Tra oggi 13 maggio e il 16, il presidente Donald J. Trump ripeterà il gesto inaugurale della sua amministrazione precedente compiendo il primo importante viaggio diplomatico del suo secondo mandato in Arabia Saudita (escludendo la visita non prevista a Roma per i funerali di papa Francesco); questa volta la tappa comprenderà anche gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar. Questo viaggio avviene in un momento molto significativo per le relazioni tra gli Usa e i Paesi arabi del Golfo, tutte le parti avranno agende e obiettivi specifici in gioco. Nel complesso, la visita di Trump rafforza la centralità di queste partnership per tutti gli attori e segnala che continua a considerare i Paesi del Golfo non solo come partner importanti per gli Stati Uniti, ma anche per i suoi obiettivi personali e politici.
L’agenda cruciale di Trump in Arabia Saudita
Come nel maggio del 2017, la tappa più importante sarà ancora una volta Riad, dove Washington avrà tre obiettivi principali: incoraggiare gli investimenti sauditi negli Stati Uniti, assicurarsi la vendita di armi e altri accordi economici specifici con il regno (tra cui una proposta di vendita di missili da 3,5 miliardi di dollari) e incoraggiare l’Arabia Saudita a usare la propria influenza, insieme alla Russia, all’interno dell’alleanza Opec+ per mantenere un livello accettabile dei prezzi del petrolio, nonostante le difficoltà di bilancio dovute a prezzi del combustibile più bassi rispetto alle previsioni.
Trump sarà accompagnato sarà accompagnato da diversi amministratori delegati di grandi aziende, inclusi Larry Fink di BlackRock, Jane Fraser di Citigroup, Jenny Johnson di Franklin Templeton e Ruth Porat di Alphabet. Tutti sono attesi come relatori al Forum per gli investimenti Usa-Arabia Saudita previsto per oggi, giorno dell’arrivo di Trump a Riad per l’inizio degli incontri con il principe ereditario e primo ministro Mohammed bin Salman.
Gli Stati Uniti cercheranno di ottenere quanti più dettagli possibili sulla promessa di investimenti sauditi negli Stati Uniti per 1.300 miliardi di dollari negli anni a venire. Il viaggio del 2017 si era concentrato soprattutto sulla vendita – nuova o preesistente – di armamenti all’Arabia Saudita, che Trump aveva enfaticamente quantificato in 350 miliardi di dollari in dieci anni. Anche stavolta il presidente punta con ogni probabilità a chiudere i colloqui annunciando cifre colossali sia per quanto riguarda forniture militari saudite di beni e servizi dagli Stati Uniti e nuovi investimenti sauditi sul territorio americano.
L’amministrazione Trump sembra intenzionata a mantenere il dollaro come valuta di riserva globale, pur svalutandolo rispetto alle altre monete per rafforzare la competitività delle esportazioni statunitensi. In pratica, questo significa che i paesi alleati dovranno continuare a investire in dollari – soprattutto tramite i titoli del tesoro americani e strumenti analoghi – ma a condizioni significativamente meno vantaggiose rispetto al passato. Washington sembra sperare che l’Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo, insieme al Giappone e ad altri partner tradizionali degli Stati Uniti in Asia, accettino di continuare a sostenere il dollaro, pur rinunciando a prospettive di guadagno finanziario immediato. Sul piano personale, è difficile immaginare che Trump non dedichi almeno una parte del viaggio ai progetti immobiliari che lo riguardano: dalla Trump Tower prevista a Riad a quella in fase di pianificazione a Gedda, fino a una serie di grandi investimenti previsti tra la sua azienda di famiglia e Dar Global, per la realizzazione di numerosi complessi immobiliari di lusso in tutta la regione.
