Raluca Ganea: “Serve un’alternativa alla guerra eterna di Netanyahu”

Dopo quasi due anni di guerra a Gaza e almeno 65mila palestinesi uccisi, il riconoscimento dello Stato palestinese è diventato una questione urgente sulla scena internazionale. Francia e Regno Unito hanno recentemente compiuto questo passo, affiancandosi ad altri Paesi occidentali e portando così a quattro su cinque i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che riconoscono la Palestina – resta il veto degli Stati Uniti, sufficiente a bloccarne l’ammissione alle Nazioni Unite. Nel frattempo, gli appelli a favore di uno Stato palestinese si moltiplicano. Tra questi, la petizione promossa da 60 Ong israeliane riunite nella coalizione It’s Time, che sostiene la soluzione dei due Stati e a maggio ha organizzato un vertice per la pace. Reset ne ha parlato con Raluca Ganea – cofondatrice e direttrice esecutiva di Zazim, un movimento civico che riunisce arabi ed ebrei per la democrazia e l’uguaglianza, oltre che membro di It’s Time – per capire cosa serve a trasformare la prospettiva dei due Stati in una realtà politica.

 

Avete contribuito a promuovere una petizione che chiede ai membri dell’Onu di riconoscere la Palestina. Perché adesso? E perché, dopo quasi due anni di guerra, la soluzione dei due Stati resta essenziale?

Abbiamo iniziato a pensare a una campagna subito dopo il 7 ottobre 2023, quando la dottrina Netanyahu – gestire il conflitto e rafforzare Hamas invece di lavorare con l’Autorità Palestinese per un accordo di pace e la fine dell’occupazione – è crollata in modo così tragico. Ma in quei primi giorni e mesi eravamo travolti: familiari, amici, colleghi presi in ostaggio o uccisi, i razzi che cadevano. Ci siamo concentrati solo sulla liberazione degli ostaggi e sulla fine della guerra. Man mano che la guerra a Gaza assumeva un carattere genocidario, c’era ancora meno spazio per parlare del “giorno dopo”. Ci siamo limitati a cercare di fermare ciò che stava accadendo a Gaza. Parlarne oggi può sembrare irrilevante dopo due anni di guerra, ma in realtà significa offrire un’alternativa alla guerra eterna di Netanyahu.

 

Che cosa vuole Benjamin Netanyahu?

Netanyahu ha una visione molto chiara: una guerra senza fine per impedire la nascita di uno Stato palestinese, annettere tutte le terre palestinesi, espandere gli insediamenti e portare avanti una pulizia etnica a Gaza e, con ogni probabilità, anche in Cisgiordania. La presenta come l’unica opzione possibile. Per questo, anche se oggi è difficile guardare oltre a ciò che accade a Gaza – e fermarlo resta la priorità assoluta – dobbiamo comunque parlare del “giorno dopo”, proporre un’alternativa. L’iniziativa saudita-francese è stata una grande occasione per rilanciare questo tema e avviare quella discussione. Parallelamente portiamo avanti campagne per spingere i soldati a rifiutarsi di partecipare a crimini di guerra o a eseguire ordini illegali a Gaza. Crediamo sia fondamentale tenere insieme entrambe le cose: dire cosa deve cessare, ma anche cosa deve accadere. L’evento alle Nazioni Unite è stato un’opportunità che non potevamo lasciarci sfuggire per iniziare a lavorare sul “giorno dopo”.

Che ruolo può avere la comunità internazionale, anche con Donald Trump di nuovo sulla scena?
Donald Trump è un problema. Più in generale, la comunità internazionale, il diritto internazionale e le istituzioni oggi appaiono molto deboli – non solo sulla questione di Gaza, ma su molti altri fronti. L’ordine mondiale costruito dopo la Seconda guerra mondiale si sta sgretolando in più direzioni. Eppure possiamo soltanto fare la nostra parte. Per noi questo significa spingere la comunità internazionale a un coinvolgimento maggiore, e il riconoscimento della Palestina è un passo in questa direzione. Speriamo che non resti un atto puramente simbolico, ma che porti cambiamenti concreti sul terreno – più strumenti per fare pressione su Israele affinché ponga fine alla guerra, per contrastare l’annessione in Cisgiordania e per dare alla Palestina un diverso status nel diritto internazionale. Non è una soluzione magica, e le sfide sono molte—Trump incluso.

 

Cosa risponde a chi – come il primo ministro Benjamin Netanyahu – sostiene che il riconoscimento della Palestina significhi fare un regalo ad Hamas?

