Berlusconi vota la fiducia al governo Letta

Corriere della Sera: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”, “Vince la linea di Alfano, il Cavaliere alla fine è costretto a votare la fiducia a Letta”.

A centro pagina: “L’ipotesi dei gruppi autonomi e la contesa per guidare il Pdl”.

 

La Repubblica: “La sconfitta di Berlusconi”, “Dietrofront all’ultimo minuto sulla fiducia dopo lo strappo di Alfano. Letta: un giorno storico”.

A centro pagina: “Napolitano: intollerabili altri giochi al massacro”.

 

La Stampa: Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”, “Dietrofront in extremis di Berlusconi. MA i dissidenti puntano a gruppi autonomi. Il premier: ‘Basta ricatti’. Napolitano: intollerabile riaprire il gioco al massacro”.

 

Il Sole 24 Ore: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”, “Il premier: ora avanti più coesi. Il Pdl spaccato, il Cavaliere vota in extremis per il governo ma non è decisivo”.

In taglio basso: “Draghi all’Italia: stabilità e riforme”.

 

Il Giornale: “Caccia ai berlusconiani”, “Per salvare il Pdl, Berlusconi fa votare a tutti la fiducia a Letta. Ma Pd e Quirinale non ci stanno: vogliamo solo Alfano & C.”, “Scissionisti già divisi sulla creazione di un nuovo partito”.

 

Libero: “Piroetta di Silvio”.

 

Il Foglio: “Dalla resistenza alla commedia”.

 

L’Unità: “Berlusconi perde la faccia”. A centro pagina: “Letta: nuova maggioranza, basta ricatti”.

 

Il Fatto: “La buffonata”, “Berlusconi, giravolta disperata: ‘Sì al governo’. Letta nipote se lo tiene come alleato: ‘Grande!’”.

 

Governo

 

Il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, scrive che probabilmente i lettori meno attenti non abbiano capito l’inattesa “piroetta” del Cavaliere: “perché, dopo aver fatto annunciare da un veemente Sandro Bondi che il gruppo del Pdl avrebbe votato la sfiducia al governo Letta”, ha cambiato idea “all’improvviso, decidendo di far votare la fiducia al governo di cui appena cinque giorni prima aveva decretato la fine?”. La spiegazione sarebbe in un foglio che, con finta noncuranza, il ministro Quagliariello averebbe mostrato alle telecamere: vi si scorgeva una lista di nomi dei dissidenti Pdl. Ventidue, forse ventitré. E così, con abilità, Berlusconi ha “ritirato la zampa un secondo prima che la tagliola scattasse”.

Il Giornale spiega che un ruolo decisivo in questa vicenda ha avuto il Presidente del gruppo al Senato, Schifani, che non condivideva l’idea di votare la sfiducia al governo Letta e avrebbe minacciato di lasciare subito dopo il no: “E molti altri parlamentari lo avrebbero seguito”.

 

Su Il Sole 24 Ore Stefano Folli, nel suo “Punto” si sofferma sulla natura della maggioranza che sostiene il governo. “Non ha torto il Presidente del Consiglio quando si compiace di poter disporre ora di una maggioranza politica fondata su un nucleo più coeso di quanto non sia la maggioranza numerica. E’ un modo per ricordare che i voti di Berlusconi al Senato dopo la sorprendente dichiarazione di fiducia al governo sono aggiuntivi e non determinanti. In effetti questa è la novità più significativa di ieri, al punto che Letta si considera almeno in parte svincolato dal condizionamento del vecchio Pdl. Vedremo se questo comporterà un salto di qualità nell’azione di governo, come sarebbe auspicabile”. Folli aggiunge che la scelta di Berlusconi di votare la fiducia allungherà i tempi di eventuale costituzione di un gruppo parlamentare autonomo dal Pdl, attorno al ministro Alfano.

Su La Repubblica: “Letta punta sul patto con Alfano. ‘Berlusconi è fuori, senza ministri, così andiamo avanti fino al 2015”. E vuole spingere Silvio verso l’appoggio esterno”. Secondo il quotidiano è sul patto politico con il segretario del Pdl che si regge la nuova maggioranza di larghe intese. Quando al Senato la giravolta di Berlusconi è ormai compiuta, scrive il quotidiano, Letta e Franceschini tornano a Palazzo Chigi per fare il punto sulla novità, perché la questione politica sul tavolo è enorme. Si tratta di immaginare una controffensiva per impedire che il colpo di scena del Cavaliere faccia saltare i nervi al Pd. Il rischio è infatti che il rinculo sia così forte da far saltare il governo. E’ in quel momento che il premier decide di fissare una netta distinzione tra maggioranza “numerica” e maggioranza “politica”, con la prima che include Berlusconi, non più necessario però a sostenere il governo. “’Berlusconi non ha più un ministro, rispondono tutti ad Alfano’”.

