I passi da gigante di Bergoglio

Questo papa va avanti a passi da gigante. È un’intervista storica quella concessa al direttore della «Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro: sei ore di colloquio, tre incontri nello studio privato di papa Francesco a Santa Marta (qui il pdf della rivista completa con l’intervista). Ventinove pagine pubblicate nell’ultimo numero della rivista dei gesuiti – l’ordine di cui fa parte lo stesso Bergoglio – che per l’occasione è uscita di giovedì anziché di sabato. Ventinove pagine pubblicate lo stesso giorno, in traduzione, su altre 16 riviste della Compagnia di Gesù di altrettante nazioni. E che finiscono sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo. Quello di papa Francesco è uno sguardo a tutto tondo sul ruolo della Chiesa di oggi, sulla società in cui si trova a operare, sulla Compagnia di Gesù, ma anche su stesso, «un peccatore al quale il Signore ha guardato», sulle proprie passioni letterarie, artistiche, cinematografiche. Omosessuali, divorziati risposati, donne pentite dopo un aborto: su una serie di temi sensibili, che hanno ossessionato, si può dire, gli ultimi pontefici, papa Francesco apre uno sguardo diverso: «Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari – afferma – chi tende in maniera esagerata alla ‘sicurezza’ dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere».

Si tratta di affermazioni che precisano ulteriormente le prospettive delineate da Bergoglio in questi primi mesi di pontificato, la cui capacità di muovere, riformare, trasmettere ottimismo risalta particolarmente agli occhi di noi italiani, fermi come Paese, bloccati sul piano delle riforme, inevitabilmente pessimisti dinanzi allo spettacolo di un governo, di una politica attanagliati dall’immobilismo, dalla incapacità di fare, di parlare alla gente, di risolvere, per quel che le compete, i suoi problemi. Camminare, muoversi, andare avanti: è questo di cui abbiamo bisogno, è questo il percorso che papa Francesco indica: «Dio lo si incontra camminando, nel cammino». È relativismo? Si chiede Bergoglio anticipando una obiezione che di certo gli sarà posta. «No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è fondamentale».

“Discernimento” è una delle parole chiave che il papa aveva scandito nell’incontro del 14 giugno scorso parlando al gruppo di «Civiltà Cattolica». Insieme ad altre due: dialogo e frontiera. Su questi temi torna Bergoglio, sollecitato da padre Spadaro, e invita a non addomesticare le frontiere, a uscire da una cultura religiosa fatta nello spazio chiuso di uno studio, di un laboratorio: «Io temo i laboratori – continua – perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci».

Fa quindi qualche esempio: «Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e capire il problema dall’interno e studiarlo. C’è una lettera geniale del padre Arrupe… sulla povertà, nella quale dice chiaramente che non si può parlare di povertà se non la si sperimenta con una inserzione diretta nei luoghi nei quali la si vive. Questa parola ‘inserzione’ è pericolosa perché alcuni religiosi l’hanno presa come una moda, e sono accaduti dei disastri per mancanza di discernimento. Ma è davvero importante».

Spadaro ha raccolto l’intervista nel corso di tre appuntamenti col pontefice: 19, 23 e 29 agosto, ma è difficile non cogliere in questo passaggio un riferimento a quanto si sarebbe realizzato di lì a pochi giorni: l’apertura alla teologia della liberazione e l’incontro con il suo fondatore, il sacerdote, ormai ottantacinquenne, Gustavo Gutiérrez. Non annunciata, la notizia dell’udienza privata accordata da papa Francesco a Gutiérrez è trapelata sulla stampa italiana e internazionale a un giorno o due di distanza. Il papa argentino e il padre peruviano della teologia della liberazione si sono incontrati l’11 settembre a Santa Marta, prova, secondo i più, dell’avvenuta riabilitazione da parte della Santa Sede di quella corrente teologica postconciliare che aveva preso come punto di partenza i poveri, messo in discussione il principio di autorità nella Chiesa, animato sacerdoti, religiosi, comunità di base in un’azione di riscossa sociale contro lo sfruttamento. Forse è eccessivo parlare di pace scoppiata tra Vaticano e teologia della liberazione. Bisognerà aspettare azioni e nomine qualificanti nella Chiesa latinoamericana, visto che per trent’anni i duri interventi di condanna di Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger, quest’ultimo nelle due vesti di prefetto dell’ex Sant’Uffizio prima e di pontefice poi, sono state accompagnate da un’azione capillare di smantellamento delle reti in qualche modo legate alla teologia della liberazione. Uno smantellamento costante, condotto a colpi di trasferimenti di personalità considerate troppo vicine a questa teologia da centri educativi, seminari, facoltà teologiche, istituti di formazione pastorale, con chiusure di centri di studio e divieti di pubblicare imposti ai singoli autori. Ma pare esagerata la chiosa di qualche commentatore interessato che ha voluto rintracciare nella mancanza di una comunicazione ufficiale da parte dell’Ufficio stampa vaticano il segno di una permanente presa di distanza della Santa Sede dalla teologia della liberazione.

