Mentre Vladimir Putin cerca di accreditarsi sulla scena internazionale come l’architetto di un “nuovo ordine mondiale” al fianco di Xi Jinping e Kim Jong-un, e in Ucraina la guerra prosegue, Reset ha raggiunto Stephen Hanson, tra i massimi esperti americani di Russia e regimi autoritari, Lettie Pate Evans Professor al College di William e Mary ed ex direttore del Davis Center for Russian and Eurasian Studies di Harvard. Nel suo ultimo libro, The Assault on the State, scritto con Jeffrey Kopstein, Hanson analizza l’attacco globale alle istituzioni moderne e il ritorno del patrimonialismo, una forma di potere che si fonda su fedeltà personali e legami emotivi più che su strutture legali.
Professor Hanson, dall’annessione della Crimea all’invasione su larga scala dell’Ucraina, come è cambiato il potere di Putin, dentro e fuori la Russia?
Negli ultimi tempi Putin ha ottenuto diversi successi in politica estera: prima il tappeto rosso ad Anchorage con Trump, poi la posizione d’onore al vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e la parata militare in Cina, accanto a Xi Jinping e Kim Jong-un. In questa occasione ha tenuto una conferenza stampa trionfale, presentandosi come l’architetto del nuovo ordine mondiale. Da fuori appare in ascesa, ma sul piano interno la situazione è molto meno solida.
In che senso?
Negli ultimi due anni l’economia è cresciuta del 4 per cento l’anno, trainata soprattutto dalle spese di guerra, ma ora ristagna. L’inflazione resta una minaccia, i tassi di interesse sono fermi al 21% e cresce il malcontento tra gli industriali. Pochi giorni fa Germán Gref, uno dei più noti banchieri russi, un tempo vicino a posizioni liberali, ha dichiarato pubblicamente che senza una calo dei tassi l’economia rischia di bloccarsi. Un segnale sorprendente, perché nella Russia di Putin simili prese di posizione pubbliche indicano problemi seri.
E a livello regionale?
Anche nel cosiddetto “estero vicino” si notano segni di debolezza. La Russia non è più in grado di influenzare direttamente partner come l’Armenia, che si è rivoltata contro Mosca dopo la pulizia etnica degli armeni in Nagorno-Karabakh. Persino l’Azerbaigian, pur vincitore di quella guerra, si è in parte allontanato dall’orbita del Cremlino, spinto anche dal risentimento per un disastro aereo che ha causato la morte di molti cittadini azeri. Putin ha puntato tutto sulla guerra in Ucraina e la sua capacità di proiettare potenza altrove si è ridotta. È un paradosso: proprio mentre, come dice, l’Occidente collettivo si divide e gli inviti alla Russia a partecipare a consessi internazionali si moltiplicano, la pressione interna aumenta.
Quanto la guerra ha inciso sul suo potere?
È il paradosso tipico di una dittatura patrimoniale e personalistica. Sul piano personale Putin è più forte che mai: la repressione è capillare, i bambini vengono educati a vedere l’Ucraina come un nemico “nazificato”, la sua autocelebrazione ha raggiunto vette inedite. La sua glorificazione personale ha raggiunto livelli mai visti prima dell’invasione. Ma sul piano istituzionale, come accade sempre nei regimi antiliberali, c’è una perdita di capacità: niente innovazione, un’economia piegata alla produzione militare, una fuga di cervelli continua verso il Caucaso, il Medio Oriente o dovunque ci sia una via d’uscita. È potere personale a spese della nazione.
La guerra ha accentuato il carattere patrimoniale del suo regime?
Assolutamente. Putin ha rilanciato su tradizione, religione ortodossa, antiliberalismo, opposizione ai diritti LGBTQ: tutti elementi centrali del modello patrimoniale che oggi sono al cuore del suo messaggio politico. E funziona, perché molti russi vedono l’Occidente come un luogo di peccato, persino come alleato di Satana, come lui stesso ha detto. I media di regime rafforzano questa narrazione. Ma i sistemi patrimoniali, anche se consolidati, diventano col tempo istituzionalmente sclerotici. Nessuno può mai dire al leader che sbaglia. Probabilmente l’invasione dell’Ucraina è stata lanciata proprio perché nessuno attorno a Putin osava dire che non avrebbe funzionato.
E l’opinione pubblica?
Le stime indirette danno ancora a Putin circa il 60% di consenso. Non ci sono segnali di rivoluzione sociale imminente: esiste malcontento tra le famiglie che hanno perso figli al fronte o tra chi tenta di emigrare. Ma molti dei più critici sono già all’estero. È un po’ come Cuba sotto Castro: quelli che avrebbero potuto rovesciarlo sono finiti in Florida, e all’interno non si è sviluppato lo stesso fermento tra intellettuali e giovani.
All’estero Putin appare più debole e dipendente dalla Cina. Può davvero reggere a lungo la guerra?
Il suo potere personale non è in pericolo immediato. Primo, perché è disposto a sacrificare moltissime persone. Non gli importa se centinaia di migliaia di giovani russi muoiono: è già successo. Le prigioni sono state svuotate e molti di quei coscritti sono morti. Ora il reclutamento si concentra nelle regioni povere ed etniche, dove lo stipendio militare è un incentivo forte. Secondo, perché la propaganda è pervasiva. Molti soldati capiscono la realtà della guerra solo quando arrivano al fronte.
E per Kiev?