È una propaganda talmente palese che fa male vedere quante persone vi credano. Capisco la paura: molti abitanti del sud e del nord di Israele vivono ancora il trauma del 7 ottobre e dei mesi successivi. Ma Netanyahu sfrutta questa paura. Il riconoscimento della Palestina non è un atto isolato: va di pari passo con la fine della guerra, la liberazione di tutti gli ostaggi e una chiara richiesta da parte degli Stati arabi, della Turchia e di altri attori affinché Hamas non resti al potere a Gaza. È nell’interesse stesso di Israele: significa riconoscimento reciproco, accordi di sicurezza e l’esclusione di Hamas dal governo.

 

La vostra organizzazione guarda a un futuro di pace. Come riuscite a mantenere viva questa visione in un contesto di profonda polarizzazione in Israele dopo il 7 ottobre? Un sondaggio recente, per esempio, ha rilevato che oltre l’80 per cento degli israeliani sostiene l’espulsione dei gazawi, e più della metà persino il trasferimento dei cittadini arabi di Israele…

Il quadro generale è cupo. La polarizzazione è un problema globale, alimentato dai social media e dai leader populisti. In Israele, a questo si somma una guerra permanente sfruttata da Netanyahu. Il modo per affrontare la situazione non è inseguire i sondaggi, come fanno molti leader dell’opposizione cercando di attrarre il centrodestra. Questa strategia fallisce da anni. Nessuno a destra moderata voterà mai per un leader di sinistra. I sondaggi vanno usati per capire le paure degli israeliani e indicare una via d’uscita. Altrimenti la finestra di Overton—cioè ciò che viene percepito come accettabile nelle politiche di governo—continua a spostarsi sempre più a destra.

Il ruolo della società civile è di essere chiari sulla propria visione. Se la annacqui per compiacere l’altra parte, non arrivi da nessuna parte. La destra è sempre stata molto chiara sulla propria visione ultranazionalista ed estremista. Dopo il 7 ottobre, mentre noi eravamo in lutto, loro già invocavano la conquista di Gaza e la ricostruzione degli insediamenti e sono riusciti a normalizzare questo discorso. Due anni fa, quando la dottrina di Netanyahu della “gestione del conflitto” è crollata, pensavo che la gente avrebbe scelto chiaramente la soluzione dei due Stati invece della distruzione dell’altro. Ma poiché noi non abbiamo spinto con forza questa visione e la destra ha spinto la propria, ci ritroviamo oggi in una guerra genocidaria. È impensabile, ma dimostra perché dobbiamo cominciare, per quanto duro e lungo possa essere il percorso.

 

Ha citato azioni di rifiuto e disobbedienza civile. Tra le vostre campagne c’è l’esposizione di una bandiera nera. Ci può spiegare di cosa si tratta?

È una metafora che nasce da una sentenza della Corte Suprema del 1956, dopo il massacro di Kfar Qassem. In quella decisione la Corte non si limitò a definire cosa sia un ordine illegale, ma parlò di un ordine manifestamente illegale – un ordine che un soldato o un comandante hanno il dovere morale di rifiutare. La Corte disse che un ordine su cui sventola una “bandiera nera” è un ordine che ogni occhio e ogni coscienza possono riconoscere come illegittimo, come contrario alla legge morale, umana e statale. Nella mia generazione, questa sentenza veniva insegnata a scuola e nell’esercito: i soldati devono saper distinguere gli ordini illegali. Abbiamo voluto riprendere proprio quell’ethos, parte della tradizione israeliana, per parlare a persone cui il governo ripete che tutto è giustificato pur di evitare un altro 7 ottobre. Ricordiamo loro che hanno un dovere morale: distinguere tra gli ordini che difendono i cittadini e quelli che non possono in alcun modo essere giustificati. Non si tratta semplicemente di disobbedienza civile: stiamo chiedendo ai soldati, sia attivi che riservisti, di rifiutarsi di partecipare a crimini di guerra—come è loro dovere.

 

Cosa significa, in pratica, per un cittadino o un soldato rifiutarsi di partecipare alla guerra? E quali rischi comporta questa scelta?

Rifiutarsi è molto difficile: i tuoi amici sono lì, e non andarci dà la sensazione di abbandonarli. Inoltre, la propaganda del governo è fortissima. Ma la realtà è che il rifiuto sta crescendo, in forme diverse – dal rifiuto esplicito al sottrarsi in maniera silenziosa o indiretta – e aumenterà man mano che la guerra si prolunga. Diventa sempre più impossibile difenderne gli obiettivi. Non si tratta di una guerra difensiva per i cittadini israeliani; è una guerra politica al servizio di Netanyahu e dei suoi partner estremisti.

Ha anche un costo enorme per le famiglie e per l’economia: mariti lontani per mesi, divorzi, imprese che falliscono. Non può continuare così. Perciò, anche se è difficile, sempre più persone rifiuteranno. Alla fine sarà questo a fermare la guerra: semplicemente non ci saranno abbastanza soldati per combatterla.