Le priorità di Riad
L’Arabia Saudita naturalmente ha le sue priorità. Riad cercherà senza dubbio di rafforzare i legami militari con Washington e di sondare la possibilità di rilanciare le bozze di un Accordo di Allineamento Strategico e di un Trattato di Difesa Reciproca, già sviluppate a uno stadio avanzato durante l’amministrazione dell’ex presidente Joseph R. Biden Jr. Tuttavia, sia Washington che Riad sanno bene che, perché questi accordi abbiano valore, devono essere approvati dal Senato e questo è improbabile a meno che l’Arabia Saudita non riconosca Israele. Ma i sauditi hanno chiarito cche ciò potrà avvenire solo se Israele porrà fine alla guerra a Gaza e riaprirà la prospettiva della creazione di uno Stato palestinese nei territori occupati: due condizioni respinte in modo categorico dal governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Considerando questo rifiuto assoluto, da parte israeliana, persino dell’ipotesi teorica di uno Stato palestinese, appare altamente improbabile che Trump riesca a convincere i sauditi ad aderire agli Accordi di Abramo o a normalizzare in altro modo le relazioni con Israele. Tuttavia, ciò non intacca la centralità del rapporto tra Washington e Riad per entrambe le parti.
Durante i colloqui con Biden, i sauditi hanno trovato più complesso, rispetto agli accordi strategici e militari (poi arenatisi per il veto israeliano su Gaza e sullo Stato palestinese), il terzo grande tema negoziale: il coinvolgimento diretto o la supervisione degli Stati Uniti in un programma nucleare civile saudita basato sull’estrazione interna dell’uranio. Ma visto che l’Arabia Saudita è ancora determinata a sfruttare i propri giacimenti, finora trascurati, per produrre energia destinata al consumo interno e preservare le riserve petrolifere per la vendita internazionale e per ottenere valuta estera, la definizione di un accordo in questo ambito resta una priorità di Riad. E si tratta di una questione bilaterale che può essere affrontata indipendentemente dal conflitto israelo-palestinese. Il segretario di Stato Marco Rubio e altri funzionari hanno insistito sul fatto che l’Arabia Saudita debba accettare l’accordo una versione dello standard “gold” dell’accordo 123. Tuttavia, l’applicazione tradizionale di questo modello non si adatta all’agenda economica saudita, perché obbligherebbe il paese a esportare e reimportare il proprio uranio più volte, compromettendo così la redditività dell’intero processo
L’Arabia Saudita continuerà quindi a insistere per ottenere un’intesa differente o una versione modificata dell’accordo 123 che tenga conto della volontà saudita di estrarre direttamente l’uranio, invece di acquistare barre già raffinate sul mercato internazionale – il modello finora imposto dagli Stati Uniti prima di autorizzare l’esportazione di tecnologie nucleari.
L’Arabia Saudita cercherà inoltre di incoraggiare Washington a trovare un’intesa sul nucleare con l’Iran. Durante i negoziati tra Stati Uniti e Iran sotto la presidenza di Barack Obama, l’Arabia Saudita e altri Paesi arabi del Golfo, insieme a Israele, si mostrarono molto scettici. In particolare, i Paesi del Golfo temevano chené l’arsenale missilistico iraniano né la rete di milizie sciite – definita l’“asse della resistenza” – venissero presi in considerazione. Dieci anni dopo, però, i calcoli e le priorità di Riad sono molto cambiati. La rete di milizie iraniane ha subito duri colpi, soprattutto dopo la caduta del dittatore siriano Bashar al-Assad, ed è ancora oggetto di attacchi israeliani e, a volte, statunitensi, in particolare contro i ribelli Houthi in Yemen. Inoltre, l’Arabia Saudita oggi è molto più concentrata sul proprio programma di trasformazione economica post-petrolifera, destinando a questo scopo la gran parte delle risorse disponibili. Questa priorità assoluta ha spinto Riad a puntare sulla calma regionale, sulla sicurezza e sulla stabilità, per evitare di restare invischiata in conflitti amari e dispendiosi. L’Arabia Saudita ha imparato una dura lezione durante la prima amministrazione Trump, quando si è unita alla campagna di “massima pressione” lanciata da Washington per contenere Teheran. La contro-campagna di “massima resistenza” dell’Iran prese di mira soprattutto gli interessi arabi del Golfo, culminando nell’attacco devastante del settembre 2019 agli impianti di Saudi Aramco, rimasto senza risposta da parte degli Stati Uniti. Da quel momento, l’Arabia Saudita si è sentita – dal proprio punto di vista – esposta come bersaglio senza ricevere protezione. È per questo che oggi è ancora più restia a lasciarsi trascinare in un eventuale conflitto con l’Iran e chiederà con ogni probabilità a Washington di trovare un accordo con Teheran.
