezzo al mare. Il primo a vedere la sagoma del Rex è, quindi, lo spettatore: imponente e solenne, eppur tenue lucore nelle tenebre, Moby Dick mansueta, profilo di una bellezza folgorante[5]. La nave lancia il suo richiamo, un suono acuto e prolungato e solo allora un bambino urla: “Eccoloooo”. E Titta, risvegliandosi: “Babbo, il Rex, il Rex!”. Tutti si sbracciano per salutarne il passaggio con le sagome festose riprese di spalle. C’è una panoramica ravvicinata della fiancata del transatlantico per suggerirne le ampie dimensioni e poi un campo largo, fisso o fisso, di un gruppetto di persone fra cui il podestà che augura “buon viaggio”. Qualcuno grida: “Viva l’Italia!”. Il cieco con la fisarmonica, appoggiato all’albero maestro dello scafo e attorniato da compaesani che sorridono e salatano, chiede “Com’è? Com’è?. Si toglie gli occhialini neri e, accennando a sua volta a un sorriso, chiede ancora: “Com’è”?. Adesso ne vediamo più da vicino le luci delle cabine, i pavesi inghirlandati di lampadine, il ponte gigantesco sul quale s’innalza un edificio che, pur esibendo tre file di finestre, appare poco più di una miniatura, e i due grandi fumaioli da cui si librano pennacchi bianchi di fumo, verso cui si dirige impercettibilmente la macchina da presa.

Tocca a un primo piano della Gradisca che sta ancora piangendo, ma non sappiamo più se per il marito di là da venire o per il prodigio del Rex, cui manda baci con le mani dopo averle congiunte in una preghiera, in un voto. Ancora il sibilo della nave giunge a scandire la colonna sonora, mentre il papà di Titta accenna a un saluto con la paglietta e c’è di nuovo la Gradisca che adesso si asciuga le lacrime. Poi una panoramica va dal Rex, già più lontano, verso il buio, verso il nulla. La festa è finita. L’ondeggiare minaccioso e rumoroso del mare, vistosamente finto proprio come nella scena iniziale del Casanova, conclude la sequenza. Laddove la sequenza successiva, sia detto per inciso a conferma della libertà creativa di Fellini anche in moviola, non è affatto solare come prescriverebbe la canonica alternanza “virtuosa” tra giorno e notte, bensì brumosa, col nonno di Titta perso nella nebbia davanti a casa sua: una scena che parla di morte e che viene per così dire “glossata” da un’altra epifania, stavolta terragna e spaventosa, d’un bovino con lunghe corna.

All’indomani della vittoria del quarto Oscar per Amarcord, nel 1975, Fellini concede una svogliata o reticente intervista televisiva al giornalista della Rai Alberto Michelini, nella quale svela che a dirgli per primo della statuetta è stato telefonicamente Alberto Sordi e conclude, un po’ infastidito dall’incalzare delle domande, con alcune affermazioni che meritano di essere riportate: “La verità – dice Federico – è che io non ho voluto dimostrare un bel niente. Non ho messaggi da inviare all’umanità. Mi dispiace proprio. Considero il cinematografo un giocattolo meraviglioso, un favoloso passatempo”. E’ il giocattolo che gli permette di dare vita – e anima – a una nave e a un popolo in festa fin da terra per il suo passaggio. E farlo in una piscina. E’ il giocattolo che risuscita lo stupore dell’infanzia personale e quella collettiva di un’Italia “piccola” nel bene e nel male del fascismo assunto in Amarcord quale indugio adolescenziale, narcisismo nazionale, immaturità incarognita. Un’Italia che nel Rex proietta la sua struggente voglia di lontananza da se stessa.

 

 

[1] Il direttore della fotografia Giuseppe Rotunno racconta: “Il Rex l’abbiamo girato dentro le piscine di Cinecittà. L’imbarco per la serata del passaggio del Rex l’abbiamo girato a Fiumicino, stavamo girando un tramonto e gli ho detto: ‘Federico, abbiamo il sole dalla parte sbagliata! A Rimini non tramonta in mare’ – ‘Sto qui per quello!’, mi ha risposto” (in Orio Caldiron, Giuseppe Rotunno – la verità della luce, Centro Sperimentale di Cinematografia – Skira, Roma-Milano 2007, pp. 100).

[2] Guerra lavorerà alle sceneggiature di Il Casanova, E la nave va, Ginger e Fred.

[3] Per simulare il Grand Hotel riminese Felini adottò “Il Paradiso sul Mare” di Anzio, sul litorale romano. E’ un edificio liberty degli anni ’20 che nel gennaio 2009 ha ospitato alcune riprese di Nine, il film diretto da Rob Marshall, scritto da Bob Fosse ed Anthony Minghella, e ispirato alle vicende del personaggio interpretato in 8 ½ da Marcello Mastroianni/Guido Anselmi. Nel cast figurano Nicole Kidman, Penelope Cruz, Daniel Day-Lewis, Kate Hudson, Judy Dench, Marion Cotillard, Sophia Loren, Ricky Tognazzi, Valerio Mastrandrea, Elio Germano, Martina Stella.

[4] Per saperne di più, Giacomo Scotti, Lissa 1866. La grande battaglia per l’Adratico, Lint, Trieste 2004.

[5] Rammenta e rivela ancora Rotunno: “La sagoma del Rex fu costruita come un puzzle, migliaia di pezzi realizzati in un teatro di posa e poi incollati sul fondale della piscina di Cinecittà. Le uniche cose vere del Rex erano il fumo dei fumaioli, direzionato dai ventilatori, le lampadine dei pavesi e degli oblò e un getto d’acqua che io osai mettere davanti alla prua per dare l’impressione del movimento della nave. Quando Federico l’ha vista, mi ha chiesto preoccupato: ‘Non sembrerà vera?’. Gli risposi: ‘No, stai tranquillo, darà solo l’emozione del movimento’. La cinepresa che inquadrava i passaggio del Rex era posizionata su una grane piattaforma con sopra sistemate le sezioni di alcune barche sulle quali erano seduti i personaggi del film per assistere e festeggiare il passaggio della fantastica nave. Per dare l’impressione del movimento, la piattaforma carrellava nella direzione opposta a quella del Rex con tutto il suo carico, cinepresa e sezioni di barche con dentro alcuni personaggi. Lo stesso artificio lo abbiamo usato in misura più vasta nella partenza della nave nel film E la nave va” (op. cit., p. 97). E’ una testimonianza preziosa tanto della sapienza artigianale del cinema di Fellini (ma di quello italiano in generale) quanto della consequenziale sobrietà scenografica e degli effetti visivi di un regista considerato per troppo tempo, e a torto, come un maestro “barocco”. Tutto, invece, in Fellini si esprime nella cifra della estrema semplicità, la sua stessa poetica viene dalla scarnificazione della realtà e dalla sua stilizzazione in termini “mitici”.

 

AMARCORD – Regia: Federico Fellini Sceneggiatura: Federico Fellini, Tonino Guerra Fotografia: Giuseppe Rotunno Musica: Nino Rota Scenografia e costumi: Danilo Donati Produttore: Franco Cristaldi Pellicola: colore; Interpreti: Bruno Zanin; Pupella Maggio; Armando Brancia; Stefano Proietti; Giuseppe Lanigro; Nandino Orfei;Ciccio Ingrassia; Carla Mora; Magali Noël; Luigi Rossi; Produzione: ;Origine: Italia-Francia; Durata: 123 minuti.

 

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