Jahanbegloo: “Iraniani stanchi di morire per colpa degli ayatollah”

Ramin Jahanbegloo è un intellettuale iraniano, che dalla sua posizione accademica a Teheran organizzava dialoghi internazionali con i maggiori intellettuali del mondo, da Habermas a Rorty, da Ashis Nandi al Dalai Lama, nella stagione ancora promettente del presidente Khatami. È vissuto in Iran fino al 2006, quando, presidente Ahmadinejad, è stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Evin per quattro infiniti mesi di torture e senza processo. Solo molto dopo l’arresto fu accusato, senza alcuna base, di aver cospirato per attuare una “rivoluzione di velluto” per rovesciare il regime. Grazie anche a una grande campagna internazionale di mobilitazione degli intellettuali e con l’impegno di vari governi europei, compreso quello italiano (Prodi presidente del Consiglio), fu liberato prima che fosse troppo tardi. Autore di saggi sul pluralismo culturale e la non violenza (in italiano Leggere Gandhi a Teheran, 2008), per capire chi è basterebbe ricordare che Jahanbegloo scriveva sulla stampa europea reportage ed editoriali da Auschwitz mentre a Teheran era in atto una campagna per la negazione dell’Olocausto. Si poteva immaginare in lui, scrisse Richard Rorty, una figura prominente di un altro Iran, a venire.

 

Un tempo lei viveva a Teheran, ora vive tra il Canada e l’India, vice rettore alla Jindal University a Delhi, è un intellettuale cosmopolita, nato in Iran, ma si considera ancora un cittadino impegnato nella vita pubblica e nella società civile iraniana?
Senza dubbio, sì.

 

Ma esiste davvero una cosa che possiamo chiamare sfera pubblica in Iran, visto che il regime impedisce ogni discussione libera?
Non nel senso liberale o europeo del termine. Ma, nonostante tutto, in Iran c’è ancora una società civile: intellettuali, femministe, attivisti per i diritti umani e, soprattutto, una grande massa di giovani – circa il 70 per cento della popolazione ha meno di 35 anni – interessati all’arte, al pensiero critico, all’intellettualismo europeo e globale. Vogliono andare oltre il regime islamico e conoscere il mondo. Non accettano che l’identità iraniana si esaurisca nei valori religiosi imposti dal regime. L’Iran è speciale nel contesto mediorientale proprio per questa sua popolazione numerosa, istruita e desiderosa di cambiamento, nonostante decenni di repressione.

 

Abbiamo visto molte proteste guidate da giovani donne e uomini. Ma come può nascere un’opposizione senza libertà di parola?

Il fattore chiave è il digitale. I giovani hanno creato una “società civile virtuale” che il regime non riesce a controllare. Attraverso i social media, si esprimono, si mettono in contatto, si organizzano. Non solo gli oppositori, ma anche ragazze e ragazzi comuni, femministe, artisti. Un esempio: qualche anno fa, un gruppo di giovani ha girato un video in cui ballava sulle note di Happy di Pharrell Williams. Lo hanno caricato online. Sono stati arrestati, ma volevano dire: “Noi ci sentiamo diversi, viviamo in un altro modo”. È un gesto di libertà, come quando nella Russia sovietica si ascoltavano i Beatles. Alcuni dicono persino che i Beatles abbiano contribuito alla caduta del comunismo. Anche in Iran il rifiuto del velo è un’espressione politica e culturale insieme. Il movimento delle donne del 2022 diceva proprio questo: vogliamo vivere diversamente, non solo sopravvivere.

 

Hanno fatto paragoni con i bombardamenti americani della Seconda guerra mondiale. Orrore e sangue, ma in Italia, per esempio, avvicinavano la fine di Mussolini e una nuova classe dirigente aveva già preparato il futuro. In Iran invece solo paura? Il regista Jafar Panahi o la Nobel Narges Mohammadi dicono “basta, questa guerra non porta nulla”. Che ne pensa?

