Israele, allarme Meretz: «Subalterna
e divisa, la sinistra rischia di sparire»

A quaranta giorni dal voto parla il leader Nitzan Horowitz

È stato il partito per cui hanno votato i più grandi scrittori israeliani, Amos Oz, Abraham Yehoshua, David Grossman, o grandi intellettuali come è stato Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano recentemente scomparso. Il partito dei grandi raduni pacifisti, dei diritti civili, di una concezione pienamente laica della società e dello Stato d’Israele. Questo è stato il Meretz. Un piccolo, grande partito che ora rischia di uscire dalla Knesset. Per eleggere una pattuglia di parlamentari, 4, si deve superare la soglia di sbarramento, nel collegio unico nazionale, fissata dalla legge elettorale al 3,25%. Il Meretz è border line.

Secondo il sondaggio diffuso nei giorni scorsi da Channel 12, se le elezioni, le quarte in due anni, si tenessero oggi il Likud di Netanyahu conquisterebbe 30 seggi, confermandosi il primo partito, seguito a distanza dalla formazione centrista Yesh Atid di Yair Lapid che si fermerebbe a 17. In calo i due partiti alternativi al Likud a destra: la nuova creatura di Gideon Sa’ar “Nuova Speranza”, che prenderebbe 14 seggi, e Yamina di Naftali Bennett (13). La Lista Unita araba, oggi a 15 seggi, scenderebbe a 10, mentre i partiti ultra-ortodossi Shas e United Torah Judaism ne conquisterebbero 8 e il partito Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman 7. I laburisti guidati da Merav Michaeli sono in salita (5), il Meretz viene dato come detto a 4, ma con una fatidica oscillazione al ribasso, mentre crolla Blu e Bianco di Gantz a 4 dagli attuali 14. Fuori dai giochi ormai le formazioni fondate da due “pesi massimi mancati” come l’ex sindaco di Tel Aviv Ron Huldai e l’ex capo di Stato maggiore Moshe Ya’alon, che di fronte alla prospettiva di un magro risultato hanno annunciato il ritiro dalla corsa.

Del Meretz, Nitzan Horowitz è il leader. Colui che è chiamato a una missione “storica”: non far scomparire il partito dalla geografia parlamentare israeliana. Reset lo ha intervistato in esclusiva.

Gli ultimi sondaggi danno il suo partito appeso a un filo: qualche decimale sopra o sotto la soglia di sbarramento del 3,25%. A quaranta giorni dal voto, si sente alle prese con una “missione impossibile”?

Impossibile certamente no, ma indubbiamente difficile. C’è una frantumazione delle liste che rischia di disperdere centinaia di migliaia di voti. E poi c’è la potenza economica di chi può permettersi una campagna elettorale fatta soprattutto, in tempi di coronavirus, di spot televisivi o spazi pubblicitari sui giornali, che squilibra ancor di più il nostro sistema democratico.

Ma è solo questione di mezzi o dentro la crisi di rappresentatività che colpisce la sinistra oggi in Israele, non solo il Meretz ma anche il Labour, c’è anche altro?

C’è anche altro e molto. C’è una crisi di radicamento sociale, c’è un deficit di rinnovamento generazionale, c’è un tatticismo esasperato dietro al quale si sono spesso celate ambizioni personali e logiche di fazione. C’è una sinistra che ha avuto difficoltà enormi nel proporre la propria agenda politica e che non è riuscita a intercettare e dare risposta al malessere sociale che la pandemia virale ha moltiplicato, così come le disuguaglianze.

C’è chi sostiene, anche tra gli analisti a Tel Aviv non certo tacciabili di simpatie per la destra, che una delle ragioni della crisi della sinistra è essersi accontentata di farsi rappresentare, e percepire, come “campo della pace”, in una fase storico-politica in cui il tema della pace con i palestinesi è relegato a piè di pagina negli interessi e nelle priorità degli israeliani. È una lettura ingenerosa?

Ingenerosa no, direi parziale. Ma certamente coglie un aspetto fondamentale di quella crisi di rappresentanza a cui facevo riferimento in precedenza. La pandemia ha reso ancora più acuta una crisi economica e sociale preesistente. Decine di migliaia di famiglie sono sotto la soglia di povertà, sono stati già persi migliaia di posti di lavoro e centinaia di aziende sono state costrette a chiudere. La questione sociale, unità a quella sanitaria, è diventata la grande emergenza nazionale. In questi mesi si è sviluppato dal basso un movimento di protesta contro la gestione sciagurata del governo in carica, a cominciare dal primo ministro, nella conduzione della “guerra” al Covid. Netanyahu è passato da una sottovalutazione irresponsabile, nonostante gli avvertimenti di medici e ricercatori, ad un lockdown politicamente mirato…

In che senso “mirato”?

Nel senso che Netanyahu ha negoziato le chiusure con i suoi fidi alleati della destra religiosa. E così, invece che gli scienziati a influenzare in negativo la diffusione del virus sono stati gli haredim (gli ebrei ultraortodossi, ndr) che hanno preteso e ottenuto da Netanyahu di non chiudere le yeshivot (le scuole talmudiche, ndr), in spregio del distanziamento sociale, dell’uso delle mascherine o del gel per le mani.

Un movimento, quello a cui lei fa riferimento, che ha manifestato per mesi, “assediando” l’ufficio del primo ministro a Gerusalemme e la sua residenza privata a Cesarea. Eppure l’opposizione di sinistra non sembra averne tratto giovamento in termini di consensi. Perché a suo avviso?