Con 57 senatori su 91, scrive ancora il quotidiano, Alfano è riuscito a mettere il Cavaliere in minoranza nel suo stesso partito. Il problema per il premier è rendere digeribile per il Pd la novità della presenza di Berlusconi. Per questo, al summit di emergenza a Palazzo Chigi, si aggiungono i ministri Quagliariello e Lupi, e la richiesta di Letta è precisa: “Dovete assolutamente formare dei gruppi autonomi, altrimenti sembrerà tutta una messa in scena e il Pd esploderà”.

Sul Corriere: “Ora Renzi si concentra sulla segreteria, ‘ma dico no a operazioni neocentriste’. Il sindaco vuole diventare l’azionista di riferimento di questo governo”. Ad alcxuni compagni di partito il sindaco di Firenze avrebbe detto: “io da sgretario sosterrò lealmente il governo: l’ho già detto a Letta. Lo sosterrò ogni volta che farà delle cose utili al Paese, non perché deve andare avanti per dare il tempo ad Alfano, Lupi, Cicchitto di organizzarsi… Comunque se il governo dovesse durare fino al 2015 perché sta facendo bene, per me la situzione non muta. Vuol dire che avrò piì tempo per cambiare il partito e renderlo più forte. Con Enrico ho un rapporto franco. Se lui fa meglio è meglio per il Pd e il Paese, ma è normale che io, come segretario, avanzi le nostre proposte al governo”.

 

Scrive il Corriere: “Il Pdl scosso. Congelata la spaccatura. Sul tavolo l’ipotesi della nascita di gruppi autonomi in Parlamento. E Schifani frenò il Cavaliere: non dirò parole che non condivido”. Un’altra pagina è dedicata alla “partita chiave di Alfano”, che ieri avrebbe detto a Berlusconi: “Eccomi presidente, sono il traditore. Mi consegno”.

 

Su Libero: “Alfano al bivio: dividere il Pdl o scalarlo tutto”. E’ il titolo di un commento di Paolo Emilio Russo

Il Foglio scrive che al Cavaliere, “Alfano propone un accordo, un patto, vorrebbe il Pdl, il nome, il marchio, il partito e i gruppi. Dunque da una parte Forza Italia di Denis Verdini e Daniela Santanché, dall’altro il partito di Alfano, Lupi e Quagliariello. Tutti, formalmente, sottoposti ancora al carisma del Cavaliere. ‘Tu sei il padre nobile, resti il nostro presidente, sempre. Così avrai due partiti’. Uno di lotta e uno di governo, suggerisce Alfano a Berlusconi”.

 

Su Il Giornale, il direttore Alessandro Sallusti: “Nelle prossime ore sapremo se il Pdl rimarrà ferito, acciaccato ma unito, o se il frutto del tradimento sarà un nuovo partito”, come invocano Cicchitto e Formigoni. Il fatto che il Pd invochi la seconda soluzione, e che Napolitano addirittura la pretenda è una ulteriore prova che lo scopo del complotto non era salvare il governo ma fare fuori Berlusconi e i berlusconiani. Sinistra e colle, con la stupida cecità degli scissionisti, stanno insomma puntando a una pulizia etnica per avere mani libere”.

E “nascondono l’obiettivo con la foglia di fico del partititino di Angelino, che loro hanno deciso essere l’unico degno e autorizzato a rappresentare chi in questo Paese non è di sinistra”.

Alle pagine interne, un “retroscena” è così titolato: “Il pressing di Napolitano per un governo senza Cav”, “il colle aveva caldeggiato la spaccatura Pdl, la conferma arriva con la nota diffusa in serata: ‘non si può tollerare il gioco al massacro sull’esecutivo’”.