È difficile negare la novità rappresentata, almeno sul piano simbolico, da quell’incontro. Tanto più che nei giorni precedenti «L’Osservatore Romano» aveva riservato ampio spazio all’uscita in edizione italiana del volume Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della Chiesa, pubblicato in Germania nel 2004 e scritto a quattro mani da Gutiérrez e dall’arcivescovo, suo amico, Gerhard Ludwig Müller, prefetto, dal 2012, della Congregazione per la dottrina della fede. «Con un Papa latinoamericano – ha affermato il 4 settembre scorso sul giornale della Santa Sede Ugo Sartorio in una puntuale recensione al volume – la teologia della liberazione non poteva rimanere a lungo nel cono d’ombra nel quale è stata relegata da alcuni anni, almeno in Europa». Per padre Sartorio, direttore del colosso devozionale «Il Messaggero di Sant’Antonio», la teologia della liberazione sarebbe stata messa «fuori gioco da un doppiopregiudizio»: quello che non ha ancora elaborato a sufficienza la fase conflittuale della metà degli anni Ottanta e ne avrebbe fatto «una vittima del Magistero romano»; e quello, di stampo tradizionalista, «ingessato nel rifiuto di una teologia ritenuta troppo di sinistra e quindi tendenziosa». Espressioni che fanno tornare alla mente un’osservazione del vescovo brasiliano Hélder Câmara: «Quando do del pane ai poveri tutti mi chiamano santo; quando domando perché non hanno da mangiare, allora mi si chiama comunista».

Ora, se, come afferma Müller, si intende realmente riconoscere alla teologia della liberazione il posto che le spetta nella riflessione teologica del XX e del XXI secolo, bisognerà pure sgombrare il campo da forzature e imprecisioni. Lo sforzo appare, in questa fase, concentrato sulla dimostrazione di una coincidenza tra le intuizioni di fondo della teologia della liberazione e il Magistero ecclesiastico. Il che sarà pur vero, ma sino al 1978, cioè nel periodo precedente il pontificato di Giovanni Paolo II. È innegabile che le prospettive emerse nel Concilio Vaticano II aprirono in America Latina riflessioni e orientamenti che, in modo sempre più esplicito, posero al centro della propria attenzione la condizione dei poveri: chiara premessa di quella «opción por lo pobres» che sarà il risultato della II assemblea generale dell’episcopato latinoamericano di Medellín (agosto-settembre 1968). Utilizzata nei documenti conclusivi di quella conferenza, la categoria di liberazione si delineò come chiave di lettura religiosa e sociopolitica, ed entrò nella pastorale di un ampio movimento ecclesiale che ebbe nelle comunità ecclesiali di base il principale soggetto.

Nel corso degli Settanta e Ottanta «l’inserzione diretta» nei luoghi della povertà – per riprendere l’espressione di Bergoglio – fu pagata spesso col sangue di preti e membri del laicato cattolico non allineati ai regimi autoritari latinoamericani: sparizioni, arresti, torture, uccisioni. Tra queste l’assassinio, il 12 marzo 1977, del sacerdote gesuita Rutilio Grande e di due suoi compagni nella piana di Aguilares, in El Salvador, seguito a distanza di tre anni dall’omicidio di monsignor Oscar Romero, freddato sull’altare nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza. Sui muri di El Salvador, del resto, un famoso slogan recitava: «Haga patria, mate a un cura» («Sii patriota, uccidi un prete»). Di preti assassinati Romero, la cui causa di beatificazione è stata sbloccata da papa Francesco dopo un decennio di stallo, ne aveva visto ben sei nel corso dei 35 mesi alla guida dell’arcidiocesi. Altre vittime seguiranno fino al massacro del 16 novembre 1989, quando dopo anni di minacce e attentati contro la Compagnia di Gesù in El Salvador, un gruppo di militari del battaglione Atlacal, addestrato negli Stati Uniti alla lotta antiguerriglia, fece irruzione nella Università centroamericana uccidendo a sangue freddo sei gesuiti e due donne; tra loro il teologo della liberazione e rettore Ignacio Ellacuría. Non erano episodi isolati, l’impressionante scia di sangue che ha coinvolto in quegli anni molti esponenti della Chiesa latinoamericana si trova puntualmente documentata nelle «Informations catholiques internationales».