Il discorso è davvero complesso, ma in uno sforzo di sintesi direi così: siamo stati subalterni a quello che è stato più che uno slogan: “Tutti, tranne Bibi”. Ora, lungi da me sottovalutare il ruolo assolutista che Benjamin Netanyahu ha da oltre un decennio nella vita politica israeliana. È stata sua la scelta di portare il Paese per la quarta volta in due anni al voto, nonostante l’emergenza sanitaria e una devastante crisi sociale. E questo per non aver ottenuto una legge che gli avesse garantito l’impunità, e non “solo” l’immunità, di fronte alla Legge per i gravi reati di corruzione, frode e abuso d’ufficio per i quali è a processo. Detto questo, ritengo che sia stato un grave errore subire quel “tutti, tranne Bibi”. Perché in quel “tutti” ci sono personaggi come Gideon Sa’ar o Naftali Bennett, che incarnano una destra oltranzista, radicalizzata ideologicamente, iper-liberista in economia, oltre che succube del movimento dei coloni. Siamo caduti nella trappola della personalizzazione dello scontro, come se tutto dipendesse dall’uscita di scena, che io spero per il bene del Paese arrivi al più presto, di Netanyahu. Evidentemente non abbiamo imparato la lezione della storia.

E quale sarebbe questa lezione?

Se la sinistra si riduce a una sorta di fotocopia della destra, magari dalle tonalità meno aspre e più aggraziate, allora la gente preferisce votare per l’originale. Se accetti di giocare sul terreno imposto dall’avversario, finisci inevitabilmente per perdere. Se poi aggiungi la mancanza di una leadership carismatica, la frittata è fatta. Le devo però ancora una risposta sulla questione del “campo della pace”.

Punto dolente?

No, direi meglio punto di verità. Sono sempre stato convinto, e lo sono anche oggi, che esiste un nesso fortissimo tra pace e giustizia sociale. Tra pace e democrazia. Un Paese che si sente permanentemente in trincea, circondato da un mondo arabo che viene raccontato come totalmente ostile, come una minaccia mortale contro cui fare fronte, questo Paese finisce per ritenere inevitabile destinare la maggior parte delle risorse finanziarie alla difesa, sottraendole alla sanità, a creare occupazione, al sostegno degli anziani o delle madri single. Sia chiaro: credo che lei non troverà nessuno in Israele che pensi di essere circondato da “amici”. L’antisionismo, e spesso l’antisemitismo, sono stati il collante ideologico utilizzato nel corso degli anni da innumerevoli raiss arabi o regimi teocratici per garantirsi il consenso interno. Una potente arma di propaganda. Ma su questa realtà, la destra ha costruito una narrazione demonizzante che ha portato ad affossare il processo di pace e la soluzione “a due Stati” e a finanziare la colonizzazione dei Territori, facendo dei coloni i nuovi “pionieri” del sionismo. In certi momenti avremmo dovuto osare di più, essere più coraggiosi, saper andare contro corrente. E di questo paghiamo il prezzo.

A sinistra, e questo in verità non è un “peccato” solo israeliano, uno degli sport più praticati è quello delle scissioni, che arrivano fino alla traduzione politica della scomposizione dell’atomo. Nessuna autocritica da fare in proposito?

A parole tutti siamo campioni in autocritica. Il problema è quando dalle parole si deve passare ai fatti. Lo si vede anche in questa tornata elettorale: noi abbiamo proposto al Labour e a The Israelis di costruire liste comuni su un programma fondamentale alternativo alla destra sui temi di più scottante attualità: la campagna di vaccinazione, il sostegno a quanti hanno perso il lavoro, un piano straordinario per l’occupazione, investimenti nella ricerca e nell’istruzione…

E quale risposta avete avuto?

Interlocutoria, definiamola così. Stiamo discutendo ma il tempo stringe. Ognuno deve sacrificare qualcosa per far prevalere le ragioni dell’unità. E questo vale anche e soprattutto per le carriere individuali.

Alla nuova leader dei laburisti, Merav Michaeli, che chiedeva al suo predecessore, Amir Peretz, di scegliere tra restare ministro nel governo Netanyahu o rimanere nel partito laburista, Peretz non ha esitato un secondo: è uscito dal partito. Non è che ciò che resta della sinistra è afflitta dal “virus” del governismo?

Più che di governismo parlerei di “poltronismo”. Ma fuor di battuta, direi che a monte c’è un problema di fondo che è culturale oltre che politico: l’idea cioè che si conta solo se si detiene il potere, che il governo è il solo luogo della politica. In questa visione, il governo non è più uno “strumento” per esercitare il cambiamento ma un fine in sé, al quale sacrificare principi e valori ideali. La destra ha fatto e continua a fare un uso spregiudicato del potere, identificato con il governo. E Netanyahu è in questo un politico inarrivabile. Tuttavia, la destra non ha dismesso il proprio armamentario ideologico, sacrificato la propria visione, l’idea che ha di democrazia, dello Stato, della stessa identità ebraica. A sinistra abbiamo oscillato tra un pragmatismo senza idealità e l’esercizio di una testimonianza pura quanto sterile politicamente. In futuro, dovremo dimostrare di saper colmare questo gap tra idealità e concretezza.

Ma il futuro è adesso. È il 23 marzo prossimo. Il Meretz ce la farà?

Spero e credo di sì. Una democrazia che perde pezzi è una democrazia amputata. Ma noi, ne sono convinto, ci saremo.

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