Trump e gli Emirati Arabi Uniti
Gli Emirati Arabi Uniti hanno vissuto un’esperienza simile a quella dell’Arabia Saudita, dopo quella che è sembrata una risposta apatica da parte dell’amministrazione Biden all’attacco condotto dai ribelli Houthi contro impianti petroliferi emiratini nei pressi di Abu Dhabi nel gennaio 2022, in cui morirono tre lavoratori civili. Anche Abu Dhabi ha cominciato a riconsiderare la convenienza di esporsi a rischi senza ricevere un’adeguata protezione da parte di Washington, nell’ambito delle campagne di contenimento e pressione nei confronti dell’Iran.
La capitale emiratina è oggi fortemente concentrata sullo sviluppo interno, in particolare nei settori della tecnologia e dell’intelligenza artificiale. Durante la visita di Trump ad Abu Dhabi, è probabile che vengano affrontati temi legati al coordinamento e agli investimenti bilaterali nel campo dell’IA. Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti sono anche attori di primo piano in una nuova alleanza economica con l’India e altri paesi, concepita di fatto come contrappeso all’iniziativa cinese Belt and Road e ad altri progetti internazionali di investimento e sviluppo guidati da Pechino. Questo progetto – il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa – sarà con ogni probabilità una voce importante nell’agenda condivisa.
Considerando che anche gli Emirati hanno cercato di eguagliare l’impegno saudita di oltre 1.000 miliardi di dollari di investimenti negli Stati Uniti, Trump punterà nuovamente a ottenere il maggior numero possibile di “grandi cifre” e intese concrete, anche generiche, da presentare come successi economici e diplomatici. Tra questi vi sarà quasi certamente un importante accordo nel settore dei semiconduttori, che garantirà agli Emirati l’accesso ad alcune delle tecnologie informatiche più avanzate degli Stati Uniti, e – sul piano personale – un progetto di Trump Tower a Dubai. Inoltre, la società emiratina Cryptocurrency Ventures sta portando avanti un colossale accordo da 2 miliardi di dollari con Binance, il più grande exchange di criptovalute al mondo, incentrato su USD1, una stablecoin recentemente lanciata da un’azienda sostenuta dai figli di Trump.
Tuttavia, poiché gli Emirati risultano più esposti e vulnerabili rispetto all’Arabia Saudita a eventuali ritorsioni iraniane in risposta a colpi militari statunitensi o israeliani contro impianti nucleari iraniani – dato che, come altri piccoli Stati del Golfo, non dispongono di una profondità strategica e hanno capacità di difesa missilistica molto limitate – anche Abu Dhabi farà pressione su Washington affinché faccia tutto il possibile per raggiungere un compromesso nei colloqui nucleari con Teheran.
Trump e il Qatar
Il Qatar è ancora impegnato nella gestione di un intricato e rischioso dilemma diplomatico con Washington, a causa del suo sostegno storico e continuativo ad Hamas, soprattutto alla luce dell’attacco del 7 ottobre 2023 contro il sud di Israele. Doha è riuscita abilmente a evitare una crisi con gli Stati Uniti, rispondendo con astuzia alle indicazioni americane su come comportarsi riguardo all’ospitalità concessa ai leader del Politburo di Hamas, la maggior parte dei quali è stata trasferita in Turchia nel 2024. L’amministrazione Trump chiederà certamente a Doha di usare la propria influenza sulgruppo estremista palestinese per ottenere la liberazione degli ostaggi israeliani.