Israele ha reagito duramente per timore esistenziale, specie riguardo al programma nucleare iraniano. Ma gli attacchi non colpiscono solo obiettivi militari, coinvolgono anche la popolazione civile. Gli iraniani hanno già pagato un prezzo altissimo con la guerra Iran-Iraq, che non avevano voluto. Oggi si sentono isolati, stanchi, spaventati. Non vogliono essere parte di questa equazione bellica. Ecco perché artisti, intellettuali, attivisti cercano di far sentire la loro voce fuori dal paese: firmano appelli, pubblicano articoli su Le Monde, dicono chiaramente che non si riconoscono nel regime. Ma sanno anche di non avere alcun potere reale per fermare né Israele né i pasdaran. Chi parla di “regime change” non dice come dovrebbe avvenire. Intanto la popolazione subisce. Ma nessun giovane vorrebbe combattere per il regime, anche se questo non significa però che approvino gli attacchi israeliani contro i civili.

 

Il regime sta usando la guerra per intensificare la repressione, anche dopo le proteste del 2022?
Assolutamente. Ogni volta che la popolazione non aderisce al nazionalismo di Stato, il regime reprime. Teme che l’opinione pubblica si separi dalla propaganda islamista. E allora reprime con la violenza, perché non ha argomenti: governa con le armi, non con le idee. È così dal 2009, e ancora oggi manca qualsiasi canale di dialogo tra popolo e regime. La gente vive nella paura e nell’incertezza.

 

E c’è speranza di cambiamento dall’interno?
Il potere non è più nelle mani dei religiosi, ma dei Guardiani della Rivoluzione. Controllano economia, politica estera, commercio, nucleare, relazioni con Cina e Russia, persino i mercati neri. Dopo la presidenza Khatami, tutto è passato sotto il loro controllo. Recentemente Khamenei ha concesso loro nuovi poteri. Se continueranno sulla via dello scontro, potranno dichiarare la legge marziale: di fatto lo stanno già facendo, con posti di blocco, controlli notturni, ossessione per le spie. Il parlamento non conta nulla. Il ministero degli Esteri neppure. A decidere sono solo i pasdaran.

 

L’Iran non è omogeneo: curdi, sunniti, arabi… La guerra potrebbe frammentare il Paese?
Sì, c’è il rischio di una balcanizzazione o “libanesizzazione”. Le minoranze – curdi, baluci, arabi – potrebbero armarsi, magari con l’aiuto esterno, per esempio da Israele. Quando ero in prigione sentivo prigionieri parlare in curdo e in arabo: erano dissidenti delle regioni di confine. Le élite iraniane, ne hanno avuto paura per molto tempo. Si diceva: cercate di non usare troppa forza, cercate di non uccidere così tante persone nel Kurdistan iraniano o nel Baluchistan, perché queste sono persone e tribù che controllano storicamente le frontiere dell’Iran. Se li combatti, apriranno le frontiere. Se li si reprime con violenza, quei confini si aprono al caos. E allora la guerra diventa regionale, non più interna. Per ora il regime dice che è una guerra limitata. Ma la realtà è più fragile di quanto ammettano.

 

Stiamo assistendo alla fine dell’Asse della resistenza contro Israele? E cosa comporterebbe?
Il regime iraniano ha investito per decenni nella costruzione di un’egemonia regionale: Hezbollah, Hamas, Houthi, Siria. Ma oggi i rapporti di forza si sono invertiti. Israele sta vincendo in Libano, Yemen, Gaza, ma questo tentativo di Israele di diventare una potenza egemonica in Medio Oriente non deve trasformarsi in un’impresa di vendetta. Finché Israele comprenderà questo processo, l’establishment israeliano dovrà capire che non deve trasformare l’Iran in una nuova Gaza. L’Iran è isolato, a corto di armi, ha sottovalutato il Mossad e la capacità di infiltrazione. Israele ha il supporto di Stati Uniti ed Europa e anche il governo italiano si è espresso chiaramente. Nessuno in Occidente sosterrà il regime iraniano. A questo punto, l’unica strada percorribile per Teheran è la diplomazia. Il popolo iraniano non vuole bombardamenti, non vuole morire. Vuole vivere. Ma il regime continua a vivere nell’illusione dell’eroismo anti-Israele. Se non cambia rotta, rischia il suicidio politico e militare. E se dovesse entrare in guerra anche l’America, magari con Trump, il regime potrebbe reagire attaccando il Golfo Persico, l’Arabia Saudita, il Qatar. Tutto potrebbe degenerare. Ma ormai non dipende più solo da Israele. Dipende dagli Stati Uniti e dall’Europa.

 

 

Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblicata da La Repubblica il 20 giugno 2025. 

Immagine di copertina: Ramin Jahanbegloo a un evento a Praga l’11 settembre 2009. (Photo by Michal Cizek / AFP)

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