Ignacio Ellacuría, ma, soprattutto, quel Gustavo Gutiérrez incontrato in questi giorni da Bergoglio, recensito e pubblicato sulle colonne dell’«Osservatore Romano», furono, nel settembre 1983 (esattamente trenta anni fa) al centro di una durissima requisitoria pronunciata da Ratzinger in una riunione a porte chiuse che si tenne a Castelgandolfo. La loro teologia rappresentava a suo giudizio un pericolo mortale per la Chiesa e la vita cristiana: essa avrebbe cambiato tutte le forme della vita ecclesiale, la catechesi, la liturgia, le opzioni morali. Ai teologi in carne ed ossa Ratzinger riservò espressioni durissime: in modo subdolo, essi avrebbero usato il linguaggio ascetico e dogmatico della Chiesa alterandone il significato. In Perù la richiesta, venuta dall’ex Sant’Uffizio, di una condanna della teologia di Gutiérrez portò a una frattura all’interno dell’episcopato, che su questa ipotesi non riuscì a trovare un accordo. Per richiesta dello stesso Ratzinger, nel settembre del 1984, i vescovi peruviani furono invitato a Roma per approvare un documento di condanna della teologia di Gutiérrez, ma rifiutarono di approvare il testo sottopostogli dall’ex Sant’Uffizio. «Il lato più doloroso – disse allora Gutiérrez – è che si tenta di usare i vescovi per ‘normalizzare’ la loro Chiesa». Fu un gesto inusitato, la cui portata risalta oggi ulteriormente leggendo la risposta di Bergoglio a Spadaro su Curia romana e censura: «Credo – afferma il papa – che i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma».

A suscitare l’ostilità della Santa Sede e di settori non trascurabili dell’episcopato sudamericano, non era solo la ricaduta sul piano politico-sociale della riflessione dei teologi della liberazione. Si profilò una duplice ragione: la prima, di natura politica, muoveva dall’accusa di favorire la penetrazione del comunismo per il frequente ricorso all’analisi marxista nel descrivere le ragioni dello scontro sociale. La seconda ragione investiva il piano religioso: orizzontalismo, riduzione del messaggio cristiano a strumento di riscossa sociale, sottovalutazione della trascendenza. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II, che osservava i movimenti di liberazione dominati dalle sinistre con sguardo polacco, la Santa Sede intervenne con due istruzioni: la Libertatis nuntius (1984), che accusava la teologia della liberazione di identificare il «povero della Scrittura e il proletario di Marx» e di mettere in discussione la struttura gerarchica della Chiesa cattolica, e la Libertatis conscientia (1986) in cui si ribadiva il carattere trascendente della liberazione cristiana e la sua irriducibilità alle sole dimensioni etico-sociali.

Più avanti è toccato a Jon Sobrino, il gesuita scampato al massacro dell’Uca nel 1989 perché fuori da El Salvador, fatto oggetto di una lunga notificazione della Congregazione per la dottrina della fede, risalente al 26 novembre 2006, ma resa pubblica, non a caso, quattro mesi dopo, a ridosso della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, che ebbe luogo ad Aparecida alla presenza di Benedetto XVI. Tutto ciò, nonostante papa Wojtyla avesse già avuto modo di svelare il suo punto di vista, rispondendo, il 6 febbraio 1996, a una domanda sulla teologia della liberazione postagli da Luigi Accattoli nel viaggio aereo verso l’America centrale: «Oggi, dopo la caduta del comunismo, è caduta anche la teologia della liberazione». Ancora nel dicembre 2009 papa Ratzinger, scrivendo a un gruppo di vescovi brasiliani, sottolineò i pericoli della teologia della liberazione, le cui conseguenze, «fatte di ribellione, divisione, dissenso, offesa, anarchia» si sarebbero fatte ancora sentire, creando «grande sofferenza», nelle comunità diocesane.

«Sembrano ossessionati dalla ricerca di qualche limite o errore e dal fatto di trovarli in ciò che può essere una concettualizzazione diversa di una verità di fede». L’affermazione, che senza forzature potremmo ritrovare in molti passaggi e nello spirito complessivo dell’intervista di Spadaro, non è di papa Francesco. È nella lettera indirizzata il 13 dicembre 2006 al superiore generale della Compagnia di Gesù, Peter Hans Kolvenbach, da padre Sobrino all’indomani della messa in guardia contro la sua opera formulata dalla congregazione per la dottrina della fede. Vi spiegava perché non intendeva rispondere ai rilievi che gli erano stati mossi. «Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio». Questa volta a parlare è proprio lui, papa Francesco.

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