Il rapporto tra Qatar e Stati Uniti è rafforzato in maniera determinante dalla cooperazione militare, in particolare grazie alla base aerea e militare di Al Udeid, messa a disposizione del Pentagono praticamente a costo zero e con uno status giuridico quasi extraterritoriale. Anche in questo caso, Trump cercherà di ottenere consistenti investimenti da parte qatariota, sia in dollari sia nell’economia statunitense in generale. Qatar Airways è pronta a realizzare il più grande investimento singolo negli Stati Uniti da parte di un paese del Golfo, con l’acquisto programmato di 100 aerei civili wide-body prodotti dalla Boeing. Come nel caso di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, Washington considera il Qatar un alleato amichevole che dovrebbe essere disposto a continuare a investire in dollari, anche a condizioni meno vantaggiose rispetto al passato, contribuendo così a sostenere lo status del dollaro come valuta di riserva globale pur in un contesto di svalutazione controllata.
Gli Stati Uniti cercheranno inoltre di chiarire ed eventualmente superare le riserve qatariote sull’uso della base di Al Udeid per potenziali attacchi contro siti nucleari iraniani, dato che le sue piste sono di gran lunga le più vicine all’Iran in grado di ospitare i bombardieri B-2, capaci di trasportare bombe anti-bunker e altri ordigni convenzionali di grande potenza, necessari per un simile attacco. Il Qatar, da parte sua, potrebbe ribadire la propria contrarietà a tale utilizzo, e i due Paesi potrebbero dover trovare un’intesa in merito, considerando che l’alternativa a un accordo con Teheran potrebbe essere proprio un’azione militare preventiva per impedire l’eventuale acquisizione di armi nucleari da parte dell’Iran.
Sul piano personale, Trump ha sicuramente anche interessi diretti in Qatar. Un Boeing 747 appartenuto in passato a un ex primo ministro qatariota è attualmente in fase di ristrutturazione, da utilizzare temporaneamente in attesa della consegna – ritardata – dei nuovi aerei destinati a sostituire l’Air Force One. Inoltre, l’organizzazione Trump sta cercando di realizzare un Trump International Golf Club a Doha, in collaborazione con Dar Global e con la società immobiliare statale Qatari Diar: un altro investimento significativo per l’azienda di famiglia dell’ex presidente.
Uno scenario vantaggioso per tutti
Nel complesso, questo viaggio presenta tutte le caratteristiche di uno scenario vantaggioso per tutte le parti. I Paesi del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita, vengono promossi diplomaticamente dall’amministrazione Trump come alleati strategici e attori di primo piano su scala regionale e globale. A loro volta, i tre Paesi del Golfo sono disposti ad appoggiare alcune parti dell’agenda di Trump, tanto sul piano personale quanto su quello nazionale. Probabilmente solleveranno il tema degli investimenti e della ricostruzione in Siria – chiedendo in misura variabile l’alleggerimento delle sanzioni statunitensi – cercando però di restare entro i limiti imposti dalle normative statunitensi per evitare sanzioni o reazioni del Dipartimento del Tesoro.
Naturalmente, tutti e tre i Paesi sono ansiosi di evitare i nuovi dazi all’importazione annunciati dagli Stati Uniti, soprattutto quelli reciproci finora sospesi. Da parte sua, l’amministrazione Trump chiederà loro di usare la propria influenza in Siria, Libano, Iraq e altrove per contribuire alla stabilizzazione della regione e ridurre l’esposizione americana a focolai di instabilità o nuove minacce terroristiche. Tutti gli attori in gioco hanno interesse a cooperare per eliminare le minacce poste alla sicurezza regionale e marittima dai ribelli Houthi in Yemen — nonostante la recente tregua annunciata tra Stati Uniti e Houthi — e per contenere, se non porre fine, alla guerra a Gaza, anche se quest’ultima prospettiva appare sempre più remota.
Se dopo il 16 maggio Trump potrà tornare con nuovi investimenti e contratti da esibire come successi — potenziali conflitti di interesse senza precedenti a parte — e i tre Paesi del Golfo avranno consolidato il proprio rapporto strategico con Washington, la visita sarà considerata un passo avanti significativo nelle relazioni tra Stati Uniti e mondo arabo del Golfo.
Questo articolo è stato in origine pubblicato dallo Arab Gulf States Institute a Washington l’8 maggio 2025.
Immagine di copertina di Fayez Nureldine / AFP.