Birmania, l’incubo dimenticato dei musulmani Rohingya

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Lo scorso mese i morti sono stati più di quaranta ed è stato proclamato lo stato di emergenza. In queste ultime settimane il bilancio si è aggravato di altre nuove tredici, giovani, vittime. Si tratta della minoranza musulmana in Myanmar (Birmania in italiano) dove da anni si consuma un conflitto sotterraneo, di cui i media, soprattutto in Italia, non parlano e che fa parte del grande puzzle dell’instabilità che vede protagonista la comunità islamica del paese. Tanto che in questi giorni il presidente Thein Sein ha invocato una società multireligiosa. In un momento cruciale per l’evoluzione democratica del Paese e mentre si guarda già alle presidenziali 2015, Sein ha ricordato che “insieme abbiamo superato tante difficoltà e sfide” e che “adesso possiamo emergere come una società in cui convivono più razze e religioni armoniosamente, pur conservando i nostri costumi e tradizioni”.

Il capitolo delle violenze contro la comunità islamica birmana è stato riaperto alla fine di marzo, dopo dieci giorni di scontri scoppiati a Meiktila, nel centro del Paese, scatenati da una lite tra un commerciante musulmano e alcuni clienti. Un evento apparentemente banale che ha riacceso la miccia e liberato tensioni sopite, al punto che le violenze sono giunte fino all’area di Rangoon. Quarantatré i morti, 1300 edifici dati alle fiamme e 11.376 persone rimaste senza tetto, secondo il bilancio finale reso noto del quotidiano New Light of Myanmar. Più recente, invece, l’incendio di una madrasa a Botataung, quartiere multietnico dell’ex capitale che ha causato nuove vittime, stavolta tra gli studenti. Tredici i morti di quello che le autorità hanno archiviato come un incidente causato da un cortocircuito nella palazzina, anche se molte delle testimonianze raccolte farebbero pensare a un attentato.

La minoranza Rohingya

Stando ai dati del World Factbook relativi alla Birmania, su 55milioni di persone il 4% sarebbe musulmano. Una minoranza a cui fa compagnia quella cristiana (un altro 4%) seguita da un 1% di animisti, a fronte dell’89% della popolazione buddista. Episodi di violenza, in un Paese dove convivono non proprio armoniosamente circa 130 etnie differenti, non sono certo nuovi. Negli ultimi anni, però, la caduta della giunta militare ha rimesso in discussioni alcuni equilibri e ha favorito quel processo di democratizzazione che implica anche una maggiore fuoriuscita di notizie. L’ultima di cui si era parlato risale allo scorso anno e riguarda la tristemente nota etnia Rohingya. I Rohingya praticano un islam sunnita con alcuni elementi del sufismo e vivono per lo più nello stato di Rakhine. Di fronte al bilancio delle vittime (almeno 180 i morti e 120mila i feriti), la stampa internazionale allora non aveva esitato a parlare di pogrom. Un termine che appare ancora oggi sul Times of India, raccontando l’esperienza di un rifugiato Rohigya.

“I buddisti impediscono ai musulmani di uscire anche dalle loro case durante il giorno. Coloro che rifiutano di eseguire quest’ordine vengono uccisi”. Così parla sulle pagine del quotidiano indiano in lingua inglese Mohammed, delineando una situazione di isolamento ed esclusione: “le cure sanitarie, l’istruzione e tutti gli altri servizi sono per noi un sogno”.

Secondo le Nazione Unite, quella Rohingya è tra le minoranze più discriminate al mondo. Circa 800mila vivrebbero in Myanmar; un altro milione sarebbe sistemato in traboccanti campi profughi in Thailandia, Malaysia e soprattutto Bangladesh, che mal li sopporta e che nei mesi scorsi ha imposto ad alcune sue ONG di interrompere le proprie attività in loco. Il 90% della popolazione musulmana dello stato di Rahine vive proprio al confine con il Bangladesh; il passaggio al di là della frontiera pare, dunque, obbligato con tutte le conseguenze che ciò comporta per lo Stato ospitante.

Per Amnesty International, i Rohingya sono soggetti a restrizioni e violazioni dei diritti umani che vanno dalla confisca delle terre, alle tassazioni arbitrarie, fino alla privazione della libertà, ai lavori forzati e alla negazione della cittadinanza birmana. Questo significa che per molti profughi diventa difficile sperare di tornare là dove la propria famiglia ha vissuto per generazioni, e non resta che il limbo fra un Bangladesh che non li vuole e un Myanmar che non li riconosce. Un destino, questo, comune anche ad altre minoranze che contribuiscono a comporre il complesso quadro birmano.

Le origini e le responsabilità dei monaci

La presenza dei musulmani in Birmania si fa risalire all’influenza persiana e araba. Commercianti, coloni, militari o prigionieri di guerra; ufficiali del re, medici, schiavi o rifugiati; è nel corso dell’ondata migratoria in India, durante il protettorato britannico, che i musulmani incrementano la propria presenza nel Paese. Fino agli anni Quaranta in cui il flusso viene prima rallentato e poi interrotto. L’insofferenza nei loro confronti fa il paio con il sentimento anti-indiano e anti-britannico, ma trova le sue radici già nel XVI secolo, epoca in cui sono testimoniati divieti che colpiscono direttamente tradizioni islamiche come quella della macellazione halal. È dopo il colpo di Stato del generale Ne Win, nel 1962, però, che la condizioni della minoranza religiosa peggiora ulteriormente: i musulmani sono allontanati dai ranghi delle forze armate e considerati sempre più “stranieri” in Birmania.

I due episodi che segnano la storia del gruppo religioso, in anni recenti, sono i disordini esplosi a Mandalay nel 1997 e quelli di Tooungoo e Sittwe del 2001: in entrambi i casi le moschee furono oggetto di attacchi e, in entrambi i casi, i monaci ebbero un ruolo piuttosto attivo contro la minoranza islamica. Lo stesso si può dire del caos scoppiato a marzo. Su questo punto, però, le versioni sono controverse e c’è chi ipotizza, come pure Human Rights Watch, la presenza fra i monaci di agenti provocatori legati ai militari che hanno tutto l’interesse a soffiare sul fuoco in un momento così importante per il futuro politico birmano del Paese. Spezzettati anche al loro interno, i musulmani birmani non sono mai riusciti a rispondere alle violenze in modo organizzato; mentre dall’altro lato, dopo la caduta della giunta militare, in Birmania ha preso piede un movimento nazionalista buddista che spinge sull’odio anti-musulmano e che vede protagonista personaggi come il monaco Shi Wirathu. Sul suo blog, Wirathu scrive post che incitano al boicottaggio delle attività commerciali gestite dagli islamici e punta sul timore del “totalitarismo islamico”.

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Nella foto: rifugiata Rohingya in Bangladesh (cc, digital.democracy)

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