Anche l’Ucraina affronta lo stesso logoramento, con un numero limitato di giovani uomini. La sfida è mantenere viva la nazione – famiglie, nascite – mentre la guerra miete centinaia di migliaia di morti e feriti. Sul campo non ci sono sfondamenti: solo piccoli guadagni a un costo umano altissimo. L’uso massiccio dei droni rende ancora più difficile avanzare: appena le truppe provano a muoversi vengono colpite.
Da cosa dipenderà allora l’esito?
Dalla tenuta interna dei due regimi. Un vero cambiamento avverrà solo quando uno dei due comincerà a incrinarsi. Da questo punto di vista sono più ottimista sull’Ucraina: è straordinariamente unita, e i comportamenti russi – bombardamenti contro civili, ospedali, scuole, rapimenti di bambini – rendono impossibile il compromesso. Per gli ucraini è una lotta esistenziale.
Per la Russia, invece, potrebbero aprirsi crepe: Putin potrebbe ammalarsi, oppure si potrebbe ripetere un episodio in stile Prigozhin, quando le truppe marciarono verso Mosca. Non mi aspetto un’insurrezione di massa, ma nei regimi patrimoniali il potere si erode lentamente e le crepe col tempo si allargano.
Cosa teme di più Putin: la democrazia in Ucraina o la NATO al confine?
Per lui sono la stessa cosa. Non distingue tra democrazia liberale, NATO o Unione Europea: tutto fa parte di quel mondo unipolare e “decadente” che dice di combattere insieme a Xi e agli altri della SCO.
Alla fine del comunismo i russi guardavano all’Occidente con grande desiderio, e quel senso di privazione fu una delle cause del crollo. È ancora così oggi? Oppure la vita quotidiana è relativamente buona?
Quel fenomeno è molto meno pronunciato oggi. Allora gli scaffali erano vuoti, e il contrasto con l’Occidente era abissale. Oggi la vita dei consumatori non è molto peggiore rispetto a prima dell’invasione. Ma tra i russi più istruiti e cosmopoliti c’è un malcontento profondo, anche se silenzioso. Lo si è visto con l’uccisione di Navalny: centinaia di migliaia di persone hanno visitato la sua tomba, nonostante i rischi. Quindi il malcontento esiste, ma è più forte tra la popolazione urbana e istruita che non nelle aree rurali.
Lei sostiene che esista un linguaggio politico comune tra Trump e Putin. In che senso?
Trump fa parte della stessa ondata patrimoniale globale iniziata con Putin. Non perché Putin gli dica cosa fare, ma perché ha adottato lo stesso stile di potere: lo Stato gestito come un’azienda di famiglia, amici e parenti premiati con pezzi di potere, uso indiscriminato della violenza contro i “nemici”. Quando ha capito di poter costruire un simile regime, ha voluto entrare in quello che chiamo il “Club Patrimoniale”.
Dove si è visto più chiaramente questo?
Nel comportamento quasi da supplice di Trump davanti a Putin ad Anchorage. O quando, durante il vertice della SCO a Pechino, Trump inviò un messaggio ironico sperando che non si “congiurasse troppo contro gli Stati Uniti”. Putin lo liquidò con un colpo basso: “Nessuno qui ha detto nulla di male sull’amministrazione americana”. In sostanza, lo mise al suo posto: non sei tra i veri leader.
Paradossalmente, l’unico gruppo che ancora tratta Trump da “capo” è quello europeo, ma solo per convenienza: per non compromettere la NATO, il sostegno Usa all’Ucraina e l’alleanza transatlantica. Così, quando vanno a Washington, sono i leader europei a comportarsi quasi da supplici.
Cosa ne pensa dei cosiddetti Paesi volenterosi?
Macron ha annunciato che 26 Stati sono pronti a garantire la sicurezza dell’Ucraina in caso di trattato di pace. Putin lo ha respinto, avvertendo che qualsiasi truppa occidentale sul suolo ucraino sarebbe un bersaglio legittimo. Non siamo quindi più vicini a un accordo, ma la mossa ha reso i leader europei più consapevoli: sanno che devono restare uniti. Restano però le grandi incognite: la società civile americana resisterà abbastanza a un eventuale regime patrimoniale trumpiano? L’Ue riuscirà a dotarsi di una difesa autonoma? Le crepe del sistema russo si allargheranno al punto da cambiare gli equilibri globali? Non lo sappiamo ancora.
Quanto manca a un compromesso sull’Ucraina?
Non vedo margini legali. Putin non ha cambiato posizione: insiste nel voler risolvere le “cause profonde” della guerra, cioè il fatto che l’Occidente abbia cercato di includere l’Ucraina nella propria orbita invece di riconoscerla come parte di quella russa, delle sue immaginarie radici kieviane. Dentro questo quadro non c’è trattativa possibile: non si tratta di confini, ma dell’idea stessa che l’Ucraina sia uno Stato indipendente, che lui definisce una creazione artificiale.
Finché resterà al potere non ci sarà accordo. Zelensky lo ripete, e i leader europei lo hanno capito: Scholz, Macron, Meloni, Starmer. Le uniche eccezioni sono il premier slovacco Fico e il presidente serbo Vučić, impegnati nel loro momento patrimoniale. Prima Trump – o Witkoff, o qualcun altro negli Stati Uniti – se ne renderà conto, prima Washington si allineerà agli europei. La buona notizia è che l’Occidente può restare unito; la cattiva è che gli Stati Uniti esitano. Una vittoria non arriverà nei prossimi sei mesi. Servirà solidarietà per resistere ancora due, tre, quattro anni di guerra di logoramento.
Foto di copertina: il presidente russo Vladimir Putin presiede un incontro del Consiglio nazionale di sicurezza al Cremlino, l’8 agosto 2025 (Sergei ILYIN / POOL / AFP).