 

Alle pagine R2 Diario de La Repubblica i lettori troveranno ampia attenzione per il tema dei “Moderati”. Perché “la spaccatura nel partito berlusconiano ripropone una questione presente da decenni nel Paese: “La cultura demagogica e populista è egemone nello schieramento conservatore”. Ne parlano Giancarlo Bosetti, Piero Ignazi e Marco Revelli. Bosetti scrive che il concetto di “moderatismo” in politica non ha avuto storicamente buona stampa: la spiegazione sta nella storia italiana e viene dal mondo cattolico, che l’ha usata negativamente per definire la sua ala più disponibile a trattare prima con lo stato risorgimentale e poi con il fascismo. “Il moderatismo era in questo caso il contrario della ‘intransigenza’ di Luigi Sturzo, il fondatore del Partito Popolare, che riteneva la sua creatura incompatibile con il regime di Mussolini. Ma se – scrive Bosetti – ci svincoliamo da questa “gabbia storico-linguistica” e ci rivolgiamo alla “moderazione” come virtù ispirata dalla prudenza e dal senso della misura, allora lo scenario concettuale cambia”. E non parliamo di “cedimenti” ma di una caratteristica fondamentale dei sistemi democratici, che hanno la capacità di contenere i conflitti dentro un perimetro pacifico e di rispetto pacifico per le parti in lotta per il governo. Per Bosetti il deficit di moderazione è diventato strutturale con l’entrata in scena della anomala coalizione inventata nel 1994 da Berlusconi con Forza Italia, la Lega, e poi con Casini e con Fini. Gli ultimi due, però, hanno dato presto segni (come i “dissidenti” degli ultimi giorni) di quella evoluzione moderata alla quale la Lega risultava geneticamente refrattaria e alla quale il Movimento di Berlusconi non si è mai adattato.

Piero Ignazi si occupa delle formazioni liberali del vecchio continente: “In Europa sono diversi”. Perché tutti i gruppi, pure con le loro differenze nazionali, hanno dei tratti essenziali in comune, come l’identificazione con le istituzioni, il rispetto per lo stato di diritto e l’europeismo. Marco Revelli, restando alla questione “moderati”, analizza virtù e difetti di una tradizione politica, da Cavour ai peones: una costante dei decenni passati è la disponibilità di ampi settori di massa, la cosiddetta zona grigia, a farsi strumento di personalità forti per scelte estreme.

 

Il Fatto intervista Daniela Santanché: “Io sono sotto choc, ma Silvio farà impazzire il Pd”. E in una intervista a Repubblica: “Applaudono Angelino come facevano con Fini, ora farà la stessa fine”. Sullo stesso quotidiano si racconta “l’assalto delle colombe Pdl”, ‘pieni poteri ad Alfano e poi espulsione dei falchi’”.

Sul Corriere un “ritratto” è dedicato a Denis Verdini: “Il grande organizzatore ‘tradito’. Le lacrime asciutte del duro Verdini: in pugno uno straccio di numeri impazziti”.

 

Su Il Foglio il direttore Giuliano Ferrara firma l’editoriale “Dalla resistenza alla commedia”. Dove si legge: “Il sospirato e pluriannunciato 25 luglio c’è stato e non c’è stato, e si è frammisto all’8 settembre della destra italiana: tutti a casa (Letta)”. “C’è stato, il 25 luglio, perché un gruppazzo di ex democristiani, più qualche saggio un po’ neocon e un po’ neoteo, ha deciso che la vita continua, la lobby continua, si va a messa con Enrico e si fa una destra moderna per far scordare agli italiani che, complice una lunga fedeltà ad personam, la signora El Marough è per tutti la nipote di Mubarak (Andrea’s version di ieri). Ma la bottega ora si mette in proprio e manda in pensione il padrone. Però non c’è stato questo 25 luglio, perché Mussolini ha votato a sorpresa l’ordine del giorno Grandi”. “E’ Berlusconi, bellezza, e non puoi farci niente!”.

 

Su Il Sole 24 Ore Roberto D’Alimonte ricorda quante volte in passato è sembrato che il ciclo berlusconiano fosse arrivato alla fine, e invece in un modo o in altro Berlusconi è sopravvissuto. Tuttavia quanto sta avvenendo in queste ore non può essere sotttovaluto, ulteriore dimostrazione di un fenomeno iniziato nel 2008 e da allora proseguito inesorabilmente: lo sgretolamento della desta italiana. D’altra parte non era mai successo prima che il partito di Berlusconi perdesse pezzi “del suo nucleo originale” cioè di Forza Italia. L’unità della destra italiana è ormai cosa del passato, poiché è divisa in molti tronconi: prima l’uscita di Casini, poi quella di Fini, ora la rivolta nello stesso Pdl hanno lasciato Berlusconi praticamente solo. Un grafico illustra come il Pdl abbia toccato il suo minimo storico in termini di voti proprio alle ultime elezioni. E tuttavia chi pensa che il voto di fiducia di ieri segni la fine politica del Cav rischia di illudersi: solo una decisiva sconfitta elettorale porrà fine al ciclo iniziato nel 1994, ma per far questo occorre che la sinistra trovi i voti che le mancano.