 

E per i cittadini comuni cosa significa?

Ci sono diversi modi di resistere. Con la nostra campagna per il rifiuto dei crimini di guerra, ad esempio, abbiamo distribuito oltre mezzo milione di volantini nelle cassette della posta in tutto il Paese. Chiunque può scriverci, ricevere un pacchetto di volantini e distribuirli nel proprio quartiere. Azioni di questo tipo oggi probabilmente sono più efficaci delle manifestazioni.

Le manifestazioni contano ancora – soprattutto per mostrare al mondo quello che sta accadendo – ma non influenzano più il governo. Israele resta formalmente una democrazia, nel senso che possiamo ancora protestare, sebbene la polizia usi violenza. Ma in realtà il governo non si cura della pressione o dell’opinione pubblica. Questo mina il senso di partecipazione delle persone, rende più difficile agire: abbiamo perso del tutto la capacità di influenzare il nostro governo.

 

C’è un piano che circola per il futuro di Gaza, la cosiddetta “miniera d’oro immobiliare” ventilata dal ministro Smotrich. Qual è la sua posizione?

È scandaloso: è un’agenda di supremazia ebraica, razzista e inaccettabile da qualsiasi punto di vista giuridico. Fa parte di una visione ultrareligiosa, ultranazionalista e persino messianica che ha preso il Paese in ostaggio. Ma questa visione, come quella di Smotrich, non è sostenuta dalla maggioranza degli israeliani. Se oggi si andasse alle elezioni, lui non supererebbe nemmeno la soglia di sbarramento ed è per questo che si evita di votare. È un programma inaccettabile perché implica una pulizia etnica.

 

Gli Accordi di Oslo avrebbero dovuto aprire la strada alla soluzione dei due Stati, ma non si sono mai concretizzati. Cosa è successo secondo lei?

Le ragioni del fallimento degli Accordi di Oslo sono molte, e le responsabilità sono di entrambe le parti. Dal punto di vista israeliano, due elementi spiccano. Il primo è che gli accordi furono articolati in fasi, lasciando ampio margine a interpretazioni diverse, mentre la vita dei palestinesi in Cisgiordania peggiorava. Ma il fattore decisivo fu l’assassinio, nel 1995, del primo ministro Rabin da parte di un ultranazionalista ebreo, un atto incoraggiato da Netanyahu, allora leader dell’opposizione, che incitava alla ribellione contro gli sforzi di Rabin per porre fine all’occupazione e raggiungere una soluzione a due Stati con una coalizione di partiti ebrei e arabi. Quell’assassinio portò Netanyahu al potere nel 1996 e pose di fatto fine a Oslo. Rabin aveva una visione; chi lo circondava, no.

 

E oggi, dov’è l’opposizione a Netanyahu su questo tema?

L’assassinio fece crollare dall’oggi al domani anche il campo pacifista israeliano. Ci venne detto che la priorità era riconciliare la società israeliana al suo interno, e che spingere per la fine dell’occupazione era divisivo. Quella mentalità fu molto dannosa. Da allora, in Israele sono rimasti gruppi per i diritti umani a battersi contro l’occupazione, ma non un vero movimento per la pace. E da quando Netanyahu è tornato al potere, nel 2009, non ci sono stati negoziati con i palestinesi. Sono ormai 16 anni. Il muro di separazione costruito nei primi anni duemila ha solo approfondito le divisioni. Un’intera generazione di israeliani è cresciuta senza mai incontrare palestinesi, il che ha reso più facile per Netanyahu vendere l’idea che il conflitto possa essere “gestito” all’infinito—attraverso misure economiche, la normalizzazione con i Paesi del Golfo, qualsiasi cosa pur di non affrontare la mancanza di sovranità, libertà e giustizia dei palestinesi. E il mondo intero ha accettato questa impostazione.

 

 

Immagine di copertina: la conferenza sulla soluzione a due Stati prima dell’Assemblea generale dell’Onu, New York il 22 settembre 2025. Foto: Kay Nietfeld/dpa Picture-Alliance via AFP).

  1. Purtroppo Netanyahu sta mettendo in pratica ciò che, secondo la Bibbia, Dio, il “signore degli eserciti”, ha promesso al suo popolo eletto, ovvero la “terra promessa”. Levi-Strauss, nelle ultime pagine del suo “Tristi tropici” scrive che l’umanità ha dato il meglio di se stessa alle sue origini, dopo di che un progressivo disordine. Spiritosamente, sostiene addirittura che la parola antropologia debba essere sostituita con entropologia. Come esempio, riporta le tre religioni monoteiste e patriarcali, nate più o meno alla distanza di mezzo millennio l’una dall’altra, e stranamente nella stessa “terra santa”.

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