 

Internazionale

 

Su Il Sole 24 Ore una ampia corrispondenza da New York di Mario Platero: “Budget Usa, vertice alla Casa Bianca”. Sono stati convocati da Obama i leader del Congresso per sbloccare lo stallo al secondo giorno di chiusura degli uffici federali. E il Tesoro ha annunciato di aver già iniziato a prelevare denaro dalle riserve speciali, confermando che il 17 ottobre i fondi si ridurranno a circa 30 miliardi di dollari, un ammontare insufficiente a coprire il servizio quotidiano sul debito e il rimborso in quota capitale. Un allarme è venuto anche dai membri del Financial Services Form, che riunisce gli Ad dei 19 maggiori istituti finanziari e assicurativi (da Goldman Sachs a JP Morgan, da Bank of America a Citigroup a Morgan Stanley): “Le conseguenze della paralisi federale e, peggio ancora, di un eventuale default del Paese sarebbero disastrosi per gli Stati Uniti. Non ci sembra che le conseguenze siano state adeguatamente comprese”, ha detto il rappresentante di Goldman Sachs.

 

Su La Repubblica una intera pagina è dedicata al dialogo con l’Iran. Vanna Vannuccini: “Iran, su twitter l’ultima svolta di Rohani”. Si parla di uno scambio di messaggi con il fondatore del sito. Due sole battute. Jack Dorsey, fondatore di Twitter, scrive al presidente Rohani chiedendogli se i cittadini iraniani possono leggere i messaggi che lo stesso presidente scrive con Twitter. E Rohani risponde con un tweet confermando che, come aveva preannunciato nell’intervista a Christiane Amanpour, i suoi sforzi vanno “per assicurare al mio popolo un accesso confortevole e globale a tutti i media, come è suo #diritto”. Sulla stessa pagina una intervista allo scrittore e saggista israeliano David Grossman: “Un errore la linea dura di Netanyhau, a Teheran adesso soffia un vento nuovo”. Dice Grossamn: “Benyamin Netanyahu da un lato ha fatto bene a ricordare dal podio delle Nazioni Unite è un Paese che da decenni minaccia di distruggere Israele, e non ha mai nascosto la sua volontà di possdere armi atomiche, ma da un altro lato ha sbagliato: è stato troppo aggressivo e bellicoso, ha bloccato ogni possibilità di dialogo con gli iraniani. E, in un certo senso, ha espresso anche sfiducia nella capacità del Presidente Obama di gestire questa nuova prospettiva di relazioni con Teheran”. Dice ancora Grossman: “Netanyahu ha la tendenza a presentare Israele come la vittima perenne, la “nazione” che si trova sempre sola e gioca per la sua sopravvivenza, anche quando mezzo mondo ci appoggia e abbiamo al nostro fianco una superpotenza come quella statunitense. E’ mancato poi un “approccio molto più serio sul problema del rapporto con i palestinesi. E’ facile strillare per quel che succede sul fronte con l’Iran, ma pericolo esistenziali non meno gravi esistono – per Israele, i palestinesi, tutta la regione – per la mancanza di una seria trattativa di pace”.

 

E poi

 

In prima pagina su L’Unità un richiamo al rapporto Oxfam sulle “guerre dello zucchero”. Conflitti ed espropri senza indennizzo ai danni di centinaia di famiglie in Brasile e in Cambogia.

Ne parla Umberto De Giovannangeli raccontando di come i contadini siano stati espropriati dalle terre senza indennizzo, e di quali siano le responsabilità delle grandi multinazionali dell’agroindustria. Oxfam chiede e Coca Cola, Pepsi Co e alla Abf, Associated British food (che ha la proprietà del marchio Ovaltine, bevanda soluibile conosciuta in Italia come Ovomaltina) di adottare una politica di tolleranza zero al fenomeno del land-grabbing, l’accaparramento delle terre che strappa ai piccoli agricoltori nei Paesi in via di sviluppo.

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